Nella sconfinata offerta di serie Tv è difficile orientarsi e si rischia di perdere alcune serie preziose, privilegiando serie replicanti e cloni. Qui vi proponiama 8 imperdibili serie Tv, sono serie indimenticabili, serie scelte da Francesco Vitiello, da recuperare se ve le siete perse. Questa è la seconda parte dell’articolo, per la prima parte leggete qui.
Being Erica
Perché le cose sono andate come sono andate?
Ci vorrebbe la controprova, sapere come sarebbero andate altrimenti. Chissà, forse scopriremmo che la vita che non abbiamo vissuto ci piace figurarla a nostra immagine e somiglianza, secondo le nostre sole aspirazioni, sorvolando disinvoltamente sul ruolo che negli accadimenti hanno gli altri.
Se potessimo tornare indietro e fare qualcosa in modo diverso, fare non quella scelta, ma quell’altra, davvero sarebbe potuto cambiare tutto? Sono le scelte che facciamo a determinare chi diventiamo o, viceversa, è il modo primigenio in cui siamo fatti a dar voce ai nostri sì e i nostri no?
Nel corso di una inusuale psicoterapia, alla giovane Erica viene data la possibilità di sperimentare questi crucci di persona e affrontare i suoi rimpianti e le domande rimaste senza risposta nel modo più radicale: tornare indietro e ripercorrerli, ma col senno del poi. Così si ritrova a vivere di nuovo i momenti salienti della sua vita, a dover riprendere le grandi decisioni, al cospetto dell’eterno conflitto tra ragione e voce interiore. Questa volta, però, sapendo già come sono andate le cose la prima volta e potendo correggere il tiro.
Un giorno mi imbattei nei commenti pubblicati qua e là da chi aveva visto questa serie canadese e non uno di quei commenti sembrava provenire da regioni al di sopra del cuore. Alcune persone raccontavano di quanto avessero riso o pianto, altre di come si fossero fermate a riflettere, quasi tutte di quanto sentissero la mancanza della serie, ormai terminata. In effetti Being Erica è sì una serie dai toni soffici e lievi, quelli di una commedia dal lieto fine (o perlomeno “risolto”, per rimanere nel gergo terapeutico), ma non di quelli che durano il tempo di una pizza e poi svaniscono senza lasciare tracce. Tornerà alla mente, forse quando il comune gesto di aprire una porta strapperà un sorriso sornione e un po’ melanconico, e alla fine farà sentire la sua mancanza.
Purtroppo a stonare, tanto per cambiare, è l’ostinato prolungamento del programma. Senza la stessa ispirazione e profondità delle prime due stagioni gli autori, pur di proseguire, immolano quanto di buono fatto fin lì. Si fanno prendere la mano dai giochetti legati ai viaggi nel tempo e si ritrovano tra le mani una commediola pasticciata.
Bisognerà attendere l’ultima stagione per ritrovare un po’ dell’ispirazione perduta e riuscire a perdonarli per aver maltrattato una creatura che ormai non era più solo loro. Ad ammorbidirci ci penserà il commiato che chiude il viaggio. Preparate i fazzoletti.
Nel coro dei numerosissimi personaggi brilla radiosa l’interpretazione della protagonista, Erin Karpluk, che ha reso il suo personaggio così vivido da essere tuttora celebrata in Canada con grande affetto. Ma nella serie tutto ciò sta sullo sfondo, non è di questo che si parla. In Being Erica (vedi qui il trailer) si parla di scelte, di umani conflitti, di istinto, di errori e illuminazioni, di cambiamento e ancora dell’illusione di poter governare le proprie emozioni. Si parla di noi e degli altri. In definitiva si parla di essere vivi.
A ben vedere è già tutto nel titolo, perché Being Erica (essere Erica), prima ancora che di Erica, parla di essere.
“Decidere di non fare qualcosa? Non c’è problema. Ma decidere di non provare qualcosa, è tutta un’altra storia.”
Tell Me You Love Me
HBO, negli anni in cui più sperimentava e usciva dai porti sicuri (anni in cui, a onor del vero, la concorrenza era meno serrata di quanto lo sarebbe diventata poi), mandò in onda una sceneggiatura che mirava a esplorare sotto la superficie della sfera sessuale. Un compito già arduo per chi volesse farlo con le parole, forse ancora più spinoso in forma filmata. L’intento tuttavia è condivisibile, considerato quanto si nasconda sotto quella superficie. Anzi lì sotto il tesoro nascosto è talmente copioso da rischiare di rendere l’impresa velleitaria.
A far da lente di ingrandimento nell’esame esplorativo sono quattro coppie, di età e generazioni molto diverse (dai venti ai sessant’anni), ciascuna confusa e travagliata a modo suo, come le famiglie infelici di Tolstoj. Il loro disagio si riflette, e allo stesso tempo proviene (il confine è inestricabile) dal sesso, o dalla sua altrettanto scottante assenza. Qui, come nella realtà, il sesso è al contempo causa ed effetto, realtà e illusione, speranza e frustrazione.
Il più delle volte sullo schermo le scene di sesso sono monotone e fuori posto, quando non chiaramente moleste. Nulla tolgono, nulla aggiungono, perlopiù sono un pretesto per andare a pesca di spettatori. In Tell Me You Love Me nessuna scena di sesso, e sono moltissime, è mai gratuita o ruffiana, al contrario tutte hanno un perché e un significato precisi, al pari dei dialoghi. Da questo punto di vista è un autentico unicum cinematografico.
Il primo impatto è forse ambiguo, le scene sono assai esplicite e per un attimo, ma solo per un attimo, possono dare l’impressione d’essere un amo per la pesca grossa.
L’impressione svanisce presto, è sorprendente invece quanta comunicazione tra gli amanti ci sia in questi rapporti (esclusivamente sessuali solo ad uno sguardo distratto). Spesso si ha l’impressione di sentirli dialogare fittamente, tanto eloquente è il loro linguaggio del corpo. Sono nudi, ma ad essere messi davvero a nudo sono piuttosto i loro sé più autentici, i sentimenti più scomodi e per questo taciuti. Come i silenzi nel teatro, qui i rapporti sono battute a tutti gli effetti, che ci ricordano quanto ingombranti siano le proiezioni che riversiamo nel sesso.
Tell Me You Love Me (vedi qui il trailer) scende velocemente sotto la superficie che si prefiggeva di lasciarsi alle spalle, giù dove germina l’incomunicabilità, e ci lascia dei personaggi splendidamente approfonditi. E qualche risposta. Lo fa in modo crudo, però, non è un viaggio patinato, non ci sono fiocchetti e cotillon. Questo ha contribuito alla tiepida accoglienza della serie da parte del pudicissimo, e per ripicca severo, pubblico americano, al quale la veridicità di molte sequenze deve aver pizzicato più di un nervo scoperto.
Alla messa in onda le prevedibili polemiche sono numerose e, al termine della prima stagione, il progetto vacilla. Tuttavia, inatteso colpo di coda, HBO accetta di produrre una seconda stagione, premiando la qualità del risultato. Ancora più inaspettatamente, però, è l’autrice Cynthia Mort a fare qualcosa di ammirevole: rifiuta l’offerta. Ritiene che ciò che si voleva dire fosse stato detto e non riuscendo testualmente a “trovare la giusta direzione” decide che quanto fatto sia sufficiente. Che esempio per tanti autori che non riescono proprio a dire basta.
Breaking Bad
Cosa si potrebbe mai dire di Breaking Bad che non sia già stato detto? Forse un aneddoto, quello che mi consentì di scoprire la bellezza di questa serie nonostante le premesse. Già, perché probabilmente non avrei superato la prima (insipida) stagione se non avessi avuto al fianco un convincente viatico da parte di un amico fidato: “fai un atto di fede”, mi disse, “supera la prima stagione”. Fu così che non cedetti e giunsi poi fino alla fine, scoprendo probabilmente uno dei più significativi epiloghi che ricordi.
Il protagonista di Breaking Bad, interpretato con rara vivezza da Bryan Cranston, ricorda i protagonisti di The Affair (vedi la prima parte del post); egli ha una natura duplice e ciascuna delle due dovrebbe scalzare l’altra, essendone agli antipodi. Eppure questo non succede, entrambe le facce della luna sono autentiche, sincere e reclamano il proprio posto. Egli è nero ed è anche bianco, ed è lui stesso il primo ad esserne tormentato. O sacrifica le persone che ama o sacrifica il suo nuovo sé, una disfida che non prevede vittoria, una dicotomia così umana eppure una scelta così inumana, di cui infatti non riesce a farsi carico.
Breaking Bad (vedi il trailer) ha una peculiarità che la distingue dalla stragrande maggioranza delle serie: nonostante la lunghezza, la sceneggiatura dà la sensazione di essere stata scritta per intero prima ancora di iniziare le riprese. Pochi sanno con certezza se sia stato davvero così, o se la scrittura non sia piuttosto avvenuta strada facendo, ma ciò che conta è che Breaking Bad non è mai una minestra riscaldata, mai sembra vivere sugli allori. La progressiva scoperta di Hyde da parte di Jekyll e la conseguente ineluttabile scissione, sono graduali e credibilissime. Nel computo generale ad essere di troppo sono giusto una manciata di episodi, un peccato veniale che non scalfisce la più rara tra le doti di questa serie: l’integrità narrativa, in fin dei conti l’identità.
“L’ho fatto per me. Mi piaceva. Ed ero bravo. Mi sono sentito vivo.”
Lost (prima stagione)
Lost, di cui è ugualmente difficile dire qualcosa di inedito, mostra invece di sé esattamente il contrario. Salpa dal porto seguendo una rotta tracciata solo parzialmente e con essa solca un’entusiasmante prima stagione, dopodiché, superate le aspettative e con la sola gloria a soffiare in poppa, si rifiuta ostinatamente di approdare e imperterrita continua la navigazione a vista, finendo per rendere il suo stesso nome un’infausta premonizione. Lost è come il nocchiere di Leonardo, “ch’entra in navilio senza timone e mai ha certezza ove si vada”.
Dopo la memorabile avventura della prima stagione (vedi qui il trailer), unicamente ad essa sono dedicate queste righe, l’incantesimo svanisce, come i giochi di magia scespiriani. Ma quella botola, signori, quella botola! Il fremente mistero di quella celebre botola è rimasto nella memoria collettiva, capace di far parlare di sé la mattina al bar, sugli autobus, nelle corsie dei supermercati, degno erede dell’omicidio di Laura Palmer.
“Io sono un uomo di fede. Non crederai che tutto ciò sia accidentale? Che noi, un gruppo di sconosciuti, siamo sopravvissuti, molti poi solo con ferite superficiali. Credi che schiantarsi in questo luogo sia casuale? Ma non lo vedi che posto è? Siamo stati trascinati qui per uno scopo, tutti quanti. Jack, ognuno di noi è stato portato qui per una ragione”. (Locke)
Six Feet Under
Se quella del tempo è la prova ultima, Six Feet Under se la sta cavando egregiamente. In fondo è proprio il tempo il soggetto di questo magnifico ritratto. A quasi vent’anni dalla prima apparizione rimane un’imperdibile parabola sulla ciclicità della vita e un’analisi dissacrante sulla fragilità delle certezze di cui abbiamo così disperatamente bisogno.
Con il suo umorismo funebre e gli accenni al soprannaturale, che a tratti ricordano le tonalità messicane alla Esquivel, Six Feet Under (vedi il trailer) si mostra morbida nella veste, nei toni, nei modi, ma lo fa per scelta, perché i temi invece sono i più taglienti possibili, religione, morte, sessualità, fedeltà, famiglia, relazioni. È irriverente verso le convenzioni ma riverente verso l’umana debolezza. Ci mostra che i fantasmi sono tutti al di qua della linea d’ombra che ci separa dalle lande che li vorrebbero di casa. Ci assillano fintantoché siamo vivi, piuttosto, dopodiché si dissolvono con noi.
Alla produzione vanno poi resi almeno due onori. Il primo è l’equilibrio trovato nella scrittura in itinere (è evidente che non tutto fosse già scritto in partenza, anzi) senza diluire l’identità della serie e dei personaggi, tutti riccamente tratteggiati. Alcuni sono davvero a un passo dal materializzarsi qui davanti a noi, la madre dei Fisher per esempio, l’attrice Frances Conroy. E poi la capacità di dire basta e fermarsi prima del naturale declino.
Chi ha amato Pomodori verdi fritti alla fermata del treno troverà familiare il sapore della sigla di apertura, ad opera dello stesso Thomas Newman. Riconoscibile è anche l’impronta di Richard Marvin, che qui fa germogliare quella che diventerà la colonna sonora di In Treatment. A proposito, tra gli altri abbiamo alla regia Kathy Bates e Rodrigo García, figlio di Gabriel García Márquez e insieme a Hagai Levi tra i produttori esecutivi proprio di In Treatment (vedi prima parte del post).
E così anche il nostro cerchio si chiude.
“Penso che alle grandi domande della vita tutti abbiamo le risposte. La questione è come darsi ascolto.”