In un’epoca in cui la vecchiaia è rimossa e la giovinezza è divenuta età invidiabile da rincorrere ad ogni costo, sembra incredibile che un piccolo libro di Enzo Bianchi, incentrato proprio su questo tema, sia da tanti mesi in classifica. Sto parlando de La vita e i giorni, pubblicato da Il Mulino ad aprile di quest’anno. Si tratta di una meditazione sul tema della vecchiaia ed è un libro breve ed intenso suddiviso in dieci capitoli, ognuno dei quali può essere letto in modo autonomo.
Si parte dalle “Età e stagioni della vita” e si finisce con “Diario della vecchiaia”. Grazie a questa struttura, Enzo Bianchi costruisce una sorta di mappa in cui il lettore si muove agilmente malgrado la gravità e la densità dell’ argomento.
La sua forza sta nel non prendere le mosse da concetti astratti e indefiniti, ma da qualcosa di vivo e tangibile che egli stesso sta sperimentando sulla propria pelle: la vecchiaia, il declino del corpo, il tempo che passa, perché “della vecchiaia può parlare solo chi ne sa qualcosa”.
Sono semplici cose, egli osserva, a dar la misura del tempo che ci consuma: la necessità di un sostegno nel fare le scale, la vista indebolita, gli amici che a poco a poco se ne vanno o il risveglio al mattino più lento e difficile. La vecchiaia è un terreno nel quale l’uomo si addentra a piccoli passi “come in un paese straniero”, una terra nuova che conosciamo poco e in cui inoltrarsi cercando di cogliere l’importanza del mutamento.
Questo non vuol dire rassegnarsi, ma esser consapevoli. La consapevolezza è quella condizione senza la quale non è possibile abitare una nuova realtà corporea e spirituale fatta di movimento, di evoluzione, di divenire.
Per Enzo Bianchi, che da sempre intende essere un “discepolo di Cristo”, è fondamentale rivolgere lo sguardo alla eredità culturale di quello che Northrop Frye ha giustamente definito “il grande codice”, in particolare il Qohelet – presentato qui in una traduzione fedele all’originale ebraico – che è un vero e proprio testo poetico in cui, con diverse allegorie ed immagini ardite, si descrive l’impossibilità di prestare difesa e custodia al proprio corpo.
Un giorno – è scritto – gli arti tremeranno, “gli uomini forti diverranno curvi”, le salite faranno paura e “sarà fatica camminare sulla strada”, “il cinguettio degli uccelli si attenuerà, e i toni delle canzoni si affievoliranno.”
Il monito del poema è forte e deciso:
“Ricordati del tuo Creatore
nei giorni della tua giovinezza
prima che vengano i giorni cattivi (…)
prima che si oscurino il sole,
la luce, la luna e le stelle
e dopo la pioggia sia ancora nuvolo”.
Ed è esattamente questo l’ammonimento che con grande intensità Bianchi fa al lettore durante tutta la sua meditazione: invecchiare è una evoluzione che parte da lontano, che si prepara in età matura, quando l’esistenza coincide con la forza del corpo e dello spirito e con la luce del sole, perché “dolce è la luce” (Qo, 11,7). La vecchiaia si prepara con la vita, “perché la vita che viviamo dipende anche, non solo ma anche, dalle nostre consapevolezze, dalle nostre scelte, dalla qualità della convivenza che cerchiamo di edificare insieme agli altri, mai senza gli altri, giorno dopo giorno”.
L’età matura non dovrebbe essere vissuta come un “affronto, come ingiustizia, come assurdità, quindi sempre più fonte di paura e di angoscia”, ma preparata con scelte, atteggiamenti e stili. “Se non se ne parla, se non la si evoca, si finisce per rimuoverla” e si compromette “la naturalità della vecchiaia, perché non la si conosce più”. Invece, Enzo Bianchi ci invita ad avere il coraggio di affrontare “un’avventura che ha dell’inedito ma che è sempre una tappa della vita. Nessun eroismo, ma il coraggio è una forza interiore per un cammino che è il penultimo, prima del passaggio a un’altra riva”.
La vecchiaia, dunque, non è il concludersi del tempo, ma il suo svolgimento, è un tempo in cui poter trovare il proprio passo, “lasciare la presa” e fare “preparativi pasquali”.
“Nell’Aldilà – continua – non vorrei essere solo con Dio, ma anche insieme a quelli che ho amato e che mi hanno amato, insieme agli altri, all’umanità intera di cui faccio parte e nella quale sono stato concepito e generato, sono nato e cresciuto, vivendo mai senza l’altro”.
Non è una speranza folle, ma la “convinzione che qualcosa di eterno lo abbiamo vissuto nella nostra vita: l’amore.
Enzo Bianchi è convinto che il fatto stesso di vivere sia una benedizione e che, come scrive Ireneo di Lione, “l’uomo che vive è la gloria di Dio”. Dinanzi alla morte l’ex priore del Monastero di Bose si pone con umiltà, come dinanzi a un mistero. Menziona gli straordinari versi di Rilke:
“O Signore concedi a ciascuno la sua morte: frutto di quella vita in cui trovò amore, senso e pena. Noi siamo solo la buccia e la foglia. La grande morte che ognuno ha in sé è il frutto intorno a cui ruota ogni cosa”. Dunque, “la morte ci appartiene e deve appartenerci, ma resta sempre un enigma, anche quando la si accoglie. Per questo l’eternità va cercata e affermata oggi e qui”.
Questa lunga meditazione, che pure è incentrata in modo esplicito sui temi della vecchiaia e della morte, è in realtà una vera dichiarazione d’amore alla vita. Una vita piena, costruita in comunione con il prossimo, con il Creatore e soprattutto con la natura, con la quale Enzo Bianchi, figlio di contadini, ha una relazione strettissima.
E’ commovente in queste intense pagine la continua e vibrante lode alla natura, al mare e al sole, agli alberi “veri compagni di vita” e maestri, ai fiori e al bosco. Amore per l’Uomo e amore per il Creato, compagno di cammino.
In un momento storico in cui la morte appare sempre più distante, poiché l’imperativo è apparire attivi e attraenti, e lo slogan propagandistico e urlato sta sempre più spesso sostituendo l’arte del ragionare, ancora una volta Enzo Bianchi ci insegna che non possiamo cedere all’isolamento narcisistico, ma perseguire una cultura umanistica che metta al centro la persona con le sue fragilità e pensare la vecchiaia non come ad un viaggio solitario nel deserto, ma ad un “itinerario di persone che camminano insieme”.
“Perché non è vero che ‘gli altri sono l’inferno’, come affermava Jean-Paul Sartre: il vecchio capisce bene che l’inferno è non amare e non essere amati. Anche nella vecchiaia l’amore è sempre da inventare, ma con gli altri e non nella solitudine”.