Nella tana, l’incapacità di resistere al male nel giallo della Kastel

Tra le righe del giallo Nella tana, per raccontare una storia di smisurato orrore, Michaela Kastel sceglie il punto di vista meno disturbante per il lettore dotato di un briciolo di sensibilità: quello delle vittime, lasciando i mostri sullo sfondo.

Tuttavia, in questo vi è molto poco di consolatorio perché la vicenda si dipana rivelando un meccanismo che comporta una specie di perversa staffetta, per cui i mostri di oggi sono le vittime dei mostri di ieri. E le loro vittime, nel remoto caso in cui riescano a sopravvivere, sono destinate a trasformarsi, almeno in alcuni casi, nei mostri di domani.

Prigionieri dentro e fuori

nella tanaCome in ogni orrore che si rispetti, un elemento fondamentale della cornice è la claustrofobia. Quella che, tra le pagine di Nella tana, ispirano la casa-prigione delle vittime e il cupo bosco selvaggio che la isola dal resto del mondo; o quella sottintesa dall’ambientazione oppressiva e invernale che si estende anche al di fuori della prigione stessa.

Tutti i personaggi sono comunque prigionieri di qualcosa: le vittime dei mostri, ma anche i mostri lo sono, del “male” che è dentro di loro. Perfino chi si impegna a strappare le vittime ai mostri nasconde dentro di sé qualcosa che si è rotto e che rende il proprio impegno finalizzato a salvare più sé stesso che chiunque altro.

Da una situazione del genere non si salva veramente nessuno; al massimo, si riesce a salvare qualche coccio di una vita infranta, da rimettere faticosamente insieme alla meno peggio.

I personaggi

nella tanaC’è una casa isolata in montagna, all’estrema periferia di un piccolo paese, da qualche parte in mezzo alle Alpi. Lì vive una singolare famiglia unita da una fitta tessitura di rapporti patologicamente stretti.

C’è un uomo, che gli altri chiamano papà, e ci sono cinque altre figure, legate a lui dal terrore, dalla dipendenza e da un oscuro e lacerante senso di colpa. Sono i soli cinque superstiti di una lunga serie di bambini rapiti e abusati dall’uomo stesso, che nel tempo sono diventati i collaboratori dei suoi delitti. Tre di loro, un maschio e due femmine, sono ormai adolescenti; gli altri due, un maschio e una femmina, ancora bambini.

A prima vista, i cinque sembrano uniti da legami molto più stretti e sinceri di quello che li incatena all’uomo, ma nel tempo si rivelano semplicemente istintivi, come può esserlo un istinto di sopravvivenza. Ormai incapaci di provare sentimenti profondi, gli adolescenti sono diversi dai bambini. Loro non hanno praticamente mai vissuto, né possono ricordare di aver mai vissuto.

C’è anche una poliziotta, che da tempo sta cercando a tentoni, in un mondo rarefatto, di pochi abitanti e poche tracce, quanto possa essere rimasto dei tanti bambini scomparsi nella zona e mai più ritrovati. Lei vive la frustrazione quotidiana di non potersi più nemmeno illudere di ritrovarli vivi.

La salvezza?

C’è infine un antefatto, che definisce come il mostro di Nella tana sia diventato tale. La situazione ha, a un certo punto, un imprevedibile rovesciamento, che sembra aprire finalmente la speranza a una possibilità di salvezza. Ma la salvezza è possibile solo per chi è convinto, per fede o logica, di meritarla: come recita una canzone di De Andrè, “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura” e nessuno può averne più paura di chi lo ha visto. Anzi, di chi conosce, o ricorda, solo quello.

Quindi, in una modalità così sfumata da risultare quasi impercettibile, si compie un altro passaggio di quella staffetta di cui dicevamo prima e le vittime cominciano a rivelare il mostro che da tempo cresceva in loro. Non tutte, però, e a determinare la conclusione sarà l’esito del conflitto che esplode tra loro.

Lo stile crudo, come la storia

nella tanaNella tana, presentato in Italia nella collana di gialli tedeschi della Emons (l’autrice, però, è austriaca) è un romanzo che non vuole apparire gradevole in nessun punto, non si sforza minimamente di esserlo e non consuma neanche una virgola in ricercatezze linguistiche, lessicali ed espressive che sarebbero sprecate, anzi suonerebbero leziose, nel racconto di una storia come questa. Il che non significa certo che sia scritto in un registro povero e inespressivo, anzi: semmai è scritto nel modo che esprime meglio la realtà dei personaggi che, di volta in volta, illustrano al lettore il loro punto di vista.

Non c’è comunque nessuna particolare truculenza: non è necessaria, la storia è già abbastanza terribile di per sè. Non si può neanche dire che il male prevalga sul bene o che il bene e il male si confondano – tipici cliché del genere – semplicemente perché un vero bene non c’è, al massimo c’è l’istinto di resistere al male e di sopravvivergli. In compenso, il male si mostra con molte gradazioni e alcune di esse ispirano una pietà sorprendente e lacerante.

La capacità di resistere al male

Per questo, si può raccomandarne la lettura di Nella tana a chi se la sente di guardare in fondo agli abissi del cuore e del comportamento umano, reali o immaginari, senza rimanere paralizzato dalla paura di vederci dentro chissà cosa, magari la propria stessa immagine riflessa da uno specchio. Nessuno di noi è così immacolato e perfetto da poter affermare che, se le circostanze glielo avessero imposto a forza, avrebbe resistito al male senza cedergli, prima o poi.

Roberto Cocchis

Roberto Cocchis

Classe 1964, insegnante di liceo, autore di un piccolo successo editoriale (Il giardino sommerso, Lettere Animate, 2017) e di altre opere di narrativa, collaboratore di Cronache Letterarie e di Vanilla Magazine; amo i misteri e i gialli, sia quelli veri sia quelli inventati, con preferenza per quelli dimenticati e soprattutto quelli introvabili: vedi la mia rubrica su Cronache Letterarie.

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