L’urlo soffocato dei nativi nord americani
Ci sono romanzi la cui bellezza potrebbe essere riassunta da poche frasi, ognuna delle quali sarebbe come uno specchio obliquo che mostra un angolo visuale della vicenda.
Ci sono romanzi in cui il protagonista è invisibile eppure è più della somma dei singoli attori.
Ci sono romanzi in cui la vicenda che dovrebbe fungere da catalizzatore di tutte le altre, in realtà non lo è e non può esserlo. La matrice da cui tutte le storie scaturiscono è oltre la storia, oltre ogni confine, oltre l’umana follia. Prima e al di là della scrittura.
Ci sono romanzi scritti non con l’inchiostro ma col sangue, non con la penna su un foglio di carta ma incisi nel legno con un pugnale. Non con la voce ma con un urlo interiore che attraversa e squarcia il velo della storia.
Questo romanzo è un urlo. Purtroppo non è un urlo di battaglia né di vittoria dei Cheyenne o degli Apache. Ma dei Nativi americani, come vengono chiamati con un termine orribile.
Testa indiana
Cinquecento anni. Tanto dura il tentativo di annientamento dei popoli nordamericani da parte degli europei. Molti degli attuali Indiani, scrive Tommy Orange, sono cresciuti ascoltando le storie di ciò che era accaduto alla loro gente non molto tempo fa. Storie di massacri. Storie indicibili come il massacro di Sand Creek.
Come può sentirsi un ragazzo o una ragazza che ascolta di come vecchi, donne e bambini furono trucidati dal colonnello John Chivington e i suoi soldati? Scalpati, feti strappati dal ventre delle madri, mutilazioni poi esibite in città, a Denver, come trofei.
Siamo nel 1864. Il 29 novembre, per la precisione. Ma Tommy Orange, nel Prologo del suo libro, ci ricorda che la prima aggressione vigliacca da parte dei coloni risale al 1623. Quando i coloni invitarano a un banchetto Massasoit e suoi Wampanoag per rinsaldare un’amicizia che sarebbe dovuta essere eterna. Siamo a Rhode Island, nordest degli USA. Quella sera duecento indiani vennero uccisi da un veleno misterioso.
Genocidio etnico
Da allora il massacro non si è fermato. Il tentativo di annientamento è stato totale. Ricorda Tommy Orange che persino i loro nomi e cognomi sono stati cambiati. Prima avevano nomi poetici, legati alla natura, ora sono Orange, Black, Red Feather.
Sino alla fine degli anni ’70, al termine dei programmi della tv americana andava in onda un monoscopio a cerchi concentrici come un bersaglio. Appena sopra il centro del bersaglio appariva il ritratto della testa di un indiano, coi capelli lunghi e decorato di piume. Così se lo spettatore quardava in quella direzione era come se prendesse di mira la testa indiana.
Secondo l’antropologo cherokee Russell Thornton sono state 18 milioni le persone morte nel solo Nord America. Oltre 100 milioni in tutte le Americhe in 500 anni. Un vero e proprio genocidio etnico.
Numeri, certo. In un mondo sempre più data-driven hanno pur sempre il loro peso. Ma cos’è rimasto di quelle culture antiche, in così evidente contrasto proprio con il mondo attuale?
Forse sono rimasti solo dei simulacri. Leggende, danze, raduni come il Pow-wow che si svolge ogni anno a Oakland, California. La città in cui è nato e vissuto Tommy Orange.
Indiani da marciapiede
L’inurbazione avrebbe dovuto essere l’ultimo, decisivo passo per l’assimilazione dei nativi; il loro assorbimento, la loro cancellazione.
Un tempo ci chiamavano indiani da marciapiede.
Ci chiamavano indiani di città, superficiali, inautentici, rifugiati senza cultura, mele.
Una mela è rossa fuori e bianca dentro.
Invece siamo quello che hanno fatto i nostri antenati.
Siamo il modo in cui sono sopravvissuti.
Siamo i ricordi che non ricordiamo,
che vivono in noi, che noi sentiamo.
Quel “siamo i ricordi che non ricordiamo” riassume la condizione dei nativi urbanizzati che emerge dal romanzo di Tommy Orange. Tuttavia lo stesso autore asserisce che l’inurbazione non ha sortito l’effetto annientamento: “Non siamo andati in città per morire. Il nostro arrivo faceva parte dell’Indian Relocation Act, che a sua volta faceva parte dell’Indian Termination Policy, che era ed è esattamente quel che dice di essere: un programma di eliminazione”.

Ma, scrive Tommy Orange, non è andata proprio così. Molti indiani sono andati a vivere in città per propria scelta, per guadagnare o fare un’esperienza nuova. Altri per fuggire dalla riserva dove non ci sono soldi, non c’è lavoro, dove alcolismo e droghe la fanno da padroni. C’è un elevato numero di suicidi tra i giovani. Si tratta di territori in aree isolate e depresse economicamente, dove un bianco che commette un reato all’interno della riserva indiana non è giudicabile dalla giustizia indiana, ma il giudice bianco non ha giurisdizione nella riserva. Ragione per cui molte donne indiane vengono violentate e/o uccise e il reato resta impunito (vedi questa intervista a Louise Erdrich).
Gli indiani in città hanno portato lingue, canti, danze, costumi. Sono ritornati anche dopo aver combattuto nella Seconda Guerra e in Vietnam. Perché?
La città ha il suono della guerra
Ecco perché sono rimasti. Perché stare nelle città dei bianchi vuol dire continuare la guerra. Una volta che hai combattuto una guerra non la puoi più lasciare, e quando la vedi e le stai vicino puoi tenerla a bada. Soprattutto, puoi tenere meglio a bada i fantasmi di un cervello in fiamme. Perché il silenzio della riserva e delle foreste è un tamburo martellante che risveglia rabbia ed esacerba l’animo. Fa sentire ancora più inutili, fuori dalla storia.
Non è questione di luogo secondo Tommy Orange:
Essere indiano non ha mai significato il ritorno alla terra. La terra è ovunque o da nessuna parte.
Personalmente non riesco a essere pienamente d’accordo con questa affermazione.
Certamente, l’essere indiano è prima di tutto una dimensione interiore. Ma proprio il conflitto tra la dimensione spirituale e armoniosa, eredità degli antenati, e la vita che conducono in città i personaggi di Non qui, non altrove è la causa del loro disagio.
Uomini e donne, ragazzi e ragazze vivono una vita sovrappeso, segnata da violenze familiari, abuso di alcol e droghe, gravidanze precoci, eternamente sospesi tra il passato e il presente. I genitori abbandonano i figli e non trasmettono loro niente della cultura antica. Nemmeno il nome del popolo da cui discendono. A nulla serve rievocare quel passato con i pow-wow.
Un narrazione a strappi
“Il pow wow è un raduno di nativi del Nord America. La parola deriva da powwaw, che nella lingua della tribù dei Narragansett significa “leader spirituale”. Un powwow moderno è un evento in cui la gente s’incontra per danzare, cantare, socializzare e onorare la cultura degli indiani d’America”. Così Wikipedia.

Il pow-wow che ogni anno si tiene a Oakland, è il centro verso cui convergono le vite dei personaggi di Tommy Orange. Il quale ha il merito, tra l’altro, di aver inventato una struttura narrativa originale. Non so fino a che punto consapevolmente, ma questa struttura conferisce alla narrazione un ritmo particolare: i singoli capitoli sono altrettanti spezzoni della vita dei singoli personaggi. E man mano che la storia precipita verso la conclusione, queste vite s’incontrano, le storie s’intrecciano in un reciproco scoprirsi di destini comuni.
La storia di Non qui, non altrove in questo modo procede come a strappi, quasi a rimarcare il vero, profondo disagio di chi non ha altro modo di combattere se non annientando se stesso e i suoi fratelli con la violenza, smarrendosi nelle praterie fumose dell’alcol e della droga.
Nulla come l’antica cultura dei nativi è inconciliabile con quella attuale. E non riesco a immaginare un paese più in contraddizione con quella stessa cultura degli Stati Uniti.