Cormac McCarthy è considerato uno dei massimi scrittori dei nostri tempi, autore di Meridiano di sangue e di Non è un paese per vecchi, nel 2007 ha vinto il premio Pulitzer con La Strada, dove un uomo e un bambino viaggiano tra le rovine del mondo ridotto in cenere, con un carrello del supermercato.
Non ricordavo di possedere La strada di McCarthy. Quando l’ho visto nella libreria mi sono stupita. Credevo di averlo letto una prima volta dopo averlo preso in prestito in biblioteca. E invece era “mio”. L’ho preso subito e ho cominciato a leggerlo.
Spesso in questo ultimo mese prendo un libro e dopo poche pagine lo pianto lì. Faccio fatica a trovare qualcosa che davvero mi vada di leggere, o rileggere. Per La strada nessuna fatica. Avendolo già letto, ricordavo la trama ma non il modo sublime in cui è scritto. L’ho iniziato e divorato. Perché?
La strada, letto in tempi normali, ti sembra un romanzo catastrofico scritto in maniera sublime, ma che non ti riguarda, semmai riguarda gente che vivrà, chissà quando, in un tempo lontanissimo, addirittura improbabile. Letto ora fa tutto un altro effetto.
È una storia non probabile ma “vera”. Stavolta mi sono identificata sia nel padre che nel figlio, protagonisti della storia. Dopo una catastrofe di cui non si racconta nulla, i due vagano per una terra desolata e senza vita, dove qualunque cosa ha assunto il colore grigio. Il finale consolatorio mi è sembrato forzato, data la durezza di tutto quello che succede prima. Forse in questi casi c’è bisogno di qualcuno che ti dica “ad alcuni non succederà” e tu, lettore, ti identifichi con quelli a cui non succederà.
Durante questa mia seconda lettura de La strada, quando smettevo di leggere per fare altre cose, quello che vedevo intorno a me – che vivo in campagna e ora è tutto verde – non mi sembrava più così bello e confortante rispetto a quello che ci sta succedendo con la pandemia. Guardando il prato, gli alberi, la terra arata mi dicevo: “Tutto questo può finire da un momento all’altro”. Ma poi riprendevo la lettura e quando l’ho finita mi è dispiaciuto.
L’importanza del contesto
Stavolta ho toccato con mano quanto pesi il contesto in cui avvengono le nostre esperienze, quello in cui si srotolano le nostre singole vite. Solo nell’attuale momento di epidemia mondiale in cui stiamo in casa e abbiamo paura di essere contagiati, ho capito quanto conti e ci condizioni. Ora siamo attenti. Le scene che vediamo in tv ci atterriscono e cerchiamo in tutti i modi di salvaguardarci. Si è quindi creato un contesto diverso da “prima”.
Sì, il contesto, è quello che conta. Alzarsi al mattino, parlare con qualcuno – se c’è – pulire la casa, cucinare, andare a fare la spesa e naturalmente per molti leggere, mentre intorno a noi la gente si ammala e troppi muoiono.
Allora, l’ho iniziato e divorato. Perché?
Lì per lì non sapevo perché La strada mi prendesse così “di petto”. Ora a posteriori mi viene in mente che in questo romanzo cercavo risposte. Mi capita con pochi scrittori, Kerouac, Dostoevskij, Carrère, Modiano e pochi altri. Nel romanzo cercavo risposte sull’oggi, su questo nostro momento. E non perché, fortunatamente, gli esseri umani stiano facendo la fine che lì è raccontata. Tanti hanno profetizzato che l’umanità avrebbe rischiato l’estinzione a causa dei cambiamenti climatici. La risposta che cercavo lì era alla domanda: cosa fare per impedire che questa estinzione avvenga? Si parla di come saremo dopo la fine della pandemia. Saremo più consapevoli dei nostri veri bisogni? O distruggeremo di nuovo l’ambiente in cui viviamo al solo scopo del guadagno?
Nel romanzo di Cormac McCarthy (leggi anche qui) l’estinzione è quasi del tutto già avvenuta e i sopravvissuti sono pochissimi. La natura come la conosciamo non esiste più, per sopravvivere gli uomini si mangiano l’un l’altro. Quelli che lo fanno vengono definiti dal padre e dal bambino “i cattivi”. Loro due vagano per quella landa grigia, senza un filo d’erba che non sia morto, alla ricerca dei “buoni”.
Il bambino chiede ossessivamente al padre: “Noi siamo i buoni?”
Per questo bambino affamato e terrorizzato, essere tra i buoni è più importante che essere vivo e vorrebbe aiutare quelli più sventurati di lui che incontrano. Il padre no. Il padre sa che per sopravvivere non possono aiutare nessuno, anche se non si ciberà di altri esseri umani.
Nella tragedia che stiamo vivendo ora nel mondo, anche a me viene istintivo chiedermi chi siano i buoni. E la risposta che mi do è la stessa del bambino: quelli che più si sacrificano a rischio della propria vita per aiutare gli altri.
“…Perché noi portiamo il fuoco”. Questa secondo me è la frase struggente e allo stesso tempo salvifica che caratterizza questo racconto. Forse una suggestione religiosa ma anche profondamente umana.
La tua osservazione è giusta. A me questa frase ha evocato subito il film di Annaud “la guerra del fuoco”, dove il fuoco veniva portato ovunque perché non si sapeva ancora come fare ad accenderlo di nuovo. Chi aveva il fuoco aveva il potere. E in questo film non c’erano i buoni e i cattivi come ne “La strada”. Quella che noi definiamo bontà non era ancora una qualità umana esistente. Ne “La strada” sì, “noi portiamo il fuoco” , ve lo doniamo, abbiamo rinunciato al potere.
Sono d’accordo con te: libri letti “prima” non hanno lo stesso impatto che letti o riletti ora (pensa anche a Cecità di Saramago). Sono interessanti le tue riflessioni. La forza di questo libro, per me, è l’intreccio delle relazioni: la prima -ovvio- quella tra padre e figlio, ma poi ci sono tutti gli incontri.
Sì gli incontri, quasi tutti terribili, sconvolgenti; lasciano il bambino incredulo nonostante ne abbia già passate tante, eppure è quello che non ne rimane segnato in maniera indelebile. Il mondo salvato dai bambini? Lo pensiamo anche oggi, almeno in molti ( o alcuni)