Dalla nostra inviata Marzia Flamini, i migliori film di Venezia 76
Alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si può dire che, per quanto riguarda i premi maggiori, sia andato tutto come doveva. La giuria, presieduta dalla regista argentina Lucrecia Martel, ha assegnato il Leone d’Oro a Joker di Todd Phillips, il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a J’accuse di Roman Polanski e il Leone d’Argento per la Migliore Regia a Roy Andersson per About Endlessness.
Forse l’unico vero colpo di scena è stata la Coppa Volpi a Luca Marinelli che, con il suo Martin Eden, ha sorpassato il favorito Joker di Joaquin Phoenix. Speriamo possa portare al nostro Marinelli quell’attenzione internazionale che certo non manca all’immenso Phoenix e che potrebbe garantirgli anche il prossimo ruolo di Diabolik. La giuria sembra quindi essersi allineata al sentimento generale, premiando i film che critica e pubblico hanno amato di più. Ma, come si diceva qui, quest’anno il livello medio era veramente alto, perciò andiamo subito ad analizzare i film più interessanti, fermo restando che i due vincitori sono talmente entusiasmanti da meritare recensioni a parte (stay tuned!).
Migliori film di Venezia 76: i big
Siamo mangiatori di pianeti.
Ad Astra di James Gray
Una grande interpretazione di Brad Pitt, tutta in levare, fatta di microespressioni e intensità di sguardo: è la fantascienza secondo Gray, uno dei registi più interessanti e meditativi della sua generazione. Con la sua tipica gravitas, unita a scene d’azione di grande potenza visiva, le premesse per un film epico ci sono tutte: peccato che mettendo tanta carne al fuoco perda un po’ la bussola, esattamente come il padre del protagonista, disperso ai confini del Sistema Solare. Così la riflessione sul destino dell’umanità e le difficoltà del restare umani in luoghi e situazioni estreme, finisce col trasformarsi più banalmente nel ritratto di una tormentata relazione padre-figlio.
Il mondo è fatto da uomini che si nascondono
dietro pile di fogli.
The Laundromat di Steven Soderbergh
La cosa più difficile dell’economia è far capire che in realtà è la cosa più semplice del mondo, visto che si basa su meccanismi tutto sommato elementari. Soderbergh però riesce nell’impresa di rendere comprensibile il tortuoso meccanismo delle shell companies, utilizzato per evadere le tasse grazie alle regole sregolate dei paradisi fiscali. Non solo: realizza un film che è incredibilmente divertente, mai didattico ma appassionante. Questo perché, anziché ricostruire giornalisticamente le rivelazioni dei Panama Papers – la fuga di notizie su uno degli studi dalla clientela eccellente che permetteva evasioni fiscali creative e apparentemente legali – ci fa vedere gli effetti sulla gente comune, incarnata magistralmente dalla middle class woman Meryl Streep. Gli strepitosi Gary Oldman e Antonio Banderas, affiancati da un cast ricco di comparsate eccellenti, fanno il resto. Presto su Netflix e forse in sala, e ricordate: “il credito è il futuro nel linguaggio del denaro”.
Ci sono le promesse elettorali, e c’è la realtà.
Adults in the Room di Costa-Gravas
Il gioco del credito (e del debito) di cui sopra è anche l’invisibile causa nel film di Costa-Gravas, ispirato alle memorie di Yanis Varoufakis. Adults in the Room ricostruisce la battaglia dell’ex Ministro delle Finanze greco, sotto il primo governo Tsipras, per salvare la Grecia dal default e dall’uscita dall’euro. Il regista mette in scena il (letterale) balletto della politica, talvolta ai limiti dell’assurdo. E’ coadiuvato dalla colonna sonora del premio Oscar Alexandre Desplat in salsa sirtaki. Un dialogo fra sordi quello portato in Europa dallo scontro fra il governo greco e il deus ex machina tedesco, corazzata inamovibile dell’austerity capace di stritolare un paese per salvarne un altro. Peccando talvolta di eccessiva semplificazione e parzialità, il film rende però bene tutte le pecche dell’Unione Europea così com’è stata concepita finora. Ovvero incapace di un pensiero comune a livello economico (e non solo).
Il potere è il riflesso della capacità di un popolo di difenderlo.
Citizen K di Alex Gibney
Coinvolgente documentario su Mikhail Khodorkovsky, uno dei 7 oligarchi che nella Russia degli anni ’90 controllavano da soli più del 50% dell’economia nazionale. Dall’infanzia in povertà sotto il regime sovietico, alla creazione della prima banca commerciale russa dopo la caduta dell’URSS, dagli anni di Eltsin e del capitalismo selvaggio, quando diventa proprietario di una grande compagnia petrolifera fino allo scontro con Putin e i dieci anni di prigione per evasione fiscale. Accanto al ritratto di Khodorkovsky emerge una ricostruzione appassionante della Russia post-sovietica e dell’ascesa al potere di Putin. Khodorkovsky è un personaggio estremamente interessante, un dissidente tutt’altro che immacolato ma lucido e di nerbo, capace di affermare (e testimoniare con i fatti) di non tenere così tanto alla sua vita da cedere, per salvarla, la propria dignità. Da vedere assolutamente per capire la superpotenza più vicina all’Europa.
Un re non ha amici, solo seguaci o nemici.
The King di David Michôd
Michôd mette in scena un condensato dell’Enrico IV e dell’Enrico V di Shakespeare, basandosi su una sceneggiatura co-firmata con Joel Edgerton (che si ritaglia la parte sempre succosa di Falstaff) e scritturando l’attore ventenne più di richiamo, Timothée Chalamet. Visivamente sontuosa, con una splendida fotografia e costumi e scenografie perfetti, questa lettura più rude e quasi cupa dell’Enrico V manca però del cuore vibrante di Shakespeare, e non parlo della poesia. Il Prince Hal di Chalamet è malinconico, si rifugia nella vita dissoluta, ridotta a un’ubriacatura e a un’amante, per sfuggire alla presa del padre, salvo poi indossare in un baleno la corona e lasciarsi consigliare alla guerra con la Francia con una docilità che nulla ha dell’Enrico V shakespeariano. Rimane fortunatamente intatto il rapporto di cameratesco affetto con Falstaff, saggio compagno di bevute e consigliere di guerra.
La mia potenza è temibile finché potrò opporre la forza delle mie parole al mondo.
Martin Eden di Pietro Marcello
Martin Eden, il romanzo semi-autobiografico di Jack London, che narra l’ascesa tormentata di un marinaio alla fama di scrittore, viene riletto da Marcello e ambientato in una Napoli anni ’50 sulla quale incombono però venti di guerra che fanno pensare più agli anni ’30 e dove si sentono canzoni anni ’60. Pastiche storico a parte, Marcello intervalla materiale d’archivio accuratamente selezionato e montato, al girato sul quale giganteggia Luca Marinelli, rivestendo il film di un’aura onirica intrisa di nostalgia per qualcosa che forse non è mai esistito. Marinelli abita il suo Martin Eden facendolo passare dalla solare ambizione giovanile alla disillusione atarassica della maturità, reggendo le sorti di questa materia ribollente e purtroppo spesso sfuggente messa insieme da Marcello (leggi anche qui).
Migliori film di Venezia 76: dal mondo
Il progresso è quando l’uomo punta il dito alla natura
e proclama di averla conquistata.
LESOTHO
This is not a burial, it’s a resurrection di Lemohang Jeremiah Mosese
Chissà se questo film troverà mai spazio nelle nostre sale. Nel dubbio, non perdo l’occasione di segnalarlo. Prodotto dal progetto Biennale College del festival di Venezia (che sostiene giovani cineasti alla loro opera prima o seconda) è un film di grande bellezza e intensità che, e questo è uno dei grandi meriti dei festival internazionali, ci apre uno spiraglio su un paese e una cultura lontani e semi sconosciuti, il Lesotho. Rimasta vedova, seppelliti i figli, l’anziana Mantoa è una figura di riferimento nel suo villaggio. Come una sorta di Antigone sudafricana, darà la voce ai morti seppelliti nel cimitero del villaggio per rivendicarne i diritti quando il governo, in nome del progresso, informa il villaggio che dovrà sgomberare perché verrà inondato a seguito della costruzione di una diga. Splendida fotografia, narrazione da poema greco, colonna sonora distonica e insinuante.
Con quella gente, non si sa dove finisce la lotta per la libertà e dove inizia il traffico di droga.
CUBA
Wasp Network di Olivier Assayas
Un altro film basato su una storia vera, pagina dimenticata dell’annoso scontro fra Cuba e gli Stati Uniti: negli anni ’90 una rete di spie cubane s’infiltra nella comunità in esilio in Florida per indagare sui gruppi di dissidenti che facevano azioni mirate nel tentativo di rovesciare il regime castrista. Fingendosi esuli volontari, contribuiranno dall’interno a limitare i danni, pagando un prezzo non secondario nel privato. Assayas pare troppo indeciso tra la spy story e le vite private dei suoi protagonisti (tra cui spicca l’ormai rodata accoppiata Edgar Ramirez e Penelope Cruz, già insieme in American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace), dividendo nettamente il film in due parti. Ma la storia è intrigante e ben recitata.
Occhio per occhio, dente per dente.
REPUBBLICA CECA, UCRAINA, SLOVACCHIA
The Painted Bird di Václav Marhoul
L’odissea di un bambino ebreo nell’Europa dell’est durante la Seconda Guerra Mondiale. Diviso in capitoli che sono le tappe nella discesa all’inferno del piccolo protagonista, il film di Marhoul è un pugno nello stomaco di quasi tre ore. Tratto dall’omonimo romanzo di Jerzy Kosinski è un film in cui la crudeltà e la brutalità sono presentate con una crudezza. E neppure la lente distanziante del bianco e nero sontuoso e di una fotografia impeccabile possono smorzarla. Homo homini lupus dicevano i latini, ma Marhoul porta il detto alle estreme conseguenze, fino ad estenderlo al regno animale. Per stomaci forti.
Sa quando spronarmi e quando lasciarmi solo.
STATI UNITI
Marriage Story di Noah Baumbach
Contrariamente a quanto lascia pensare il titolo, questo film è più il ritratto di un divorzio che di un matrimonio. Prodotto da Netflix con due attori cari ad Hollywood come Scarlett Johansson e Adam Driver, arricchito da comprimari di spicco come Laura Dern e Alan Alda, sembrerebbe il classico prodotto da major. Invece ha il passo di certi film agrodolci anni ’80-’90, quando gli americani sapevano produrre piccoli, toccanti pellicole che parlano della vita vera. Solo che qui è una vita molto americana, divisa tra due città, Los Angeles e New York, che con l’America profonda hanno poco a che vedere.
Il risultato è quindi universale per certe dinamiche di coppia scoppiata. E contemporaneamente alieno per chiunque non abbia passato più di due settimane negli Stati Uniti. Fortunatamente l’intensità di Driver e la scioltezza della Johansson, insieme a una scrittura attenta, dotata del giusto grado di ironia, salvano il film quanto basta dal rischio “già visto”.