“Un viaggio esotico tra le pagine di un giallo”. Questa è la migliore introduzione al romanzo Notturno cambogiano (O Barra O Edizioni) scritto dall’autore australiano Philip Coggan, un diplomatico che ha lavorato presso le ambasciate del suo paese in diverse nazioni del Sud-est asiatico, prima di abbandonare la carriera consolare per dedicarsi al giornalismo e vivere a lungo in Cambogia.
Burl, il protagonista, è un australiano proprietario del Civilisation, un bistrò sul lungo fiume di Phnom Penh, la zona più prestigiosa della capitale del piccolo paese, dove si suona quel genere di soft-jazz che si fonde con la tappezzeria e si espande nell’ambiente con l’indulgenza dell’oblio.
Il suo è uno di quei locali che prende vita solo quando le strade fuori sono entrate nel delizioso stato comatoso della tarda notte. Quando nell’aria c’è quel frammentario senso di inquietudine e curiosità vagabonda, di indolente incertezza e desiderio latente.
Durante il giorno, invece, quella è una delle zone più trafficate della città.
Ci sono cambogiani importanti in Lexus nere, direttori di ONG agricole in Landcruiser bianchi, un carro trainato da una mucca carico di vasellame imballato nella paglia, un camioncino di poliziotti che va da qualche parte dove probabilmente non sono necessari e senza dubbio indesiderati, un contadino su una motocicletta con tre maiali legati dietro, un autobus di turisti che fissano dai finestrini l’incomparabile reality show dal vivo, e svariati ragazzini.
Ragazzini su cinque biciclette affiancate, ragazzini che seguono ragazzine che fingono di non accorgersene, ragazzini usciti da scuola, ragazzini che non sono mai andati a scuola, ragazzini che seguiranno i padri nei loro mestieri e ragazzini che passeranno il resto della loro miserabile esistenza vivendo in strada, alla giornata, come meglio potranno. I vigili poltriscono sotto gli alberi al riparo dal sole, mentre i loro colleghi estorcono soldi ai motociclisti e un pezzo di strada viene divelto per la seconda volta quest’anno.
La piccola comunità di Expat
La storia si articola attorno alla piccola comunità di “Expat”, il vocabolo inglese per indicare gli stranieri che si sono trasferiti in quel bengodi per criminali e occidentali annoiati che può essere la Cambogia romanzata da Coggan, dove ciascuno è libero di andare in pezzi come meglio crede, e dove tutti sembrano inseguiti da un demone o alla ricerca di un demone che li insegua.
Quaggiù è facile incontrare occidentali di una certa età così umiliati e sfibrati dalla loro esistenza che hanno deciso di non combattere più e di accamparsi per sempre da queste parti. Un po’ per sgranchirsi la coscienza, un po’ per sconfiggere il pensiero dell’incombente vecchiaia e sbeffeggiare il tempo che passa. Ognuno di loro è qui per cercare di salvare se stesso. Per riscattare la propria misera vita fatta di decenni spesi in lavori frustranti o troppo impegnativi, delusioni sentimentali, abbandoni, affetti traditi.
Il problema è che il Sud-est asiatico è un mondo difficilmente decifrabile per uno straniero. E specialmente la Cambogia, se ci finisci in esilio, ti risucchia nella mistificazione delle sue cosmologie, che possono avere devastanti effetti collaterali. Phnom Penh è una città spietata, la più spietata, perché se non hai una forte disciplina interiore lei avrà il sopravvento su di te. E può anche schiacciarti, annientarti, ridurti in poltiglia, sputarti e lasciarti in qualche angolo di disperazione, completamente sfinito e da ricostruire.
Notturno cambogiano
Notturno cambogiano ha una narrativa dapprima lenta, come è lenta e indolente la vita in Cambogia, ma la trama prende forma mano a mano che il protagonista la vive, con un crescendo ben costruito. Il periodo è quello delle elezioni:
Un evento che, come la democrazia, sono un po’ una novità in questo paese, perché l’idea che tutti gli uomini (lasciando da parte le donne) siano creati uguali è profondamente aliena ai Khmer.
Nella lettura si possono veramente assaporare i ritmi, i profumi e persino le sensazioni della vita di Phnom Penh e dei suoi Expat. Quelli che lì hanno aperto le loro attività, tra le quali i locali notturni…
Dove esercitano ragazze incaricate di tenere allegri i clienti, far sentire loro che in quel bar, quella sera, in loro compagnia, sono più belli, più spiritosi, più giovani e, in generale, più desiderabili di quanto potrebbero mai esserlo in qualunque altro posto immaginabile al mondo.
Nei locali notturni tra ragazze e Ladyboys
E a volte quelle ragazze sono in verità dei Ladyboys, gli stravaganti quanto femminili transessuali (o intersessuali) asiatici. Questi sono esplicitamente accettati in tutti gli strati della società locale di marcata fede buddhista. Del resto, secondo il buddhismo, qualunque essere può reincarnarsi indifferentemente in un sesso o nell’altro. Quindi è inutile dare troppa importanza alla tendenza sessuale della vita presente.
È proprio in questa piccola comunità, dove tutti si conoscono a fanno affari l’uno con l’altro, che avviene un efferato delitto. L’omicidio del proprietario, occidentale, di due locali molto in voga. Qui intervengono gli investigatori del commissariato che cercano di coinvolgere il protagonista in indagini scorrette e licenziose. Lasciando trasparire tutte le contraddizioni etiche e morali delle forze di polizia.
In Cambogia c’è polizia e polizia. Scrive Coggan. C’è la polizia per l’immigrazione, che spreme i turisti all’aeroporto perché hanno tentato di ottenere un visto senza una fotografia valida; c’è la polizia addetta al traffico che li spreme in città perché viaggiano in moto senza una patente valida e c’è la polizia per il turismo, che li spreme nei loro alberghi perché hanno portato le ragazze in stanza senza un valido certificato di nascita. Il tutto il primo giorno in città. I benefattori internazionali pagano considerevoli somme in denaro per progetti volti a migliorare la qualità della polizia cambogiana, ben consapevoli di come la creazione di una società prospera e democratica poggi sull’applicazione della legge.
Soprattutto, i donatori ci tengono a fornire la polizia di computer. Nelle campagne, ci sono forze di polizia che usano i computer ricevuti per reggere la tazza del tè (su quel piccolo, comodo aggeggio rotondo che esce fuori quando premi quel bottone); forze di polizia cittadine li usano per guardare le partite di calcio; forze di polizia di frontiera li usano per gestire casinò e bordelli, mentre le forze di polizia di Phnom Penh, erudite in materia di fogli di lavoro e PowerPoint, tengono conferenze e presentazioni a Ginevra e a New York, spiegando ai benefattori internazionali le buone cose che hanno fatto con i loro soldi.
Questo pezzo di terra bagnato dal fangoso Mekong
Nel finale il protagonista riuscirà a districarsi da quell’intreccio di circostanze sfavorevoli in cui, suo malgrado, si era trovato coinvolto. Tornerà a passeggiare tra i vicoli della capitale:
Occhieggiando all’interno delle baracche, ornate da un altare di Buddha che diventa un altare della Vergine Maria che diventa un altare per un padre morto.
Questa volta gli è andata bene, ma lo sa anche lui che vivendo qui, in questo pezzo di terra bagnato dal fangoso Mekong mentre porta l’Himalaya fino al Mar cinese meridionale, il peccato è inevitabile. In fondo al cuore pensi sempre di essere innocente, ma in realtà non lo sei. I tuoi peccati sono solo in attesa di una conferma e poi non ti resta che pagarne le conseguenze.
Come un po’ in tutta l’Asia, anche nella Cambogia descritta da Philip Coggan nessun divieto è assoluto, nessuna regola è inflessibile, tutto in un certo senso è realizzabile.
Spesso la legge non è concepita come un codice di condotta, ma come un problema da aggirare. Del resto, chi è nato povero, o poverissimo, deve usare l’astuzia per sopravvivere e per emergere dalla miseria. Gli scrupoli sono per i privilegiati.