Pur non essendo un divoratore seriale di serie tv, in questa corsa all’oro televisivo del nuovo millennio – satura di disillusioni, esultanze premature e carri di vincitori zeppi di replicanti – più di una gemma è rimasta tra le maglie dei setacci. Poche, una manciata in proporzione al numero delle aspiranti, ma lucenti e preziose. Si annidano nel fondale, tra i bagliori ingannevoli di pietruzze qualunque. Una volta portate alla luce queste serie invece brillano sul serio, e a lungo. Se qui parlo di loro è perché ne vale davvero la pena.
8 imperdibili serie tv
In Treatment

Israele ci ha regalato una mente assai brillante. Hagai Levi nasce nel 1963 e negli anni della giovinezza convoglia la sua creatività nelle sperimentazioni cinematografiche. D’altronde in quegli anni l’industria televisiva israeliana non rappresentava ancora un’alternativa reale, non consistendo che di un unico canale (pubblico e controllato dai politici). Un giorno Levi s’imbatte nel formato episodico di alcune opere straniere, in particolare Il decalogo del polacco Kieślowski, e una folgore lo coglie. In quel preciso momento nasce un grande autore. Pochi anni dopo il suo talento si materializza in BeTipul, una serie originale in due stagioni andata in onda in Israele tra il 2005 e il 2008, scritta e diretta da lui, che ruota intorno alla psicoterapia di cinque pazienti. In un lampo BeTipul vince tutti i possibili Israeli Academy Awards.
Il livello qualitativo della serie non passa inosservato neppure sulla scena internazionale e la HBO, che in quegli anni era sinonimo di cose fatte per bene, l’anno seguente ne acquista i diritti e affida allo stesso Levi l’adattamento statunitense e la produzione esecutiva. Per la trasposizione in terra occidentale, soprattutto per gli episodi della seconda stagione, Levi si avvale della collaborazione della sceneggiatrice statunitense Sarah Treem, un sodalizio che incontreremo di nuovo. Dal loro lavoro nasce una stella, come direbbero gli stessi americani, e che stella! Il suo nome è In Treatment.

Levi colloca idealmente la telecamera nello studio di uno psicoterapeuta e di ciascuna seduta confeziona un episodio. Al termine della prima stagione avremo “assistito” al trattamento terapeutico di cinque pazienti nonché del terapeuta stesso che, come avviene nella realtà, siede a sua volta ogni settimana di fronte a un supervisore.
Nell’opera di Levi non ci sono personaggi chiave, non ci sono “eroi” che evolvono attraverso gli schemi narrativi classici. Sì, c’è il terapeuta, ma non è il protagonista della serie, poiché protagonisti lo sono tutti allo stesso modo. Egli stesso è al contempo terapeuta e paziente, osservatore e osservato. In effetti in In Treatment (guarda qui il trailer) i personaggi spariscono, la loro funzione è sorreggere le parole, i dialoghi, come i veicoli indù esistono per sorreggere le divinità.
Qui le parole scorrono copiose e tutte sono significative, tutte. È anzi mirabile il modo in cui il Levi scrittore (a sua volta paziente di lunga data) riesca a comprimere in ogni episodio una tale densità di materia psicoemotiva. I momenti palpitanti si susseguono e non è raro ritrovarsi alla fine di un episodio in uno stato di assorta partecipazione emotiva.
In Treatment è l’idealizzazione della terapia psicologica, una terapia rivelatrice e illuminante che sfortunatamente nella realtà non è così comune.
La struttura narrativa si conferma nella seconda stagione, in cui seguiamo altri cinque pazienti, dopodiché il contributo di Levi termina, fedele alla stesura originale israeliana. I produttori americani, fedeli a ben altre logiche, visto il grande successo della serie anche sotto la bandiera a stelle e strisce, decidono di proseguire per un’altra stagione. Spianando la strada ad oltre venti adattamenti in tutto il mondo, Italia compresa. I nuovi sceneggiatori, che qui ci interessano assai meno, ritengono che sia il momento di virare verso una più familiare e rassicurante narrazione eroica. Cosicché nella terza stagione il terapeuta diventa ciò che la scrittura originale non voleva che fosse, l’eroe intorno al quale girano gli eventi. Si scoprono così ulteriori retroscena della sua vita privata e nel complesso la serie s’annacqua. Ma fino a quel momento il viaggio è tra i migliori possibili.
L’ultima nota è tutta per Richard Marvin, l’autore della colonna sonora: evocativa e ispiratissima, tutt’altro che banale commento sonoro alle immagini, rimane da qualche parte dentro e riesce a riportare a galla gli stati d’animo della serie anche molto tempo dopo.
“I sentimenti non sono una filosofia. O provi qualcosa o no. Non puoi girarci attorno.”
8 imperdibili serie tv
Rectify

Cosa succede quando in una comunità precostituita, vale a dire una comunità in cui valori, significati e ideologie sono universalmente condivisi dagli individui che ne fanno parte, viene introdotto un individuo della stessa razza ma del tutto estraneo a tali assunti, un pari nei geni ma non per questo conforme, uguale eppure diverso? Si direbbe il promettente incipit di un esperimento di psicologia sociale.
Un giovane ragazzo viene incarcerato per un crimine che forse ha commesso. Per diciannove anni le mura della prigione, spesso l’isolamento, costituiscono l’universo in cui raggiunge l’età matura, in cui (non) sperimenta le relazioni sociali, in cui si compie il suo sviluppo di essere umano come gli altri, ma non come gli altri. Rectify ha inizio il giorno del suo rilascio, quando egli viene reintrodotto nella comunità e gli si chiede di tornare a farne parte.
Si ritrova così catapultato, novello Kaspar Hauser, in un mondo in cui nessuno è come lui, ma non nel modo in cui nessuno è come voi o me. Lui è radicalmente diverso, è alieno alla comunità. È chiamato a cercare un lavoro, a interagire con le persone, a vivere il tempo alla stregua degli altri. Scopre che tutti si aspettano qualcosa dagli altri, dunque anche da lui. Ogni cosa è per lui è una rivoluzione copernicana.
Mentre assistiamo alle sue vicende, accade qualcosa. La nostra attenzione si sposta gradualmente dal protagonista alla comunità. Non è più tanto cosa provi l’estraneo a tenere alto l’interesse, quanto piuttosto cosa succede agli altri, esposti volenti o nolenti alle radiazioni aliene. Il sasso gettato nello stagno produce onde di ritorno che per la proprietà transitiva delle relazioni scoperchiano tutte le tane. Anche quelle di chi col perturbatore non aveva nulla da spartire. Gli effetti sono appassionanti e, questa volta sì, degni di un esperimento di psicologia sociale.

I personaggi che orbitano intorno all’alieno appaiono fortemente deindividualizzati, eteronomici direbbe Milgram. Appartengono cioè a un gruppo coeso in cui tendono a perdere l’identità individuale, demandata ora a un dio, ora a una consuetudine sociale, e con essa anche la responsabilità di sé, poiché a decidere per loro, a giudicare, sono altri, sotto forma di etica, religione, ideologia e morale comune.
È la normalità si dirà, certo, ma nel contrappunto con l’alieno, ignaro delle regole del gioco, il contrasto fa assai rumore.
Al contrario lui, che ha vissuto quasi sempre solo con se stesso, ha suo malgrado un’identità personale totalizzante. E’ totalmente individualizzato, non appartiene a nessun gruppo, non aderisce a nessuna dinamica sociale. È infinitamente solo. Egli si sente l’unico responsabile delle proprie azioni e in generale talmente responsabile da farsi carico anche della responsabilità degli altri. Una sorta di responsabilità universale che si manifesta con angoscianti sensi di colpa, ansia, apatia, senso di inadeguatezza. Il significato che le situazioni hanno per lui non è lo stesso che hanno comunemente per gli altri.
Apparentemente inconciliabili, le due parti sono però accomunate dall’umano sentire, che testardamente sospinge gli uni verso gli altri. L’avvicinamento dei due poli produce un campo di elevata ambiguità, che costringe tutti a interrogarsi su concetti come ragionevole e necessario, giusto e sbagliato. Le carte in tavola sono cambiate, soprattutto ad essere cambiate sono le regole del gioco, e alla fine tutti sono chiamati a sovvertire le assunzioni su cui hanno edificato le proprie certezze e a trovare nuovi punti di appoggio.
Rectify (guarda qui il trailer) si mantiene luminosa per due stagioni dopodiché, amara sorte di tante serie, un po’ s’offusca, costretta dagli autori a protrarsi anche quando la sua natura ne avrebbe suggerito l’onorevolissima fine. Finisce per insistere eccessivamente sulle sfumature del giallo. Eppure, con tutto ciò che l’avvento dell’alieno ha innescato nella comunità, che importanza poteva avere (per noi) se egli fosse davvero colpevole?
“Ora che sono in questo mondo, dove ogni cosa è segnata dalle ore, dalle date e dagli eventi, mi sento in uno stato di costante aspettativa. Non sempre so cosa aspetto, e non è necessariamente un sentimento piacevole.”
8 imperdibili serie tv
The Affair

Avevamo lasciato Hagai Levi e Sarah Treem alle prese con la scrittura di In Treatment. I due sceneggiatori tornano a lavorare a quattro mani ad una nuova serie qualche anno dopo e nel 2014 il loro pargolo vede la luce, questa volta sotto l’egida di Showtime. Il suo nome è The Affair (così gli anglosassoni chiamano l’adulterio). Il nucleo narrativo orbita intorno alla relazione clandestina tra un uomo e una donna, entrambi già sposati. Insomma l’ennesima storia di famiglie incrinate, conflitti relazionali e invincibile incomunicabilità, può esserci qualcosa di più scontato? Eppure già Richard Yates si chiedeva se ci fosse qualcos’altro di cui valesse la pena parlare. Evidentemente devono pensarla così anche i nostri due autori, perché la loro penna si fa beffe dei luoghi comuni e scende verso profondità nascoste.
C’è un aspetto che contraddistingue questa storia, una connotazione fortemente voluta da Levi. Nessuno dei due protagonisti viene da un cattivo matrimonio, anzi il sentimento coniugale è ancora vivo. Non c’è (apparentemente) una ragione. Ciononostante essi si cercano disperatamente a vicenda e per farlo catalizzano fulmini e saette intorno a sé e ai loro congiunti, ciascuno dei due guidato da un personale bisogno e ciascuno con la sua prospettiva. Come tutti, come sempre. Gli episodi stessi sono confezionati in tal senso: prima il punto di vista di uno dei due, poi quello dell’altro.

The Affair (vedi il trailer), ispirato per ammissione dello stesso Levi al Rashōmon di Kurosawa, parla della soggettivazione della realtà, ma anche della zona intermedia in cui giusto e sbagliato si confondono, dove quel “giudice infallibile che risiede nell’animo” di cui scriveva Tolstoj, grida le sue ragioni e non ammette l’inganno di se stessi.
Nella prima stagione, tanto dura il felicissimo connubio Levi‑Treem, vediamo i due protagonisti lasciarsi gradualmente alle spalle la superficie delle cose e addentrarsi in territori inesplorati. Li seguiamo nella discesa, giù, nei recessi, nello smarrimento di sé. Infine le ragioni che inizialmente sembravano latitare vengono alla luce, e sono profonde e dal costo assai elevato.
Poi, così com’era già successo con In Treatment, Levi lascia. La produzione vuole cambiare il taglio della serie per uniformarla a qualcosa di più familiare per il pubblico americano. Egli però è allergico ai produttori che gli dicono cosa deve fare e come. Presto le pressioni diventano per lui insostenibili e abbandona non solo il progetto, ma l’intera industria televisiva americana. La serie prosegue per altre stagioni lungo un arco temporale frammentato ma, soprattutto dopo la seconda stagione, il livello qualitativo retrocede.
“Essere vivi è essenzialmente una condizione molto solitaria. Per lo più portiamo da soli i nostri fardelli. Non riceviamo tutto l’aiuto di cui abbiamo bisogno. Ma nel matrimonio siamo meno soli. Solo un po’, ma fa la differenza.”