Incontro Tiziana al Piccolo Eliseo e mi chiede subito:
“Vuoi recensire il libro di Vilas? E’ il caso letterario dell’anno. Spagnolo.”
“Certo,” rispondo. “Come si chiama?”
“In tutto c’è stata bellezza.”
Giorni dopo, a Barajas, mi aggiro nella libreria superando il settore souvenir e chiedo del libro di Vilas. La signora mi dice, lasciando da parte il mocio e sgranando gli occhi: “Questo è alla sesta ristampa, uscito appena l’inverno scorso” (noto l’insolita combinazione tra padroneggiare il mocio e conoscere i libri), quindi mi porge il libro con due mani. Un grosso volume, copertina morbida, non proprio tascabile, l’ho riconosciuto soltanto dal disegno e dal colore giallo della copertina. Titolo originale: Ordesa.
Mi vengono in mente tanti titoli tradotti dagli editori italiani con, diciamo, eccesso di zelo. Lo Zen e la cerimonia del tè. L’arte di correre. Dedalus. Il lavoro dell’attore su se stesso. Il giovane Holden. Alzo le spalle, tanto nemmeno il cinema è salvo: L’attimo fuggente. Se mi lasci ti cancello. Me ne vado col romanzo in borsa.
Mia madre chiede: “Di cosa parla?” M’ha interrotto la sua telefonata mentre sto a pagina venti.
“Troppo presto per dirlo. Sono ancora ai pensieri introduttivi, ai preliminari.”
“E la storia?”
“Ancora deve partire…”
“Ah, quei libri con poca trama…”
Inizia una discussione sui libri, chiddice devono avere centopercento trama, chiddice mapperché. Specialmente oggi, un libro può essere fatto di qualunque cosa. Difendo la mia posizione forte del pensiero di Faulkner, forte del paradosso che mia madre scrive poesie.
La lettura di In tutto c’è stata bellezza è difficile non a causa del linguaggio, o per pesantezza, o cose simili. Sarà che le idee di mia madre mi hanno contagiato. Vado avanti restando vigile, per riuscire a individuare il preciso momento in cui inizierà la trama. La trama non inizia. Pagina quarantacinque. Continuo. Il giorno dopo pure. Altre telefonate m’interrompono.
Il martedì si va in spiaggia in giornata, quindi mi serve un tascabile. Da poco avevo comprato, sempre in aeroporto, L’Arbre du pays Toraya di Philippe Claudel. In italiano Il romanzo del cuore e del corpo. Già l’anno scorso ero stata folgorata dal suo Il Rapporto, comprato – sempre in qualche aeroporto – per il solo fatto di aver vinto un Goncourt.
Qui c’è subito una trama. Ma anche molti pensieri. Una trama incerta, probabilmente non piacerebbe a mia madre, cosa che mi fa ridere. La scrittura mi è famigliare, in fondo Il Rapporto l’ho finito soltanto una decina di mesi fa. A pagina ventisette, Claudel sembra leggermi nel pensiero e scrive:
Mi rendo conto che scrivo mischiando i tempi, il passato semplice, il presente, il passato composto, l’imperfetto laddove le regole di scrittura solitamente non autorizzano la coabitazione.
Mi rendo conto che leggo mischiando i libri. Spesso è dovuto al mood del momento: c’è il libro che alle nove lo guardi e, anche se hai voglia di leggere, non è il genere che ti va in quel momento. Vuoi un racconto breve, oppure delle poesie. Questa volta però sto mischiando per esigenze pragmatiche, per quantità di pagine, peso e dimensione.
Il fine settimana vado in campagna e mi porto Vilas: la borsa per il weekend è capiente. In mezzo a quello che leggo in modalità flusso di coscienza, pian piano mi accorgo che ogni capitoletto è una trama che si apre e si chiude. Cavolo se c’è trama, lì in mezzo al pensiero. Vengo trascinata dentro la narrazione, scritta in modalità flusso di coscienza (vorrei chiedere a Vilas come ha fatto: il perché lo avrei capito poco più avanti) che descrive in ogni dettaglio.
Tutti piccoli dettagli – le vite più vere in fondo sono composte soltanto da un’infinità di piccoli dettagli. Leggo delle cose che lui ha vissuto, cose accadute, cose che accadono anche a me, cose che siccome accadono a tutti potrebbero essere ritenute scontate e anche banali, ma con la sua narrazione diventano qualcos’altro. Si nobilitano. Vilas scrivendo nobilita le cose che gli accadono, e così nobilita anche le cose che accadono a me e a te.
The faboulous fifties
Nel suo libro Vilas ha cinquantadue anni e Claudel dal canto suo ne ha cinquanta. Curioso, anche la mia generazione ha cinquant’anni. Ho scoperto una bizzarra e folkloristica mistificazione intorno a quest’età. Prima si diceva fabulous forties, adesso sono fabulous fifties, ai quaranta abbiamo aggiunto i contributi. Fifty is the new forty. Nessuno ha fatto la festa dei quaranta, dei cinquanta sì. Con i cinquanta si attraversa un fiume in uno di quegli attraversamenti a senso unico. Sull’altra riva lasciamo per sempre il mondo di prima.
Il romanzo di formazione si chiama Bildungsroman. Il personaggio del libro in questione subisce una trasformazione, diventa adulto. Come possiamo chiamare il romanzo dove l’adulto lascia perdere tutti i fardelli del suo essere adulto, si riconcilia col mondo e per questo finalmente torna libero? Come si chiama il romanzo del mezzo secolo?
Vilas ci dice:
Il passato di qualsiasi uomo o donna di più di cinquant’anni si trasforma in un enigma. E’ impossibile risolverlo. Resta soltanto l’innamorarsi dell’enigma.
Quando si hanno cinquant’anni o più, si parla di determinate cose, non tanto per ineluttabilità, ma perché ormai uno se ne frega se dovesse scioccare qualcuno. Ce lo si può permettere. Arriva l’ora di parlarne.
La morte. Il divorzio e l’ex coniuge. Il credere in dio o il non crederci. La città, la terra o il posto dove siamo nati. Il corpo che si deteriora. I figli. I nostri morti e i nostri vivi. I ferri da stiro, il colore giallo. Di queste cose non parlano mai i protagonisti dei romanzi di formazione: non parlano mai delle persone amate che se ne sono andate, né di ferri da stiro. Al massimo parlano di altri giovani, e si domandano – a volte struggendosi – se sono amati da loro, o perché non sono amati da loro.
Eravamo giovani, Eugène ed io, presuntuosi, idioti, felici, leggeri. La vita non ci aveva ancora sculacciato. (Claudel)
Nel leggere insieme due libri come questi, mi rendo conto che tra di loro si crea qualcosa che somiglia ad una relazione. Trovo le somiglianze, le affinità, e ciò mi meraviglia ed entusiasma. Quant’è bello che le cose siano simili, quel senso di certezza, di unità, di ordine. Ma nelle relazioni, passati i primi tempi, ci si rende conto che ci sono divergenze. Molte. Non si pensa la stessa cosa su tante cose. Questo è il momento in cui iniziano i conflitti e i dubbi. Qui però, abbiamo una relazione matura, qui le differenze sono affascinanti. Guarda guarda, Vilas dice così, Claudel dice cosà. Che interessante.
Ancor più interessante il fatto che entrambi, ai miei occhi, hanno ragione. Se soltanto potessimo essere maturi anche con le nostre relazioni, essere capaci di trovare queste divergenze belle, arricchenti, appassionanti… se potessimo soltanto considerare la cosa più ovvia di questa esistenza, ovvero: che la maggior parte del tempo entrambi abbiamo ragione, e che tutto, assolutamente tutto, è un paradosso.
Mia figlia mi telefona. “Lo stai guardando Netflix?” Ha creato un account di prova per me.
Continuo a leggere. L’account scade senza che io faccia nemmeno un login.
Perché è arrivato quel momento particolare quando s’inizia ad apprezzare il linguaggio, cioè il carattere di un libro, cioè il carattere del suo autore… come quando ci presentano una persona e poi dopo una settimana la rivediamo da qualche parte. La salutiamo più amichevolmente. Poi la troviamo ancora dopo un mese per caso mentre siamo in fila alle poste, e lì si chiacchiera quasi da vecchi amici. Si crea un legame, una familiarità, senza volerlo, perché i legami si creano così, non necessariamente perché ci sia amore da subito…
Come dice Francis Picabia: Perché amiate qualche cosa, bisogna che l’abbiate vista e sentita da molto tempo. La magia del libro è che, anche se occorre molto tempo per amarlo, il libro dà al tempo una dimensione diversa. Capita che il libro, in termini temporali, valga una vita. Come in questi due romanzi dove vale cinquant’anni.
Penso ai Saggi di Montaigne, che non ho letto. Chissà se In tutto c’è stata bellezza gli somiglia un po’. Anche Pascal ha scritto i suoi Pensées. Quelli sì che li ho letti, e non ricordo nulla. Ho la scusa che ero ragazza, in pieno processo Bildung (di fomazione).
Ora, da adulta, leggo e piano piano questi pensieri che erano dello scrittore si assimilano ai miei. Diventano pensieri paralleli ai miei. Poi diventano i miei… lo scrittore ha creato un linguaggio nuovo al quale finalmente ho accesso. Leggo una frase, rido, la trovo geniale. Penso: ora la copio per la mia recensione. Poi mi rendo conto che no, nessuno la capirebbe. Soltanto io e lo scrittore. Così, a digiuno, nessuno ci troverebbe né capo né coda, mentre a me appare geniale.
Lo scrittore dunque ha raggiunto il suo obiettivo di assimilarmi. Non sono io che ho assimilato le sue pagine, sono le sue pagine ad avermi inghiottito. Sono nel ventre della balena, mentre leggo Vilas. Sono nel ventre della balena mentre leggo Claudel. Loro esprimono me.
Molto tempo sono stato narcotizzato da una busta paga. Più di due decadi. (Vilas)
Lo schermo si è presto illuminato. Ho riflettuto che il televisore era senza dubbio uno di quei rari apparecchi che possono funzionare dopo anni d’inattività, che non si guastano mai, come la stupidaggine dalla quale procedono e di cui si nutrono, che mai affievolisce ne sparisce. (Claudel)
Bildungsroman e Alterroman
Improvvisamente mi assale il pensiero che anch’io sono una di loro. Sono passata al di là del fiume dell’età (e delle possibilità). Non sono più giovane in processo di formazione. Non sono più Bildung. Ora ho un’età, sono adulta, e con un po’ di fortuna potremmo dire che anch’io ho raggiunto l’età della riconciliazione, l’età Alter. Dunque, i romanzi che riguardano le persone adulte che sciolgono i propri fardelli potrebbero chiamarsi Alterroman.
Quando sei nell’età Alter, stai nel luogo dove non cerchi più le similitudini, le affinità, il conoscere lo stesso brano dei Soda Stereo. Ti piacciono le differenze. Le cerchi. Le confronti e ti meravigli di come le cose siano tutte diverse e come siano tutte uguali. Il paradosso non ti terrorizza né ti sfida, ti si siede comodamente accanto, ti entra sotto pelle. Il tempo passa e il paradosso sei tu.
Nell’ Alterroman si è già fatto il giro di boa. Mentre il giovane che deve ancora formarsi guarda verso il futuro, i posti dove andrà, l’Alter invece guarda il posto da dove viene:
Io so il prezzo dei luoghi. Io so quanto ci creano e come lasciano in noi le impronte che ci tormentano come delle cicatrici. (Claudel)
La lampada del comò proietta una luce tenue. Si respira in quella stanza una felicità immensa. Cantano le pareti, le tende, le lenzuola; la notte canta. (Vilas)
Il romanzo del cuore e del corpo è ambientato perlopiù a Parigi. In tutto c’è stata bellezza parla della Spagna, dei problemi della Spagna – la atavica povertà, la società che avanza verso una dubbia modernità, la decadenza. Tutte cose che toccano le persone e costruiscono in parte le loro vite. Tutte cose che abbiamo anche in Colombia, in Italia, in Argentina, nelle Filippine. Ovunque.
Sono contenta che In tutto c’è stata bellezza sia un librone di 416 pagine. E che Il romanzo del cuore e del corpo non sia neanche la metà. Sono felice delle differenze. Sono felice di non dover scegliere, perché non potrei. I bambini piccoli lo sanno, davanti alla domanda: “A chi vuoi più bene, alla mamma o al babbo? si disorientano. Un bambino ti risponde con uno sguardo che dice: “Ma che domanda cretina che mi fai.” Così, sono i libri a scegliere me, a secondo se devo leggere in giro o seduta a casa. Vi consiglio vivamente di lasciarvi scegliere.
Sto finendo i due libri. Ho riso molto con In tutto c’è stata bellezza, cosa paradossale perché parla tanto e in modo profondo della morte. Il mio è più un ridacchiare, una risata sottile come le sue battute, le ocurrencias, che qualcuno chiama anche poesia. Che Vilas ha magistralmente tessuto nel suo racconto e che confido che Bruno Arpaia abbia tradotto altrettanto magistralmente per le edizioni Guanda.
Ho viaggiato molto con Il romanzo del cuore e del corpo, altra cosa che mi riempie di gioia. Non so e non mi importa se ciò che ho letto è vero, se queste trame o non-trame sono veramente cose accadute, se corrispondono alla realtà.
Non è facile leggere quando hai a che fare con scrittori geniali, scrittori di enorme sensibilità, che ti dicono assolutamente tutto. Schietti. Ironici. Persino sfacciati. Scrittori che scrivono libri che non sono per tutti. E’ come essere bambino e camminare per mano di un adulto che fa passi lunghi… Veniamo trascinati e stare al passo richiede il massimo delle nostre piccole forze. Veniamo sfidati dal trascinamento.
Finisco a distanza di due giorni le ultime pagine dei due libri, e sono sbalordita dalla coincidenza. Nel salutarmi, Claudel e Vilas dicono cose identiche.
Poi mi accorgo che qui non c’è nessuna coincidenza, perché questi libri mi hanno scelto.
E poi mi accorgo di un’altra cosa: questi due Alterroman mi hanno trasformato come se io stessa fossi stata il personaggio centrale di un Bildungsroman. A me, che sono ormai di mezz’età! Che ironia, che paradosso, che scoperta! La magia del libro si compie ancora una volta, quella di portarti in un’altra dimensione temporale dove rinasci come il giovane Holden, o Scout, o Dedalus.
Dove sei diventato capace di capire che in tutto, proprio tutto, c’è bellezza.