Presentato al festival del cinema di Venezia, il film J’accuse di Roman Polanski è la storia di un errore giudiziario. Esce oggi in Italia con il titolo L’ufficiale e la spia, lo stesso del romanzo di Robert Harris da cui è tratta la sceneggiatura. Secondo solo a Joker, ha conquistato il prestigioso Leone d’argento, Gran premio della giuria.
Parigi, 1895. Dopo un rapido processo tenuto a porte chiuse per motivi di sicurezza nazionale, il capitano Alfred Dreyfus viene condannato per spionaggio a favore dei tedeschi, espulso dall’esercito con un’umiliante cerimonia pubblica e spedito in carcere nella remota Isola del Diavolo, di fronte alla Guyana francese.
L’opinione pubblica segue con sdegno la vicenda, puntando senza remora alcuna il dito contro il traditore. Come può la Francia essere così sicura della colpevolezza di un uomo condannato con un processo a porte chiuse, di cui dunque non conosce alcun particolare? Semplice: il capitano Dreyfus è un ebreo. L’antisemitismo era molto diffuso all’epoca, pervadeva ogni fascia della popolazione, colta e non. Erranti per definizione, gli ebrei erano ritenuti incapaci di senso patrio, pronti a tradire alla prima occasione, circondati da ricchezze che erano ansiosi di aumentare con ogni mezzo, lecito e non. Si legge nelle pagine di Harris:
“I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. È un progresso, suppongo”.
Il maggiore Georges Picquart, inappuntabile ufficiale quarantenne, viene incaricato di seguire il procedimento con discrezione, dal processo fino alla pubblica condanna e degradazione. I suoi servigi sono tanto apprezzati dal ministro della Guerra che viene promosso ad un ruolo alquanto delicato, quello di capo della sezione Statistica, nome vago sotto cui si cela il neonato servizio segreto francese.
Scrupoloso, sprezzante di ogni servilismo e zona grigia nella gestione dell’ufficio, inizia a tenere sotto sorveglianza diplomatici tedeschi. Con il tempo gli appare chiaro che c’è un altro traditore che sta passando informazioni al nemico e che la fuga di notizie non è terminata con l’allontanamento di Dreyfus.
Retto e ligio al dovere dispiega tutte le tecniche investigative dell’epoca fino a che un sospetto non gli si palesa, deflagrante. Forse quel D. dei biglietti intercettati dal suo predecessore, per cui è stato condannato Dreyfus, non era l’ufficiale ebreo, dopotutto. Forse quel D. è ancora a piede libero e in azione, mentre Dreyfus langue dall’altra parte del mondo in totale isolamento e la sua famiglia non cessa di proclamarne l’innocenza.
Sconvolto, riferisce ai suoi superiori, i quali però non vogliono saperne. La Francia non ha bisogno di “un altro caso Dreyfus”, anche se il caso è lo stesso e Dreyfus è innocente. Picquart potrebbe far finta di nulla. In fondo a lui gli ebrei non sono mai stati particolarmente simpatici e Dreyfus, che è stato suo allievo alla scuola militare, si è sempre mostrato scostante e orgoglioso. Ma Picquart è un uomo d’onore.
Non è ricco, vive del suo lavoro nell’esercito, ha un’amante che incontra di nascosto e che conosce da quando erano ragazzi. Ama i libri e i concerti. Ha, insomma, una vita che gli piace e sa che nulla di buono gli verrà dal seguire una tesi che è avversata dai suoi superiori. Ma sa anche di avere ragione, che un uomo innocente è in galera in condizioni disumane mentre il vero colpevole, da lui scoperto, è una persona meschina che si diverte nei locali notturni.
L’esercito è la sua casa e non può sopportare che si macchi del disonore di aver condannato un innocente. Né tantomeno di essere lui stesso complice di questa ingiustizia. Ed è a questo punto che ha inizio il suo calvario, parallelo a quello di Dreyfus e altrettanto paradossale, grottesco come è sempre grottesco il potere quando cerca di rifiutare la realtà delle proprie pesanti responsabilità sotto una mole di pietose mistificazioni.
Passeranno anni prima che la vicenda trovi un epilogo. Prima che il vento dell’opinione pubblica cambi direzione, seguendo la via indicata con coraggio da Picquart e da quei pochi che sapranno esporsi in suo favore. Come Émile Zola, che sarà processato per il suo celebre J’accuse, la lettera aperta all’allora Presidente della Repubblica francese, Félix Faure, pubblicata il 13 gennaio 1898 dal giornale socialista L’Aurore.
L’affare Dreyfus al cinema
Da Proust a Harris, in tanti hanno scritto dell’affare Dreyfus, anche se mai prima d’ora la vicenda era stata puntualmente raccontata al cinema, a parte un film alquanto dimenticabile del 1991.
L’intreccio di politica, spionaggio, pregiudizi razzisti, onore che si scontra con la corruzione del potere, ingiustizia, vicende umane e private appare talmente dirompente da sembrare nato per il cinema. Se ne sono accorti Robert Harris, lo scrittore autore di appassionanti romanzi storici, e Roman Polanski, regista che di trame claustrofobiche e intrecci thriller se ne intende come pochi.
De L’ufficiale e la spia di Harris, la pellicola mantiene la sequenza cronologica degli eventi – con alcuni flashback sapientemente distribuiti – e la struttura asciutta e snella. Ma la potenza del film risiede tutta nella maestria del regista che lo dirige con una maturità magistrale.
L’ufficiale e la spia è un film virtualmente perfetto: non una cosa è fuori posto, non una scena è di troppo né un’inquadratura elusiva. I fatti hanno un loro peso così grave moralmente che non hanno bisogno di movimenti di macchina grandiosi. Le luci fredde, le ambientazioni spesso in interni claustrofobici, le illuminazioni naturali, persino le ricostruzioni d’ambiente, tutto mira a lasciare che lo spettatore si senta coinvolto ma non abbagliato. Deve mantenersi lucido per indignarsi al fianco di Picquart, un bravissimo Jean Dujardin. Con la sua interpretazione misurata e intensa ha saputo mettersi completamente al servizio del film. Così come Louis Garrel, notevolmente imbruttito per vestire i panni del capitano Dreyfus, rigido, chiuso, austero ma affatto privo di sentimenti.
La scena iniziale, con la cerimonia di espulsione dall’esercito e l’inquadratura sulla spada di Dreyfus spezzata sulle mostrine strappate, si staglia imperiosa e nitida come il J’accuse di Zola. Non a caso i titoli di coda scorrono su quella stessa fotografia. Polanski ha saputo rinunciare alla narcisistica tentazione di esagerare i suoi tratti registici distintivi, mettendosi piuttosto al servizio della vicenda come il suo protagonista. Il risultato è un film teso ma con i tempi perfetti, asciutto ma emozionante, in cui le relazioni fra i personaggi appaiono ben delineate, con pochi tratti.
La storia è ripresa in maniera chiara e dettagliata, e di questo si può ringraziare la penna magistrale di Harris. Ma anche il dispositivo cinematografico ne esce trionfante, senza soffrire di quella sindrome didascalica che talvolta colpisce i film che ricostruiscono vicende giudiziarie.
L’ufficiale e la spia (vedi qui il trailer) è un film che non teme il passare del tempo, che fra 10, 20 anni si potrà rivedere uscendone colpiti come oggi. E non solo per il monito sempre attuale contro la prepotenza e l’arroganza del potere e i pregiudizi razziali, antisemiti in particolare. La spada spezzata di Dreyfus è un potente simbolo della Verità e della Giustizia che non possono essere messe a tacere e che sanno parlare agli uomini retti che conoscono il reale significato della parola onore e hanno il coraggio di agire. Oggi, come allora, come domani.