Dopo aver vinto il Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Roma, del regista messicano Alfonso Cuarón, vince il Golden Globe come miglior film straniero e miglior regia. Del film, prodotto da Netfilx e ambientato nel quartiere Roma di Città del Messico, ne scrive Paola De Santiago Haas, anche lei messicana di Città del Messico.
Roma, Messico
Vi dicono che è uscito un film messicano, si chiama Roma, e già lì qualcosa non quadra. V’informate meglio, guardate il trailer e vedete che è in bianco e nero; vedete enigmatiche scene surrealiste; ha un titolo che vi rimanda palesemente a Fellini. Andiamo a vederlo, pensate (è stato, dopo tutto e con qualche lieve polemica, vincitore del 75° Leone d’Oro a Venezia) e oltretutto la recensione dice che è l’Amarcord di Cuarón.
Pensate: va bene! Ci piace l’ispirazione a Fellini… anche se magari vi sareste aspettati di vedere il Messico famoso per i colori, il cibo succulento, per le musiche allegre, le spiagge bianche, il bell’artigianato, i pullman folcloristici carichi di gente e galline che attraversano il paese.
Oppure vi sareste aspettati di vedere atmosfere d’artista, personaggi della vita bohemienne, di quelli che abitano case rosa o blu decorate con cianfrusaglie e teschi alla dia de muertos di James Bond, storie di gente che scrive romanzi a base di realismo magico e pulque.
O forse vi sareste aspettati di vedere il paese in perenne viaggio verso il futuro, la metropoli più grande dell’America Latina — quella che spaventa e allo stesso tempo stimola — popolata da luccicanti boutique e franchising europei e americani, ipertecnologica, con sopraelevate spaziali e una metropolitana efficientissima, il vortice che non dorme mai.
Ma intanto avete visto il trailer e capito già che questa roba nel film non la troverete. Allora vi preparate a vedere un’opera ispirata al grande Federico… in fondo, non c’è cineasta che non abbia nei tessuti connettivi qualcosa di lui.
E invece… volete sapere? Di surrealista su quello schermo non c’è niente. E’ tutto vero — il Messico è esattamente come lo vediamo nel film Roma di Alfonso Cuarón (vedi qui il trailer). Non c’è Fellini lì, non più di quanto ci sia Rossellini, Wenders, Truffaut, o altri grandi. Con un’eccezione: da Fellini abbiamo preso in prestito il rumore del vento.
Che cos’è questo film che ha vinto il Golden Globe?
A sorpresa, per i curiosi e i coraggiosi Cuarón ha preparato un altro piatto. Autenticissimo, ma fuori dal solito menù. Qui da forestieri troverete un Messico che vi sarebbe concesso conoscere (forse) soltanto dopo decenni; mentre noi, los mexicanos, troviamo ciò che abbiamo da sempre (senza forse) fatto finta di non vedere, ciò che da sempre accade qui perché è proprio quello che siamo.
Nella patria del paradosso, da una parte ci sono milioni di colori mai visti altrove, dall’altra vaste aree con altrettante gradazioni di grigio che si dispiegano sui suoi due milioni di chilometri quadrati. Ci sono le classi sociali inesorabilmente connesse allo spessore e colore dei capelli, perennemente legate e perennemente divise. Ci sono le cose che cambiano di continuo per rimanere sempre uguali.
Guardate queste cose nel film di Cuarón, ambientazione 1970, e starete guardando il paese com’è tuttora, con qualche accorgimento per l’inflazione: il tizio in calzamaglia, le domestiche o muchachas, i lavatoi sui tetti, la repressione politica violenta. Sono ancora tutti lì, pronti all’appello.
Guardate bene e troverete ancora qualche Maverick (un vecchio modello della Ford), o le merendine dei ragazzi, i gansitos, che fin dalla loro invenzione non hanno visto mai un calo di popolarità. Scoprirete i terremoti, e le spiagge che “non sono belle” — attenzione ai dialoghi — ancora lì, più belle e selvagge che mai. Se salite sui mezzi pubblici e ascoltate bene, sentirete parlare mixteco, o otomí, o totonaca, o náhuatl.
Guardate bene e vedrete le colf indigene che vivono, convivono e sopravvivono nelle case delle famiglie dalla classe media in su — che si chiamino Cleo, Chela, Elpidia, o Leonor — lì nelle loro stanze appartate, che tengono in piedi l’organizzazione domestica e ascoltano Radio Mil andando a passeggio la domenica… con i loro sogni romantici ed i conti fatti con la realtà e l’inganno degli uomini.
Guardate lentamente, come ce lo propone (o impone) la cinematografia; soltanto lentamente si può dar ascolto e cogliere, con la dovuta attenzione, rispetto e pazienza, la storia raccolta attraverso la memoria giovanile di Cuarón. Dietro la riservatezza e dignità di queste donne ci sono le loro storie e quelle delle famiglie che le impiegano, complicate e commoventi.
E’ uscito un film messicano che è in realtà un film universale, con i sentimenti e le sfide comuni a tutto il mondo, con gli intricati modi di essere delle donne, dei bambini, degli uomini.
Allora, potrebbe essere che uscendo, direte: è tutto chiaro, il Messico ha anche questa faccia. E un quartiere che si chiama Roma.
E può darsi che vi capaciterete che il tizio in calzamaglia, laggiù, è esistito davvero.