Perdersi nella storia della rapina ambientata all’interno della Zecca di Stato spagnola, fare nottata per vedere come va a finire e tornare ad essere una donna libera dal pensiero fisso di Netflix, sentirsi come quando sai che saluti delle persone che non vedrai più, a cui ti sei affezionata: La casa di carta per me è stato tutto questo.
Il piano è realizzare la rapina più eclatante della Storia
Devono entrare nella Zecca di Stato, stampare 2.400 milioni di euro e sparire nel nulla. Per questo l’ideatore, il Professore, mette insieme otto persone, scelte ognuna per una competenza specifica che sarà funzionale alla rapina, che hanno in comune il fatto di non aver niente da perdere. Nessuno conosce l’identità dell’altro (non è esattamente così perché ci sono un padre con un figlio e due amici storici), ognuno sceglie il nome di una città e la mente di tutto è appunto Il Professore, il cui padre, a sua volta rapinatore, ebbe l’idea.
L’entrata alla Zecca è preceduta da 5 mesi di addestramento in cui Tokyo, Rio, Denver, Mosca, Berlino, Nairobi, Helsinki, Oslo e il Professore imparano a conoscersi, a interagire e a capire la strategia alla base del piano, potremmo anche dire la psicologia, fondamentale per la sua riuscita. Le regole sono semplici: non ci deve essere violenza, non ci devono essere morti, il mondo che guarderà l’evolversi della situazione in diretta tv deve parteggiare per loro, così come dovrebbero fare gli ostaggi.
La Resistenza
Perché, in realtà, il sogno del Professore (Álvaro Morte) è una sorta di rivolta sociale; non è una rapina vera e propria, non stanno rubando i soldi di nessuno, “semplicemente” ne stampano di nuovi, in una sorta di Resistenza contro la tirannia del potere finanziario contemporaneo: per questo la gente normale sarà dalla loro parte.
Il concetto di Resistenza è alla base della vita del Professore: era un bimbo malato e suo nonno, partigiano in Italia durante la guerra, gliene insegnò il significato insieme alla nostra Bella Ciao, che fa da colonna sonora alla serie. E la “resistenza” è, giocoforza, anche il punto focale della storia: nessuno di loro, né rapinatori né ostaggi, ha la più pallida idea di come andrà a finire, quindi resistono cercando di capirlo, ognuno a modo suo.
Tutto in cinque giorni
Si fa fatica a credere che narrativamente siano solo 5 giorni, scanditi proprio da un orologio che di quando in quando ti dice quanto tempo è passato dall’inizio della rapina: l’evoluzione dei personaggi e le loro sfaccettature sono talmente complesse e avvincenti che è facile pensare che stiano lì dentro da settimane.
Ho iniziato a vedere La Casa di carta (guarda qui il trailer) con nonchalance, addirittura in spagnolo con sottotitoli in spagnolo, così da avere pure la scusa ufficiale: sto studiando, non sto “semplicemente” vedendo la tv! Bene, è durata i primi 4 episodi: la mia conoscenza della lingua non è tale da potermi concentrare sulla storia senza leggere, quindi ho lasciato perdere il (vago) senso del dovere e mi sono goduta La casa di carta in santa italica pace. 🙂
Andata in onda inizialmente come serie nazionale in chiaro, una volta distribuita da Netflix, a partire da dicembre 2017, ha raggiunto 190 Paesi, diventando la serie tv non in lingua inglese più vista di sempre. Proprio pochi giorni fa, precisamente il 26 ottobre è andato online il video (vedi qui sotto) dedicato all’inizio delle riprese della terza stagione, prevista per la primavera 2019.
Video per l’inizio delle riprese della terza stagione
Dal punto di vista culinario La casa di carta ha ben poco da dire. Visto che sia ostaggi che rapinatori sono barricati all’interno della Zecca, quello che mangiano è solo cibo da asporto che viene recapitato dall’esterno. Chili e chili di pizza, panini e cibo cinese, da quello che si evince dai cartoni che vediamo periodicamente in mano ai personaggi.
Culinariamente parlando, se si dice Spagna le prime cose che vengono in mente sono la Paella e il prosciutto, il fantastico jamòn. C’è però un altro piatto che si trova ovunque in giro per la penisola iberica, la Tortilla di patata. Calda, fredda, a spicchi, a cubetti, diciamo che è una sorta di frittata – a differenza delle nostre molto alta – di patate e cipolle. Ci sono tante variazioni quante sono le padelle spagnole ma quella originale, un piatto popolare a costo praticamente nullo, ha solo questi tre ingredienti, uova, patate e cipolla, più sale e olio.
“Vorrei delle uova fritte, per favore, sono giorni che mangio da schifo” dice Tokyo (l’attrice Úrsula Corberó) a un certo punto e mi ha fatto venire in mente questo semplicissimo piatto di cui sono molto golosa. A me piace la versione con l’uovo poco cotto perché dà una cremosità che accompagna a meraviglia una birretta gelata. Se non vi piace l’uovo semicrudo basterà prolungare di qualche minuto la cottura.
Tortilla di patate
600 gr di patate
4 uova
1 cipolla gialla media
Sale
Olio extravergine di oliva
Lavate e sbucciate le patate, poi tagliatele a cubetti il più regolari possibile. Fate scaldare un paio di cucchiai di olio in una padella e versateci le patate, facendole rosolare piano piano.
Nel frattempo sbucciate la cipolla e tagliate anche questa a pezzetti (io la taglio a fette e poi taglio ogni anello in pezzi). A metà cottura delle patate unite la cipolla così che arrivino a cottura, morbide e dorate, contemporaneamente.
Scolate eventuale olio in eccesso – sarebbe la prima volta che le patate non si impregnino di tutto l’olio esistente nei paraggi, ma le leggi della fisica sono imponderabili – e fate raffreddare.
In una ciotola sbattete sufficientemente le uova con un pizzico di sale, poi unite il miscuglio di patate/cipolle.
Fate scaldare un altro paio di cucchiai di olio in padella e versatevi il composto, fate cuocere per circa 5 minuti a fuoco medio, poi girate la frittata (c’è chi è un mago in questo :-)) e fate dorare pure dall’altro lato.
Fatto! La birra in frigo c’è??