Anche se tutto dovesse cambiare sotto ai nostri occhi al punto da renderci fastidioso continuare a guardare. Anche se la confusione ci farà vacillare e con essa il dubbio e l’indecisione. Avremmo comunque sempre una certezza. C’è qualcosa che non ci deluderà mai: la musica.
Sono a Genova e a Genova la musica ti rincorre. La musica plasma, o ha già plasmato i vicoli, che di versi traboccano. La musica dà alla città il suo carattere. Genova, che non avevo mai visitato, dall’atmosfera stranamente familiare. Sarà tutta questa musica che aleggia anche senza farsi sentire. Si percepisce persino nella sua pianta architettonica, così simile al rotolo di uno spartito, disseminato di piccole note che si ergono in altezza ad investire tutti i toni, ma che poi si arrotola su se stesso per conservarsi.
I musicisti a cui questa città ha dato i natali, seppur nella loro semplicità, finiscono sempre per mostrarsi straordinari. Ci sarà pure un motivo… Essi non suonano semplicemente. Non riproducono arie, ma prendono parte con forza, attraverso la loro musica, al mondo. Lo afferrano. Lo violentano. Lo svergognano mettendolo a nudo. Ridono di lui. E si impongono con la loro presenza.
Uno su tutti, Nicolò Paganini, che a Genova nacque nel 1782 e a cui la città in questi giorni dedica una mostra interattiva, davvero interessante: Paganini Rockstar, visitabile fino al 10 marzo, presso l’Appartamento del Doge di Palazzo Ducale.
Paganini era indubbiamente un artista fuori dal comune. Sembrava quasi nato per sconvolgere, oltre che stupire, tutti coloro che riuscivano ad entrare in contatto con lui. Uno sconvolgimento tipico del suo linguaggio, la musica: linguaggio privo di significato apparente, che perfora l’anima per direttissima e condiziona il nostro umore, le nostre passioni, le nostre visioni. Prima dei suoi concerti a Roma, pare che Nicolò, per non rischiare il carcere, fosse costretto ad impegnarsi formalmente, per contratto, a non suonare in modo da commuovere il suo pubblico al punto di sconvolgerlo e portarlo, come spesso accadeva, in preda al delirio.
Paganini non suonava la sua musica. Era la sua musica, perché essa pervadeva il suo corpo nell’estensione del suo braccio, investendo tutti col suo potere.
Ascolto Paganini ogni volta che ho un dubbio. Ogni volta che mi manca il coraggio di abolire una barriera e assumere il rischio di agire per come sono. Chiudo gli occhi e lo ascolto. Ascolto i suoi virtuosismi, immaginandomi il delirio a cui mi avrebbe condotto se avessi avuto l’onore di condividere la sua epoca. E’ a lui che mi affido. Al suo potere di farmi cambiare umore, ma, soprattutto, di infondermi coraggio. Proprio per questo motivo, la musica è, per me che la coltivo e tento di praticarla da quando sono bambina, un fenomeno da sempre legato alla mia intimità.
Non nascondo, quindi, un certo scetticismo con cui sono entrata al Palazzo Ducale. Ma che fai? Sei a Genova per la prima volta, Paganini è uno dei motivi che ti ha ispirato a venire, e non entri? Così sono entrata.
E ho fatto bene perché la scelta delle istallazioni della mostra permette di mantenere una certa intimità. E l’esperienza dell’ascolto, non primaria in questa occasione, fa da sfondo alla scelta intelligente della parte visiva. Non dirò, per pudore, quanto tempo sono rimasta a fissare Roberto Bolle nella sua mirabile interpretazione inedita del CAPRICCIO n.24 in La minore. Lo si incontra a metà del percorso e ti inchioda. Non c’è niente da fare. Sei bloccata lì e ti fermi per un attimo a pensare a quanto fossero diversi loro due, Nicolò e Roberto. Probabilmente i più giovani sono condizionati dall’interpretazione che di Paganini ha offerto, in tv, l’affascinante e bravissimo violinista tedesco David Garrett, forse uno dei suoi interpreti contemporanei più conosciuti, ma così bello Paganini non lo era davvero.
Aveva i capelli lunghi e scarmigliati, gli mancavano dei denti, l’imponente naso aquilino spiccava nel viso pallido e ossuto. Magrissimo e cupo, esaltava questi caratteri vestendosi sempre di nero e portando occhiali dalle lenti blu, per generare ed alimentare il mistero sulla sua figura. Tutto il contrario di Roberto Bolle, la cui prestanza fisica e bellezza rasenta la perfezione, quasi ad incarnare un archetipo. Eppure la loro fusione li trascende e ti dimentichi che siano due, e non una, le persone che stai vedendo ed ascoltando. Hanno il potere di andare dritti all’essenza.
Autodidatta e quasi analfabeta, Nicolò Paganini aveva capito tutto ciò che l’educazione non può insegnare. E cioè che se non vuoi semplicemente lasciare un segno nel mondo, ma lo vuoi dominare sperando di cambiarlo, è innanzitutto al cuore che devi parlare. E’ il cuore che devi sconvolgere. Il resto viene da sé. Certo bisogna avere il suo talento… ma il talento è un dono a cui è annessa una responsabilità che Nicolò accetta, non finge di non averla, raccoglie la sfida impegnando tutto se stesso. Tutto il suo tempo l’ha passato ad esercitarsi fino all’ossessione.
Nella mostra Paganini non è da solo, ma alla forza del suo impatto sul pubblico è associato un altro personaggio, icona del rock contemporaneo: Jimi Hendrix. Anche lui talento straordinario, anche lui agitatore naturale di folle. Ma Nicolò è e rimarrà un vero modello perché la musica classica non è sottoposta al gusto del tempo. Lo travalica brutalmente. E allora Jimi ai miei occhi è solo un termine di paragone, uno dei tanti che magari alla prossima mostra sul Maestro sarà sostituito da una nuova icona.
Quindi non ho altro da dire. Andate a Genova, a farvi rapire dalla musica che parla al cuore. Che fa bene al cuore.