Nelle splendide storie dell’irlandese William Trevor – Racconti scelti, Guanda 2018 – è l’impronta del passato che conferisce una sostanziale e felice omogeneità d’ispirazione.
Un passato che nasconde segreti inconfessati e violenze sanguinose, rimosse da arcaiche comunità di campagna che “non amano vengano portati loro via i santi”. Oppure un passato che ritorna con tutto il suo carico di rimpianto per un amore perduto: quell’estraneo senza nome, “tranquillo, assennato, accomodante” – possibile sia lui? – che Un sabato d’agosto ricompare nel tennis club di provincia in cui tutti, fra annoiati rituali, sopravvivono alle proprie frustrazioni. E dove ognuna delle mogli/amiche avrebbe potuto sposare il marito di una delle altre.
Un passato che svela, spesso attraverso la morte, verità scomode, taciute, rimosse (Il signor McNamara) e talvolta conserva – come in Sole d’autunno – il ricordo struggente di un affetto totalizzante con la defunta moglie del pastore: una vera “presenza assente” che rimanda al joyciano Michael Furey de I morti.
Certo, in una raccolta tenacemente irlandese c’è anche il politicamente corretto Passato lontano dei Middleton, “bizzarri ma innocui, strani, magri e silenziosi fratelli dagli occhi azzurri come il padre”, che sono finiti in miseria per causa sua: ha fatto troppi regali ad una “cattolica della capitale”. I Middleton sono protestanti lealisti, fieramente avversi al Governo indipendentista, al nuovo turismo postbellico transnazionale, al dilagare di prodotti stranieri e alle “brezze di accenti americani”, oltre che alle “bombe papiste”.
In una dimensione esistenziale che non vuole chiudere la partita con ciò che è stato, si registra l’inevitabile paralisi di giovani Figli, ossessionati da genitori a cui non vorrebbero assomigliare per non finire fagocitati dalle loro anacronistiche consuetudini: “agnello e salsa alla menta, the alle cinque e plumcake alla frutta in sale da pranzo dal sentore di muffa”.
Si registra anche la paralisi di figlie – tanto simili alla “dublinese” Evelyn – come Kathleen che, sensibile, disperata e sottomessa, accetta vergognose vessazioni per un campo e per l’attaccamento alla famiglia.
L’amore, altro tema chiave dell’antologia, è sempre quello che è stato o che avrebbe potuto essere e sembra esistere solo nella sua segretezza, nella necessità opportunistica, nella precarietà, nel rimpianto. E’ riflesso, perduto, sognato e mai vissuto seguendo gli impulsi di una passione autentica. L’unico modo di alimentarlo rimane, paradossalmente, porvi fine, magari per illudersi della sua sincerità. Alla fine si riduce, inesorabilmente, ad ipocrita menzogna (Il terzo incomodo), a squallido accomodamento coniugale mascherato da idillio appagante. Kitty tiene il figlio avuto da chissà chi per una “indimenticabile” e ipocrita Luna di miele a Tramore.
L’amore è una tormentata bugia per non ammettere le umiliazioni subite e condannarsi ad una solitudine senza alibi (Veglia con il morto). E’ una patetica ricerca dell’anima gemella fra i questionari di un’agenzia matrimoniale da compilare “senza mentire troppo con se stessi” per Una ennesima, frustrante sera fuori. E’ adulterio amaro e disperato consumato in Una stanza.
C’è poca speranza, rari barlumi di serenità, tormentoso senso di estraneità ed abbandono nell’universo sentimentale di William Trevor, popolato da una antieroica moltitudine di Gente di Dublino, “pericolosa e lontana”.
In un arco temporale che va dagli anni ’50 ai primi ’90, i racconti si svolgono sullo sfondo di un’Irlanda ricca di granai e sperdute contee, di giardini di ortensie e mele selvatiche, in hall di alberghi retrò con poltrone di cuoio e lampade a gas. E poi in silenziosi conventi di reverende madri e canoniche di pastori, dove si narrano leggende popolari in spacci alimentari, in pub polverosi e piccoli college. E si mangia pane nero, porridge e sardine. Un’Irlanda in cui ci si lava con brocche di porcellana bianca, davanti ai camini e si declinano un’infinità di birre e whisky, vestiti di tweed e velluto a coste. Due sono i santi titolari di pievi sperdute, alternativamente San Michele e San Patrizio; uno solo il quotidiano: l’Independent.
Lo stile di questo straordinario scrittore, che eccelle nel racconto breve, come sottolinea John Banville nella prefazione, è asciutto, essenziale, poco incline al lirismo, ma mai tuttavia meramente referenziale. Indubbiamente William Trevor in questi Racconti scelti è “realista”, ma di un realismo particolarissimo sul quale vale la pena soffermarsi.
Tende, infatti, a creare un’atmosfera allusiva e sospesa, perché non descrive direttamente il personaggio che determina la tensione narrativa (Sabato d’agosto), preferisce farne delineare il carattere da altri (Il signor McNamara, Veglia con il morto) o addirittura, come ne Il terzo incomodo, lo colloca del tutto fuori dall’intreccio, conferendogli però la capacità di condizionarne ogni risvolto.
Se a questo aggiungiamo i frequenti, fulminei flashback che fanno irrompere nel presente, la rievocazione di un fatto drammatico i cui contorni rimangono indistinti e vengono lasciati all’intuizione del lettore, si può comprendere come i modelli, in questi racconti di William Trevor, siano piuttosto Joyce e la O’Connor, che Carver. Risulta innegabile, nella sua scrittura, il ricorso all’evento epifanico rivelatore del “mistero” più profondo della trama, in grado di elevarla a una visione che trascende il grezzo dato naturalistico. Visione tanto cara a Flannery O’Connor (vedi Nel territorio del diavolo).