Come ogni libro di Emmanuel Carrère, anche Un romanzo russo è scritto magnificamente. L’intreccio, i capitoli che passano armoniosamente da un argomento all’altro, da un luogo all’altro, da un personaggio all’altro e invitano continuamente ad andare avanti nella lettura per vedere che fine hanno fatto quei personaggi, quei luoghi lontani o familiari. Il titolo si riferisce al desiderio dello scrittore di ritrovare la lingua delle sue origini russe, insieme alla memoria del nonno materno di cui si sono perse le tracce, ancora giovane.
Questo libro infatti è una specie di ricerca del proprio tempo perduto, ricerca delle proprie radici russe a cui ancorarsi per giustificare i propri difetti, le proprie paure, le proprie mancanze. Il titolo evoca quello che Carrère non vuole fare, ovvero parlare dei suoi altolocati e pittoreschi antenati. Egli afferma:
Su personalità così eccentriche, tutti membri del gotha, si potrebbe scrivere un romanzo storico entusiasmante, ma… non ho intenzione di scrivere un romanzo storico entusiasmante… quello che mi interessa davvero è proprio ciò di cui non bisogna parlare.
C’è un segreto nella famiglia di Carrère, relativo al nonno materno Georges Zourabichvili, scomparso a Bordeaux nel 1944, a 46 anni, ucciso in quanto collaborazionista dei tedeschi. Dopo essere stato per due anni loro interprete, fu prelevato da casa e di lui non si seppe più niente.
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La madre di Carrère fa parte dell’élite intellettuale francese. Docente universitaria, scrittrice di libri sulla Russia, eletta all’Accadèmie francaise, non sopporta di parlare, o di sentir parlare, del padre collaborazionista dei tedeschi durante la guerra. Così fa finta che la cosa non sia mai accaduta e vuole che tutti seguano il suo esempio, soprattutto il figlio. Ma la storia del nonno materno assomiglia troppo a quella di un ungherese di cui Carrère è andato a documentare la vita nel suo viaggio in Russia. Le due figure coesistono nel suo animo, tanto che afferma:
Perché venire in Russia… se non per il fatto che qui è approdato quell’ungherese il cui destino mi permette di avvicinarmi, sia pure per vie traverse, al destino di mio nonno… ormai Kotel’nic è il posto dove sta chi è scomparso.
Il viaggio in Russia alla ricerca di un’altra storia oscura
Kotel’nic è lo sperduto villaggio russo dove Carrère, con una piccola troupe, va per documentare la vita di un soldato ungherese fatto prigioniero dai russi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In seguito viene tenuto in un ospedale psichiatrico per cinquant’anni.
Anche se all’inizio del libro l’autore si dichiara disgustato dal dover scrivere sempre di gente disgraziata o folle (da notare che aveva appena finito di scrivere L’avversario), accetta di farlo ancora una volta. Personalmente, avendo letto sia Un romanzo russo che L’avversario, mi sono fatta l’idea che Carrère sia attratto solo da storie inconsuete, strane, che contengono misteri che nessuno è in grado di spiegare.
Perché una persona mente per anni, come ne L’avversario, facendo credere di essere quello che non è e alla fine massacra l’intera famiglia? E perché, come in Un romanzo russo, un povero soldato ungherese viene fatto prigioniero e alla fine della guerra, invece di tornare a casa come tutti gli altri, viene tenuto chiuso in un ospedale psichiatrico per cinquant’anni? Probabilmente Carrerè, raccontando queste storie, si interroga sul senso oscuro della vita.
Perché Carrère vuole imparare il russo?
In questo libro scritto in prima persona – una via di mezzo tra autobiografia e romanzo che si usa definire autofinction – Carrère si incaponisce a imparare il russo. Non per leggerlo e scriverlo, bensì per parlarlo. Non riuscirà mai a parlarlo bene, malgrado due viaggi a Mosca fatti a questo scopo.
Io mi identifico in questa sua necessità e credo di capirla fino in fondo. Sono toscana ma fin da piccola sono vissuta a Bologna. Parlare toscano mi riporta a qualcosa di profondamente mio, a un piccolo mondo antico che mi piace, mi appartiene, ma che non frequento nella quotidianità. Per Carrère parlare russo è qualcosa di analogo. Conversare in russo lo mette in contatto con una parte di sé che ama. Lo riporta a prima delle sue nevrosi e ossessioni sul male del mondo. A qualcosa di buono, innocente e tenero.
Il perché delle cose che accadono
Tutti i dettagli, gli episodi, i risvolti psicologici che Carrère documenta in Un romanzo russo, non spiegano perché l’ungherese non è stato liberato alla fine della guerra, o più prosaicamente perché Carrère ami la sua fidanzata Sophie ma si vergogna di lei.
L’intreccio di Un romanzo russo si sviluppa infatti in capitoli alternati tra il racconto di alcuni viaggi in Russia e la sua relazione con Sophie. Quello che li accomuna è lo stato psicologico di Carrère, indeciso, insoddisfatto. E’ un uomo che cerca il suo passato russo attraverso la storia di un povero ungherese che è stato per cinquant’anni nell’ospedale psichiatrico di Kotel’nic e contemporaneamente non sa vivere il suo presente sentimentale. Un passato che non si spiega e un presente di cui si vergogna.
La storia d’amore con Sophie
Sophie non fa parte dell’ambiente intellettuale e raffinato di Carrère, dove tutti hanno una bella carriera come scrittori, registi, architetti, fotografi. Lei è bellissima ma è una persona qualunque, una che si guadagna la vita facendo l’impiegata in una casa editrice di libri scolastici – lavoro di cui è insoddisfatta – e che ha amici come lei. Carrère è prigioniero del suo ambiente e pur amando Sophie la disprezza.
Le nostre vite sono diverse, e anche i nostri amici. La maggior pare dei miei sono artisti, e quando non scrivono libri o non dirigono film, se ad esempio lavorano nell’editoria, significa che dirigono una casa editrice. Mentre io sono amico del capo, lei lo è della centralinista.
Quando vanno a cena fuori, tutti rimangono folgorati dalla bellezza di Sophie, ma se qualcuno le chiede che lavoro fa, le pesa dirlo.
Più la conversazione va avanti più lei si sente esclusa. E diventa aggressiva. E per me che dipendo terribilmente dalla considerazione altrui, è come se stesse perdendo punti a vista d’occhio.
Retour à Kotelnitch – Un film de Emmanuel Carrère
Lo scrittore non ha nessuna stima di se stesso, in Un romanzo russo lo ribadisce a più riprese. Si reputa vigliacco, inaffidabile, tende ad avere sensi di colpa. Fa un viaggio, è tutto contento di partire, ma quando arriva ad esempio a Mosca, si sente solo ed ha un’avventura con una giornalista. Si sente perso senza Sophie, dice di esserne innamorato epppure non la stima: com’è possibile?
Quello che ama di più in lei è il suo corpo, farebbe l’amore con lei in continuazione. Ma non si prende cura di Sophie come lei vorrebbe. Un esempio eclatante è quando lei deve operarsi ad un ginocchio e lui parte ugualmente per Mosca per perfezionare il russo. Dopo l’operazione l’accompagna in un centro di riabilitazione.
Quando due giorni dopo l’ho accompagnata in quel posto sinistro, pieno di sciancati più o meno gravi, ho capito che stava male e che, pur non rimproverandomi apertamente, pensava che un uomo veramente innamorato non l’avrebbe mai piantata in asso così.
La storia con Sophie procede con alti e bassi. Lei si mette con un altro, un tipo “normale” che l’ama senza complicazioni, poi lo lascia e infine lo sposa. In un tira e molla Carrère ha la brillante idea di dedicarle un suo racconto che lui definisce “porno”, pubblicato su Le Monde.
Come tutti i grandi amori quando uno dei due dice basta, la storia tra Carrère e Sophie finisce in catastrofe. Catastrofe emotiva. Tra loro solo poche, ultime parole:
Quanto ti ho amato…
Vattene con lui.
Ma, Emmanuel, io ti amo.
Mi ami, ma è Arnaud che ti ama come vuoi essere amata… Sa amare. Ti merita. Vorrei meritarti, anche se so che è troppo tardi… Vorrei che ci fosse una seconda prima volta.
Alessandro Baricco & Emmanuel Carrére | Milton Class Scuola Holden