Può una fotografia contribuire alla fine di una guerra?
Forse è capitato a Kim Phùc Phan Thi, bambina vietnamita protagonista del celebre urlo immortalato da un indimenticabile scatto dal giovane fotoreporter Nick Ut mentre, in lacrime e gravemente ustionata, scappa dal suo villaggio brutalmente attaccato da un bombardamento al Napalm.
Fu una foto che in breve tempo entrò nell’immaginario collettivo e fece il giro del pianeta, perché quell’immagine aveva in sé l’irresistibile forza di parlare al cuore della gente di tutto il mondo, più di migliaia di parole.
Malgrado la distanza geografica e temporale, la guerra del Vietnam, terminata nel 1975 dopo oltre dieci anni di violenti combattimenti, la conosciamo un po’ tutti. Questo per via di una marea di film hollywoodiani che l’hanno raccontata fin nei dettagli più intimi (basti pensare al confidenziale e agghiacciante monologo del colonnello Kurtz, impersonato da un grande Marlon Brando, in Apocalypse Now), seppur quasi sempre da una sola prospettiva: quella degli americani.
Nel 1972 quella lunga ed estenuante guerra è ancora in corso
E pare non voler finire mai malgrado le massicce proteste dei movimenti pacifisti che da anni contestano la partecipazione degli Stati Uniti a un conflitto pieno di contraddizioni e brutalità.
L’8 giugno di quell’anno fu scattata la fotografia, diventata poi così tristemente famosa da passare immediatamente alla storia: la straziante angoscia di una bambina di nove anni mentre correva agonizzante in disperata ricerca di aiuto, urlando tutto il dolore e l’atrocità che ogni conflitto di ogni tempo è in grado di generare. La sua schiena era appena stata martoriata da una bomba al Napalm. Un feroce composto chimico ad altissimo effetto ustionante, largamente usato e abusato in Vietnam insieme al suo parente stretto Agent Orange, un defoliante impiegato per fare terra bruciata nei territori dove era attiva la guerriglia Vietcong. Questo perché se non c’era vegetazione i guerriglieri non sapevano dove nascondersi, e “un Vietcong che non si sapeva nascondere era un Vietcong morto!”
Per fortuna la bimba fu colpita solo di striscio, altrimenti non sarebbe sopravvissuta. Ma per guarire da quella spietata e disumana “carezza” di fuoco furono necessarie 17 dolorose operazioni e anni di sofferenze. Senza contare le cicatrici dell’anima con le quali ha dovuto convivere per tutta la vita e che l’hanno fatta crescere con l’idea che non avrebbe mai avuto una famiglia e una vita normale.
“Da bambina, a nove anni, sapevo di non aver fatto nulla di sbagliato: perché dovevo soffrire così atrocemente? Aprendo la Bibbia un giorno ho letto “ama i tuoi nemici”. Quant’è difficile! Ci provo ogni giorno, per esempio smettendo di chiedermi “perché a me?”, invece di chiedere aiuto, confidando in Dio, essendo positiva».
Oggi Kim Phùc è una donna di 56 anni, vive in Canada con il marito, i due figli e i nipotini. A 47 anni di distanza, dopo un lungo percorso di riconciliazione psicofisica e di conversione al Cristianesimo, si è sentita pronta a ricordare e ha pubblicato la sua autobiografia Il fuoco addosso: La bambina della fotografia racconta (Edizioni Scripsi). L’ha pubblicata dopo avere incontrato e abbracciato, in un estremo gesto di perdono, i piloti che quel giorno sganciarono le bombe sul suo villaggio. «Scrivo solo adesso perché è adesso che mi sento pronta”, dice l’autrice.
«Ho fatto una lista delle mie benedizioni, così lunga che ci metterei un mese a leggerla tutta. Non ci avevo mai pensato: la prima benedizione sta nel fatto che, mentre i miei vestiti e la mia schiena erano in fiamme, i miei piedi erano intatti e mi hanno permesso di correre e di salvarmi. Ho imparato a perdonare e il mio cuore è stato libero. Oggi so qual è lo scopo della mia sofferenza: aiutare le persone, i bambini in difficoltà, dare speranza attraverso la mia vita».
Oltre a essere ambasciatrice di pace dell’Unesco, Kim Phùc è promotrice di opere a favore dei bambini vittime delle guerre tramite la sua associazione “The Kim Foundation International”, che interviene costruendo scuole e ospedali e cercando di dare una casa a coloro che sono rimasti orfani.
Il ricordo di quel triste giorno di giugno del 1972 è ancora più che mai vivo nella sua mente:
«Stavo giocando con mio cugino vicino al tempio, era poco dopo pranzo. Arrivò un soldato che ci disse di correre via perché il villaggio sarebbe stato bombardato dagli americani. Iniziai a correre, vidi quattro bombe che cadevano dal cielo e dopo qualche secondo vidi solo fuoco ovunque, anche su di me. Mentre fu scattata quella foto, stavo gridando “brucia brucia”, poi dopo poco mi fermai esausta, qualcuno mi diede dell’acqua e persi i sensi. Da quel momento non ricordo più nulla».
Nick Ut, il giovane reporter vietnamita che grazie alla foto a Kim Phùc vinse il Premio Pulitzer, ricorda i momenti drammatici di quel giorno:
«Ho visto gli aerei, li ho visti sganciare le bombe. Poi le fiamme, un immenso fuoco. Ero a un centinaio di metri dalle case, sulla strada, con alcuni soldati, qualche reporter. Guardavo, fotografavo. Poi, come fantasmi, dal fumo vedo arrivare della gente: cercavano di salvarsi come potevano, piangevano, correvano senza sapere dove. Un bimbo è morto sotto i miei occhi, un ragazzino piangeva disperato ferito all’occhio, una bambina con il fratellino per mano. Guardavo attraverso la macchina fotografica, scattavo. E attraverso il mirino vedo una bimba completamente nuda, mi veniva incontro, le braccia aperte, sembrava Gesù, piangeva: i vestiti le si erano incendiati addosso, urlava di dolore, urlava di paura.
La schiena, le braccia, le gambe erano completamente ustionate. “Brucia, brucia, brucia”, ripeteva terrorizzata. Ho fotografato, ma non volevo fotografare. L’abbiamo soccorsa lì, come potevamo. Un soldato le ha bagnato il corpo con l’acqua. Le ho messo addosso un impermeabile, l’ho abbracciata. In quel momento ho pensato che non potevo continuare a fotografare. Che non avrei fotografato mai più. Ho pensato che se quella bimba fosse morta, mi sarei ucciso. E cominciai a piangere»
Napalm e Agent Orange sono rimasti lì
Oggi il Vietnam è un altro mondo, lontano anni luce dalle guerre che lo hanno dilaniato nel secolo scorso. Ma il Napalm e l’Agent Orange sono rimasti lì, abbracciati affettuosamente a ogni fazzoletto della terra vietnamita. Soprattutto intorno al 17mo Parallelo, la linea di confine che divideva il Vietnam del Sud con quello del Nord. Ora l’Agent Orange continua la sua guerriglia comportandosi come un parassita: si nutre dell’ecosistema e lo inquina con le proprie tossine. Milioni di esseri umani furono esposti al veleno che spogliava le piante, contaminava fiumi e terra ed entrava nella catena alimentare. Almeno un milione di loro riportarono forme di neoplasie e malformazioni che ancora perdurano.
Ormai da tempo il governo americano invia aiuti in Vietnam per seguire chi sta soffrendo dei sintomi da esposizione da questi veleni e porta avanti, assieme al governo vietnamita, operazioni di bonifica nelle aree contaminate, seppur il lavoro da fare è ancora molto, considerando l’alto grado di devastazione scientificamente perpetrato dall’esercito statunitense.
Da parte loro, i vietnamiti hanno smesso di coltivare risentimento verso gli antichi nemici che sterminarono tre milioni di compatrioti. La popolazione è concentrata sul presente e sul futuro più che sul passato. Oggi il Vietnam è un Paese aperto e sereno, in ottimi rapporti diplomatici con tutti. Paradossalmente lo è soprattutto con gli Stati Uniti d’America, con i quali condivide pragmaticamente strategie economiche, geopolitiche e militari.
Fa un certo effetto, più a noi occidentali che a loro, vedere l’amore che i giovani vietnamiti hanno oggi per la cultura americana. Lo si vede lungo le strade trafficate di Hanoi o di Saigon, ora chiamata Ho Chi Minh City, dove è facile incontrare ragazze adolescenti in abiti americani, canticchiando una canzone di Ariana Grande o di Bruno Mars. O nelle lunghe file davanti ai cinema per vedere l’ultimo film di Hollywood. O davanti ai Mac Donalds e agli Starbucks in attesa di avere un posto a sedere. E non tanto perché quello che propongono sia particolarmente buono (anzi…), ma perché rappresentano i simboli del sogno americano.
Il bello è che tutto questo accade sotto le tante bandiere rosse con falce e martello che decorano le città. Ma anche questo fa più effetto a noi occidentali che non a loro. L’amore per la cultura americana non è vissuto come una rivalsa verso il passato o una sfida alle autorità locali. E’ semplicemente vissuto per quello che è, senza alcun peso simbolico, senza rancore o tensione.
E qui sta tutta l’essenza della cultura orientale: viene semplicemente vissuto per quello che è…