Dottore di ricerca in Filosofia e Scienze Sociali e giornalista pubblicista, Alessandro Alfieri è studioso della cultura di massa e saggista. Insegna in diversi Atenei italiani e collabora con varie testate cartacee e online.
Tra i suoi libri più recenti ricordiamo Musica dei tempi bui. Nuove band italiane dinanzi alla catastrofe (Orthotes, 2015); Il cinismo dei media. Desiderio, destino e religione dalla pubblicità alle serie tv (Villaggio Maori, 2017); Dal simulacro alla storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino (Le petite plaisance, 2018); Lady Gaga. La seduzione del mostro (Arcana, 2018). Nel 2019 ha pubblicato con Il Melangolo Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio.
L’abbiamo incontrato per fargli qualche domanda.
Cominciamo parlando un po’ te. Quando hai capito che volevi studiare filosofia e che volevi fare della filosofia la chiave di lettura delle tue passioni?
In realtà sono stati due step successivi. Fino al quinto anno di liceo, avrei riso in faccia a chiunque mi avesse detto che di lì in avanti avrei studiato filosofia. Ho maturato un interesse per la materia, tanto da iscrivermi alla Facoltà di Filosofia, solo una volta finito il liceo. Questo è stato il primo step. Lo step successivo, che mi riguarda tuttora, è stato quello di coniugare la riflessione filosofica con la cultura di massa. Far convergere, cioè, i miei più grandi interessi, superando una visione ormai obsoleta – che però permane in ambito accademico – che vede la speculazione filosofica lontana dalla cultura popular in generale.
Parlo di una cultura pop declinabile in vari modi: dalla musica, alla serialità narrativa, al cinema commerciale. Ovviamente non sono l’unico né il primo a occuparmene. Personalmente, credo che la speculazione filosofica senza un ambito applicativo non sia nulla. Applicare la filosofia alla cultura di massa per me è particolarmente affascinante perché la cultura di massa è ciò che determina la definizione dell’immaginario collettivo. E lavorare all’immaginario collettivo è il mio primario interesse.
Nonostante la tua giovane età, hai all’attivo molti saggi che spaziano dalla musica alla serialità, al cinema. Qual è il tuo rapporto con la scrittura?
La verità è che io sono un grafomane compulsivo. Scrivere mi serve anche per far evolvere il mio pensiero. Non importa quale sia lo spunto, se l’articolo per un blog o un post per i social. Nel momento in cui mi metto lì e provo a dare una coerenza complessiva al mio pensiero, allora tutto prende forma. Solo confrontandomi con la scrittura riesco a capire se un’idea sia davvero meritevole di essere trattata in modo più compiuto, all’interno di un saggio ad esempio.
Molte volte, confrontandomi con una bozza di indice o una mappa concettuale, ho abbandonato i miei propositi. Pensavo di avere tutto il libro in testa e invece poi, nell’atto della scrittura, ho capito che era meglio lasciar perdere. Altre volte è successo il contrario. Per come la vivo io, scrivere è una necessità impellente. In tutta sincerità, per me, non sempre la scrittura corrisponde alla ricerca. Spesso mi aiuta proprio a dare una direzione alla ricerca. Ricerca che non necessariamente porterà ad una pubblicazione.
I temi che tratti nei tuoi libri coincidono spesso con gli argomenti oggetto delle tue lezioni universitarie. Quanto è influenzata la tua ricerca dal rapporto con i giovani studenti ed il loro pensiero?
Il rapporto con gli studenti influenza molto la mia ricerca. Sicuramente c’è un aspetto seduttivo che i ragazzi nutrono nel momento in cui sentono parlare di qualcosa che appartiene loro, sebbene non lo abbiano mai approfondito. Proprio l’altro giorno uno studente, al termine dell’esame, ci ha tenuto a dirmi che se non avesse letto il mio libro, non avrebbe mai immaginato che dietro un videoclip potesse esserci così tanto studio e lavoro. Nello specifico si riferiva al video Alejadro di Lady Gaga.
Spesso parlo con gli studenti di cose che conoscono e apprezzano, ma che non hanno mai approcciato con uno spirito critico e riflessivo. E il loro modo di reagire mi aiuta molto. Mi impegna anche molto, perché mi costringe ad essere sempre aggiornato sui fenomeni che attualmente funzionano e che vale la pena de-costruire e analizzare. Quindi spesso gli studenti rappresentano un punto di partenza. Parto da loro e analizzo il successo dei fenomeni con loro.
Veniamo adesso alla tua ultima pubblicazione: Rocksofia. Raccontaci come è nata l’idea?
Sicuramente l’idea parte da un dato biografico. Nel libro parlo della musica che va dalla seconda metà degli anni ’90 alla prima metà degli anni 2000. E’ il periodo in cui ero un giovane studente, non solo appassionato di musica, ma che la musica la suonava anche. Io sono stato, infatti, un bassista Nu metal che ha vissuto sulla sua pelle l’intemperie di quegli anni – non si direbbe oggi che vesto in giacca e camicia, ma vi posso assicurare che il mio outfit allora era consono al genere.
Come molti miei amici musicisti dell’epoca, con il tempo sono cambiato. E con me, sono cambiati anche i miei interessi musicali. Ho iniziato ad ascoltare generi più sofisticati, ma al contrario di molti di loro, non ho mai rinnegato quello che ascoltavo in adolescenza. Anzi, ho voluto riappropriarmi di ciò che ascoltavo allora come appassionato e analizzarlo con maggiore consapevolezza. Ritengo che sia estremamente riduttivo considerare tutto ciò che si ascoltava in adolescenza, frutto di errore di gioventù. All’epoca quei fenomeni funzionavano e, oggi che sono maturato, ho voluto provare a studiare il perché.
Di tutti i periodi che hai analizzato nel libro, a quale ti ritieni musicalmente più affezionato e perché?
Forse il contesto dei miei 17, 18 anni, quindi proprio gli anni del passaggio di millennio. La scena musicale rock tra il 1998 e il 2000. Perché per quanto sia legato al genere grunge, si tratta di un genere che ho recuperato solo più tardi. Mi riferisco per esempio ai Pearl Jem e ai Nirvana. Avevo solo 12 anni quando Kurt Cobain si è ucciso e per quanto scalmanato potessi essere, di certo non ascoltavo hard rock. Il genere della mia generazione è indubbiamente il Nu Metal, a metà tra l’hip pop e il metal. Eppure, se dovessi dire il disco a cui sono più legato, perché personalmente mi ha cambiato la vita, è Dookie dei Green Day, del 1994. Anche questo è un album recuperato perché è contemporaneo alla scomparsa di Kurt Cobain. Ma per me rappresenta una svolta.
Che influenza ha la politica nello scenario del rock che hai analizzato?
Molta. E il libro Rocksofia lo esplicita molto bene. Escplicita anche il modo paradossale in cui esercita la sua influenza. Il libro, infatti, segue due linee del rock. Una più vitalistica, che vede il rock inteso nella sua capacità sovversiva, rivoluzionaria e quindi politica in senso buono. Il linguaggio del rock per molto tempo è stato quello utilizzato dai giovani per contrapporsi alla generazione precedente, quindi il senso politico è molto forte. L’altra linea è quella che segue il rock dopo i Velvet Underground. Con i Velvet Underground, per la prima volta, il rock scopre un elemento del tutto autodistruttivo ed autolesionista. Non serve più come strumento di rivolta popolare. Quindi l’elemento politico assume una nuova dimensione, ma non è meno influente.
La stessa totale apoliticità del grunge è significativa e va interpretata proprio in relazione a questo. Chi esprime la sua rabbia contro il sistema si inserisce all’interno di una fetta di mercato, che è quella delle band che sono contro il mercato. Chi invece si mostra indifferente al sistema, non mostra meno coscienza politica, perché prende una posizione distaccandosene. E qui sta il paradosso che nominavo all’inizio. Una band italiana che da questo punto di vista io ammiro molto sono i Ministri. Loro escono fuori da questo paradosso esprimendo, con la loro musica, la coscienza che hanno di appartenere al circuito. Come ad esempio fa anche Caparezza e, tra le band che ho analizzato, fanno anche i Radiohead.
Qual è il futuro del rock secondo te?
Non è una domanda semplice. Personalmente, da studioso, vedo una tendenza che poi riflette anche la cupezza degli anni che stiamo vivendo, che è quella che Simon Reynolds definisce Retromania. La tendenza cioè a rifugiarsi in fenomeni che sono appartenuti al passato. Ne è un esempio la riscoperta di vecchie band che però non hanno mai smesso di suonare, come i Pearl Jem per esempio. In questo senso, il rischio è che il futuro del rock sia il suo passato. La via di uscita a questa nostalgia che c’è nel presente potrebbe essere quella che ci indicano i Radiohead, e cioè la via della sperimentazione. Se il rock riesce con la sperimentazione a influenzare ancora l’immaginario, direi che c’è futuro. In questo senso sono molto curioso di vedere come evolverà il genere Trap.
Torniamo un attimo alla cultura di massa in generale. Che idea ti sei fatto, da studioso e da docente, dei settori che maggiormente influenzano l’immaginario collettivo giovanile oggi? Quali sono secondo te?
I settori che maggiormente influenzano l’immaginario sono: la serialità narrativa e la popular music. Il cinema ha perso forza, a mio avviso, tranne forse per quel cinema che arranca dietro la serialità, come tutto l’universo DC Comics, Marvel. La letteratura ha completamente perso il suo appeal da questo punto di vista. Non perché non ci siano narratori contemporanei straordinari, ma perché non hanno forza di incidere oggi l’immaginario, come l’arte. Ad ascoltare gli studenti, poi, aggiungerei tutta una sfera che definirei degli influencer. Al contrario della nostra generazione che si legava ai prodotti culturali, le canzoni, i film, i libri, i giovani di oggi sembrano lasciarsi influenzare soprattutto dagli autori in quanto personaggi. Ad impattare sull’immaginario sono più loro, delle loro produzioni. Questa è una grande novità rispetto al passato che non possiamo trascurare di analizzare.
A quale progetto stai lavorando adesso?
Non uno in particolare, ma di sicuro mi piacerebbe approfondire il fenomeno della Trap.
Serie tv che stai guardando e che ci vuoi consigliare?
Una serie non nuovissima che ho appena visto e che mi è piaciuta tantissimo è The Shield. L’avevo persa e l’ho recuperata. Una serie, invece, degli ultimi anni che mi è piaciuta tantissimo è Killing Eve.
Una serie invece che proprio non hai sopportato?
La casa di carta. Indubbiamente.
Una colonna sonora che ti ha segnato?
Forse la colonna sonora di Godzilla, del 1998. Avevo il cd e la ascoltavo spesso.
Sogno nel cassetto?
Diventare il primo filosofo influencer della storia!