Zi’ Bianca

Zi’ Bianca non era una bella donna: un fisico non proprio filiforme, gambe massicce, un lungo viso dai grandi occhi ravvicinati e ipertiroidei che, per giunta, lei usava strabuzzare spesso e volentieri, capelli sale e pepe ispidi e corti.

Originaria dell’Abruzzo, era venuta a vivere a Roma da ragazzina, sicché parlava quel bel romano d’una volta. Con una sola concessione al dialetto natio: quando si rivolgeva a noi nipoti, iniziava o finiva la frase con zié, che stava a significare indifferentemente te lo dice la zia o dillo alla zia.

Zi Bianca. Un racconto di Cronache Letterarie. Illustrazione di Elisa Mancini

Era la proprietaria d’una stireria situata in centro, in piazza Nicosia, dove svolgeva da sola tutte le mansioni, dalla stiratura alla pulizia del locale. Lavorava lì dalla metà degli anni ’30, quando era stata assunta come apprendista dalla vecchia proprietaria, la sòra Cesira. Quando poi sul finire degli anni ’50 questa morì, Bianca, che non s’era mai sposata, rilevò l’attività decidendo però di restare da sola a sbrigare il lavoro: del resto, era quello che andava facendo da tempo visto che Cesira negli ultimi anni si era limitata a fare atto di presenza. La stireria divenne così il suo mondo: le capitava spesso di rimanere a bottega fino a tardi, anche di domenica. Lavorando nelle vicinanze dei palazzi del potere, Bianca vantava parecchi clienti altolocati.

Io andavo a trovarla con la scusa di portarle capi difficili da stirare, ma in realtà mi faceva piacere passare un’oretta a parlare con lei del più e del meno.
Un pomeriggo (eravamo intorno alla metà degli anni ’80, in epoca craxiana) ero lì a chiacchierare con lei avvolta dal vapore del ferro da stiro quando vidi entrare un deputato socialista. Non era un pezzo da novanta, ma neppure una mezza calzetta: lo si vedeva spesso in televisione perché a quell’epoca aveva un incarico in vista, forse come membro di una commissione parlamentare, non ricordo.

− Sono venuto a prendere la mia roba, disse lui senza preamboli.
Bianca aveva ancora gli occhi abbassati sulla tovaglia di fiandra che stava stirando.

− Ah, siete voi, gli fece alzando lo sguardo. E che è stato? La domestica s’è ammalata?
− No, ha da fare, e io stasera ho bisogno della camicia con lo sparato.
− Ve la porto subito, gli fece Bianca. Prendete solo quella o anche il resto? È tutto pronto.
− E allora prendo tutto.

Poggiò il ferro e andò nel retro a prendere un pacco avvolto in una carta rosa traslucida, su cui aveva scritto a pennarello il nome del cliente preceduto dalla qualifica On.le.

− Ecco qua, gli disse, fanno sedicimila lire.
− Metta in conto, le fece lui allungando una mano per prendere l’involucro.

Ma Bianca fu più lesta e, dopo aver allontanato il pacco, gli disse con voce allusiva:
− Mi dispiace tanto, onore’, ma io i conti non li so fare…

Il deputato restò letteralmente a bocca aperta, ma dopo un attimo di smarrimento ritrovò la sua baldanza per chiedere, con aria vagamente ironica e minacciosa:
− Signora, ma dico, fa sul serio? Ma lei sa chi sono io?

Bianca non si scompose.

− Certo che lo so, gli fece paciosa. Lo so così bene che ho scritto il vostro nome sul pacco, vedete? Ma so pure chi sono io: una che da cinquant’anni si spezza la schiena sui panni di mezza Roma tenendo sempre bene a mente il motto della casa, disse indicandogli con un lieve scarto della testa un quadretto posto alle sue spalle: su un foglio di carta incorniciato a giorno c’era scritto Si fa credito ai novantenni solo se accompagnati dai genitori.

L’onorevole lesse e tornò a guardarla basito. Poi allungando un braccio verso le sue camicie disse con fare sbrigativo:
− Adesso finiamola con questi scherzi, ché non ho tempo da perdere.

Bianca protesse il pacco con una mano e con l’altra afferrò il ferro da stiro, la piastra rivolta verso il braccio dell’uomo:
− Non ve lo consiglio, onore’. E guardate che il ferro è al massimo, sto stirando una tovaglia di lino: uomo avvisato…

Nonostante il tono divertito e il sorriso sulle labbra non stava scherzando: era evidente, e anche lui se ne accorse.

− Andiamo, signora, la pago la prossima volta.
− Ma certo, e che problema c’è, gli fece lei conciliante riponendo il ferro.
− Posso prendere il pacco, adesso?
− Lo prendete la prossima volta.

Il poveretto avrebbe anche voluto spazientirsi, ma avendo capito di avere davanti un osso duro, forse il più duro che gli fosse mai capitato d’incontrare dacché era entrato in politica, cercò di scendere a più miti consigli.

− Su, signora, sia ragionevole: ho bisogno di quella camicia per stasera.
− E allora prendete solo quella, fanno ottomila lire.
Ottomila lire per una camicia?
− Ottomila lire per quella camicia: mi ci sono voluti tre quarti d’ora per inamidarla, con tutte quelle piegoline. Le altre le stiro in dieci minuti, e infatti le metto a duemila.

− Ma non ce le ho, cerchi di capire: esco sempre senza portafoglio, credo di avere solo pezzi da cento.
− Sono carte o bittippì, gli chiese Bianca con un sorrisetto sardonico.
− Come sarebbe a dire, BTP? Sono banconote!
− E allora potete cambiarle al bar qui di fronte. Sapete, i bittippì non ve li cambiano: per quelli bisogna andare in banca, disse lei con un tono da maestrina indicandogli la porta. Andate a nome mio, vi tratteranno bene, gli fece poi prendendolo gentilmente per un braccio e guidandolo verso l’uscita.

Io la guardavo incredula e ammirata, e quando fummo sole scoppiai a ridere.

− Te faccio ride, eh, zié? E nu’ je basta quello che ce mettono ‘n conto tutti i giorni, mó vònno mette ‘n conto pure le camicie. Nun da’ retta, so’ tutti ‘na razza: bianchi, rossi, neri, verdi, gialli… Uno mejo de ‘n antro.

Staccò il ferro da stiro e si mise le mani sulle reni con una piccola smorfia di dolore.

− Ce l’avevo pure e’ resto da daje, ma ‘na passeggiatina je schiarisce l’idee, nun te pare, disse ridacchiando mentre ripiegava con perizia la tovaglia stirata.

Andò a sedersi sulla poltrona di vimini che era stata il trono di Cesira nei suoi ultimi anni di vita.

− Mó te ne racconto una, zié. Che sarà stato, er ’59, er ’60 ar massimo: la pòra Cesira era morta da poco e io stavo già da sola a bottega, se fa presto a fa’ li conti. Entra uno de questi. Vecchio come er cucco. Me porta du’ vestiti da sera, uno da omo e uno da donna, e me fa, diceee, «Signo’, me servono in giornata». «No, onore’, pe’ oggi nu’ gna’a faccio». «E su, la prego, sia gentile, je pago quello che vòle». E tira, e molla, e tira, e molla, pe’ fattela corta, accetto. Quanno la sera passa a ritiralli, me dice propio come m’ha detto questo: «Metta ‘n conto»…

Sorrise alzando le sopracciglia e scuotendo lentamente il capo, come a sottolineare il rimpianto che ancora l’affliggeva.

− Ah nì, come se dice? Er momento der fesso ariva pe’ tutti. Je conzegno li vestiti senza famme paga’. Ce credi, zié? Quanno passava qua davanti traversava la strada pe’ nun fasse véde. E annava tutti li giorni ‘n chiesa a bàttese er petto, ‘sto fijo de ‘na mmmhhh…

Portò la mano alla bocca e si baciò il palmo due o tre volte.

− Famme sta’ zitta, va, ché lui sta in lògo de verità e io de bucìa… Nun pòi sape’ che urto de nervi, zié… Ma io allora ero ‘na fralloccona, nun protestavo mai. ‘Na notte me sogno a Cesira che me ne dice tante, ma tante… «A sceeema! Fatte pagaaa’!». Me svejo co’ certe paturnie che nun te dico: me pareva che quer sogno m’aveva cambiata, me sentivo diversa, che t’ho da di’: meno fregnona. ‘Nzomma, la prima vorta che te lo vedo passa’ je córo dietro, lo fermo e je faccio, dicooo, «Onore’, v’aricordate de quer conticino?». Ah nì, lo sai che me risponne? Me fa, diceee, «Ma, buona donna, che vuole da me? Io non la conosco…».

Batté le mani e le portò unite al volto.

− Zié, nun ci ho visto più. «Ah, sì? Nun m’ariconoscete? E scommetto che nun v’aricordate manco de li vestiti da sera da stira’ in giornata…». «Mah, non capisco», me fa lui, «forse mi confondete con qualcun altro».
«No, onore’, io ce sto ancora co’ la testa e nun confonno a nisùno. Ma nun ve pijate pena, stavorta ve l’offro io la stiratura: omaggio de la casa. Però ve dò ‘n consijo: ar prossimo ballo, annate a favve stira’ li stracci da ‘n’antra parte. Nun v’aripresentate più da me, onore’, stàteve accorto perché si v’arivedo a bottega quant’è vero Dio ve stiro le ganasse. Ce semo capiti?».

Ah nì, era rosso come ‘n gambero. Me possino cecamme si ha aperto bocca. Prima d’annammene je faccio, dicooo, «Ah, ‘n urtimo consijo, onore’, ché voi venite da fòri e certe cose nu’ le sapete: bona donna annatelo a di’ a vostra sorella, fateme er piacere, perché qua a Roma le bone donne nun so’ oneste come mmé. Stàteme bene, onore’, tante belle cose e salutateme ‘a signora.» E lo pianto là, davanti a quer portone.

Quella storia riusciva ancora a innervosirla, si vedeva.

− ‘O vedi quer crocifisso, zié? Sta là dar 1910, te pòi figura’: l’ha viste tutte… So’ tornata drento e l’ho giurato davanti a Lui: me ci hanno fregata ‘na vorta, nun me ce fregano più.

L’onorevole tornò di lì a poco visibilmente più disteso: al bar dovevano avergli parlato bene di Bianca, perché le fece un gran sorriso dicendole:

− Certo che lei è tremenda! Non avevo ancora conosciuto una donna come lei…
− Eh, ce lo so, gli fece Bianca con una punta di orgoglio mentre gli andava incontro col pacco delle camicie; per distrazione, continuava a parlare il romano che aveva usato con me. Ce ne fossero ‘n po’ de più, de donne come me, nun faréssivo tutti li pastrocchi che fate, nun ve pare, onore’?

L’uomo sgranò gli occhi senza credere alle proprie orecchie e senza trovare il fiato per replicare.
Pagò, prese il suo involucro e uscì a testa bassa bofonchiando un saluto.

− Je l’abbasso io la cresta, a ‘sti onorevoli, mormorò fra sé mentre riponeva il denaro nel cassetto del tavolo da lavoro.

Tornò a sedersi, aggrottò le sopracciglia e portò la mano alla bocca:
− Mó m’ha fatto pèrde er filo: che stavamo a di’, zié?

Bianca morì nel 2002. Aveva ottantuno anni, e aveva lavorato fino all’ultimo. Da allora, la porticina ad arco della sua bottega è sempre rimasta chiusa con un vecchio catenaccio, inflessibile custode di un’esistenza semplice e onesta.

 

Elisa Mancini,  che ha realizzato l’illustrazione di Zi Bianca, è studentessa universitaria del corso di Grafica e comunicazione visiva.  Curiosa e attenta osservatrice, fa uso prevalentemente di grafica flat, ma spazia anche  in altre tecniche grafiche.
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Gae Liberati

Gae Liberati

Nullafacente che fa un sacco di cose per suo esclusivo diletto, ogni tanto scrivo, con sommo piacere, un articolino per Cronache Letterarie. Vivo fra Parigi e Berlino, concedendomi di quando in quando una settimanella a Roma per far provvista di libri e di colesterolo.

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