Piaceri rubati di Gina Berriault
A Gina Berriault (1926-1999) è, in qualche modo, toccata la sorte dell’umbratile Josephine Johnson, premio Pulitzer nel 1935, piuttosto che quella del Nobel Alice Munro, anch’essa straordinaria autrice di short stories. E questo nonostante gli apprezzamenti sinceri di alcuni fra i più autorevoli scrittori della sua generazione, riportati in quarta di copertina.
All’editore Mattioli 1885 si deve la prima traduzione italiana dei racconti della scrittrice californiana, raccolti in Piaceri rubati: storie uniche per la drammatica intensità dell’ispirazione, la capacità narrativa di costruire trame inquiete ed inquietanti su particolari solo apparentemente secondari, e per la nitida eleganza formale. Doveroso quindi il tributo a questa scrittrice misconosciuta anche in America.
I suoi modelli vengono persino citati nel corso della raccolta: Gogol’ e Cechov più che Carver o Dubus, magari la Woolf, certo l’Achmatova, Whitman, Pound per la cifra poetica della sua prosa.
I “piaceri” sono quelli che la vita ha rubato ad un’anonima folla di personaggi i quali solo raramente hanno saputo fare altrettanto con le opportunità di un destino assai poco generoso.
E’ quanto accade alla problematica Delia “dalla faccia piatta e minacciosa” e alla sorella Fleur, “riccioli color rame e aria da agnello sacrificale” ne I piaceri rubati (il racconto che dà il titolo alla raccolta). Le due sorelle colmano un’esistenza frustrante con la reciproca e alla fine solidale confessione dei propri rimpianti. Il rapporto di conflittualità e complicità fra le ragazze rimanda ad Espiazione di McEwan.
Poi c’è il sogno della colta, fascinosa Claudia, di incontrare Camus per le vie di Parigi, o comunque qualcuno “capace di spezzare le catene dei suoi sensi di colpa” in Morte di un uomo minore. In Notti nei giardini di Spagna ci sono le aspettative di successo del rancoroso Berger, che è solo “suonatore e non artista”, proprio lui che “viveva la musica come un concentrato di tutti i desideri e le cose belle provate”.
Impossibile il recupero di un rapporto genitoriale difficile per Arty, che assiste, Spettatore inerte e passivo, al crollo di un padre tardivamente incontrato fra i pazienti di un ospedale psichiatrico. Mentre Eli, con il suo gogoliano Cappotto “nero, poderoso e impenetrabile” non riesce a confessare al suo, di padre, che dovrà sopravvivergli. Questi ultimi due racconti mi sono parsi assoluti capolavori, fra i migliori della letteratura americana del secondo ‘900… (ma ero sul punto di eliminare “americana).
Manca l’opportunità di vivere un’adolescenza serena per il cattivo, folle, o forse soltanto razionale Bambino di pietra Arnold: “Perché sei rimasto a raccogliere piselli per un’ora dopo che tuo fratello era morto?”. Così come per la Bimba sublime Ruth, concupita dall’amante di sua madre. Manca il senso ultimo della propria identità in Chi può dirmi chi sono? con la figura del bibliotecario Perera che rinvia a Tabucchi più che a Dickens o Dostoevskij.
Infine c’è l’amore, il furto che scuote maggiormente e che non si vorrebbe mai subire: non solo quello senile ed impossibile che nasce dall’L’infinito potere delle aspettative di un anziano verso una giovane. Non solo quello di una donna che, per l’egoistico piacere di essere ancora desiderata, costringe gli altri a farlo anche se hanno 16 anni, ma l’Amore in sé, come empatico incontro di anime.
Ne traccia un desolato referto la taciturna, sensibile, coscienziosa sessantatreenne de Il diario di K.W. kafkianamente ridotta a parlare con un Dio che non risponde (“mi rispondo da sola e faccio tutto il lavoro al posto Suo”), a vergognarsi delle “piccole transazioni” esistenziali e sperimentare la forza rigenerante della pittura ma non quella della passione… tanto affine, in questo, alla dublinese Maria di Cenere di Joyce.
Accumunano le vicende di ognuno di loro, il rimpianto struggente di un passato (forse) felice, il costante senso di smarrimento e perdita, la lucida percezione del fallimento. Cose che generano rassegnazione più che rabbia, paralisi più che vitale speranza, ripiegamento cinico ed esacerbato, mai solidale apertura alle ragioni dell’altro: che sia amico, consorte, amante, genitore o figlio.
Labili ma tenaci segnali di riscatto sembrano giungere dalla terapeutica pratica dell’esercizio artistico: non a caso due racconti vedono protagonisti degli scrittori – seppure in crisi – e la musica, in tutte le sue declinazioni, è una sorta di preziosa costante del libro.
Nel citato Piaceri rubati compare una bellissima definizione del jazz:
“La melodia che esplode senza un vero inizio e non torna indietro per ricominciare, suonata da persone che pareva sapessero avrebbero ricevuto ciò che volevano e molto di più dalla vita”.
L’apparente minimalismo tematico, che sarebbe piaciuto a Flannery O’Connor, si traduce in uno stile mai semplicemente referenziale nella sua asciutta essenzialità, con frequenti squarci lirici e splendidi finali “aperti” che raramente concludono l’esile intreccio, suggerendo intriganti perplessità e interrogativi nel lettore, sempre emotivamente coinvolto da una lettura appassionante. Gina Berriault va (ri)scoperta ed amata.