E’ rimasto in cartellone dal 13 al 31 marzo al Tetro Eliseo a Roma. I giganti della montagna di Luigi Pirandello, diretto ed interpretato da Gabriele Lavia, è uno spettacolo che il pubblico ha accolto con grande calore ogni sera. Io sono riuscita a vederlo solo sabato 30 marzo, e mi sono unita ai tanti applausi con piacere sincero.
Tutti conosciamo la storia di quest’opera, perché stiamo parlando di un classico della letteratura italiana e di settore. L’ultima opera di cui ci ha fatto dono Luigi Pirandello prima di morire, scritta nella consapevolezza della propria fine imminente. Un’opera incompiuta, di cui l’autore scrive i primi due atti, ma non la fine. Forse volutamente. Un’opera che racchiude, nel suo lirismo più alto, l’intera filosofia pirandelliana: la sua idea del teatro e della vita stessa.
I giganti della montagna, scritto nel 1933, dalla sua prima rappresentazione è andato in scena moltissime volte ed in molte versioni, più o meno fedeli all’originale. Alcune si sono basate sulle parole di Stefano, figlio di Luigi Pirandello, il quale ha dichiarato che il padre gli avrebbe confessato delle indicazioni su quale finale avrebbe voluto che avesse l’opera (vedi, ad esempio, la famosissima rappresentazione di Giorgio Strehler).
La trama in breve
Una compagnia di attori in cerca di un teatro che li faccia recitare, guidati dalla contessa Ilse, giunge in una villa che sembra abbandonata. In realtà, il posto è abitato da misteriose presenze: il mago Cotrone e la compagnia degli Scalognati, anime che incarnano tutte le arti letterarie. Questi cercano di spaventare la compagnia di teatranti per far sì che si allontanino dal posto, ma senza successo. Allora Cotrone cerca di convincere la contessa e la sua compagnia a rimanere e a recitare per loro. Al di fuori della Villa, infatti, vivono i Giganti della montagna, uomini bruti che non avrebbero di certo apprezzato la loro arte. Ma la contessa rifiuta più volte la proposta, convinta di voler affrontare i Giganti.
Cotrone chiaramente è lo stesso Pirandello che affida alle sue (ultime) parole tutte le sue paure e le sue speranze legate all’evoluzione della poesia, intesa nel senso più ampio.
Sabato al Teatro Eliseo a Roma, ad incarnare Pirandello e l’istrionico Cotrone c’era Gabriele Lavia, che dell’opera ha curato anche la regia: una figura che, nel teatro italiano, di certo non ha bisogno di presentazioni.
L’opera viene rappresentata rispettando il testo originale, quindi senza nessun finale ricostruito, celebrando, in questo modo, la sua incompiutezza come una delle chiavi di lettura. Nessuno saprà mai a cosa condurrà la decisione della contessa di voler sfidare i Giganti, gli uomini che “non sono sensibili alla poesia”. Esseri che un tempo potevano forse essere identificati in un pubblico poco aperto alle idee non convenzionali, o anche solo semplicemente laiche. Ma che oggi potrebbero rappresentare quasi tutti gli uomini, essendo il ruolo del Teatro, Poesia originaria, così cambiato nel tempo e così tristemente ridimensionato.
Eppure quel non prendere una posizione alla fine, un po’ di speranza ce la infonde. Come tutti i sold out collezionati dalla rappresentazione e tutti gli applausi che l’hanno accompagnata.
Gabriele, una intera vita trascorsa a calcare le scene e a dare vita ai più diversi personaggi dell’arte, è il guardiano del mondo dell’oltre, della sovra-realtà. Quella dimensione che permette alla verità individuale di prendere forma e alla coscienza di incarnarsi. Un mago laico che con un fez in testa sfida la brutalità degli uomini, affermando la legittimità di un luogo sospeso in cui tutto può succedere, compresa la rinascita della stessa Poesia. E in questo ruolo è così convincente, che sembra parlare anche di se stesso.
Gabriele Lavia, regista e attore, ci ammalia per due ore consegnandoci un vero e proprio testamento estetico. Un lascito che egli usa per portare con sé, in quella dimensione, la giovane contessa Ilse, interpretata dalla superba e affascinante Federica Di Martino, sua moglie nella vita. All’interno di un teatro che cade a pezzi, Gabriele e Federica cercano di rimanere in piedi. Pur essendo un’impresa molto difficile perché la contessa è sconvolta e disperata. E’ dubbiosa e insicura. Vive interiormente una serie di contraddizioni che la stanno portando alla follia. Così lui cerca di proteggerla, facendola rifugiare nel suo mondo surreale e non permettendole di esporsi al giudizio di chi non dovrebbe permettersi di mettere in discussione l’arte o, chi lo sa, l’amore.
Un’opera meta-teatrale recitata da meta-attori per elevare, forse, alla massima potenza il messaggio del nostro Pirandello, così impegnato in vita a svelarci il potere delle maschere e, contemporaneamente, la loro fragilità.
Una rappresentazione in cui ho visto un’esplosione di significati: letterari, artistici ed esistenziali.
E che per questo mi è piaciuta molto. Proprio molto.