Quando è uscita Hunters, la serie targata Amazon con nientemeno che Al Pacino e Logan Lerman per protagonisti, i giornali riportavano crescenti episodi di antisemitismo. Poi è arrivata la pandemia e dalla lotta all’antisemitismo – peraltro negato da alcuni – siamo passati abbastanza congiuntamente a combattere un altro nemico, non meno insidioso, ma innegabile. Di fronte alla malattia fisica infatti non si possono chiudere gli occhi come davanti alle fragilità della democrazia.
Fa comunque uno strano effetto guardare questa serie pensando di gustarsi una sorta di divertissement esagerato e poi ritrovarsi a pensare che, se è vero che la realtà supera sempre la fantasia, c’è poco da stare allegri.
New York, anni ’70
Ambientata a New York negli anni ’70, Hunters segue le vicende di Jonah Heidelbaum (Logan Lerman), ventenne commesso di un negozio di fumetti. Rimasto orfano da bambino, è stato cresciuto dall’amatissima nonna Ruth, sopravvissuta alla Shoah. Faticando a tirare avanti, Jonah tenta maldestramente di trasformarsi in un piccolo pusher, ricavandone solo cazzotti e una sgridata da parte della sua safta: “nonna” in yiddish (la serie è piena di questi termini).
Ruth gli ricorda che con la sua intelligenza e bontà d’animo potrebbe aspirare a qualcosa di meglio, ma Jonah vede poche alternative. Non sa che la sua vita sta per cambiare: quella notte infatti un uomo entra in casa e uccide la nonna a sangue freddo. Jonah non osa far nulla, può solo tenere la sua safta fra le braccia mentre muore. Nessuno sembra capire cosa sia successo ma Jonah si rende conto che qualcosa non quadra, perché Ruth pareva conoscere il suo assassino.
Al funerale però Jonah conosce un vecchio amico della nonna, Meyer Offerman (Al Pacino), che si offre di aiutarlo in caso di necessità.
Deciso a farsi giustizia, il ragazzo comincia a indagare per conto proprio ma finisce per essere beccato dalla polizia con la droga che voleva usare, non più per arricchirsi ma per avere indizi sull’identità dell’assassino. Offerman viene quindi in suo aiuto e Jonah scopre così la verità sul suo ricco e misterioso benefattore: Meyer aveva conosciuto Ruth sulla strada per Auschwitz e ora, trent’anni dopo la fine della guerra, si erano ritrovati per un motivo.
Avevano creato una piccola squadra il cui scopo è individuare ex ufficiali nazisti, nascosti negli Stati Uniti. Sparsi per il paese, alcuni di loro conducono vite modeste mentre altri ricoprono ruoli di rilievo, persino nella Nasa e nel governo: questi insospettabili mostri della porta accanto cospirano per realizzare un Quarto Reich.
Cacciatori di nazisti
Offerman ha messo quindi in piedi un gruppo per rintracciarli e fare giustizia in nome dei milioni di ebrei uccisi nel corso della Shoah, i cui membri diventano giudici e giuria per questi imperdonabili assassini. Jonah finisce così per entrare nell’improbabile team di “Cacciatori” di nazisti, che include un attore in disgrazia (gustoso ruolo per Josh Radnor, già protagonista di E alla fine arriva mamma), un combattivo veterano di origini giapponesi, una coppia di sopravvissuti (gli strepitosi Saul Rubinek e Carol Kane), un’ambigua suora-spia e una tosta giovane madre di colore.
Hunters si sviluppa come un thriller che, fedele all’ambientazione anni ’70, non lesina scene pulp o irresistibili intermezzi di genere. Come quando Offerman presenta la sua squadra e per ogni membro vediamo una sorta di trailer con tanto di poster, in stile film di serie B dell’epoca. O il geniale finto spot per la cittadina nazi-americana e il quiz “Perché tutti odiano gli ebrei”, piccolo capolavoro che raccoglie in modo amaro e dissacrante tutti i luoghi comuni del più becero antisemitismo.
Eppure, nonostante queste vivaci parentesi e le numerose battute al vetriolo disseminate nelle puntate, il materiale è denso, con una scrittura profonda e intelligente che sa costruire bene la suspense senza mai perdere il filo dei numerosi intrighi e regala ad Al Pacino un personaggio complesso, tra i più stimolanti.
“Vivere bene è la migliore vendetta”
I dialoghi di Hunters sono in effetti il suo vero punto di forza: problematici dal punto di vista morale, talvolta sentenziosi come le Sacre Scritture, talvolta spiccatamente pop. All’inizio della prima puntata Lerman, che a ventotto anni tiene testa ad Al Pacino con naturalezza ed intensità, pronuncia una battuta che riassume il dilemma alla base dell’intera serie:
“L’unica differenza tra un buono e un cattivo è chi vende più costumi ad Halloween”.
E il nucleo di Hunters è proprio il paradosso delle vittime che diventano carnefici. Il ribaltamento del famoso principio del Talmud che “vivere bene è la miglior vendetta”. Laddove per Offerman esiste solo la vendetta perché “un eroe non è chi fa la cosa giusta, ma chi fa la cosa necessaria”. E “la migliore vendetta è la vendetta”.
Jonah ha un atteggiamento ambivalente rispetto a questo modello, vorrebbe seguirlo ma quando arriva al dunque esita. Uccidere qualcuno a sangue freddo può essere comunque difficile da mettere in pratica, anche quando davanti hai un feroce criminale nazista. E in questo tentennamento si dipana il suo rapporto con Millie Morris (la brava Jerrika Hinton), agente dell’FBI che incontra e si scontra con gli Hunters, i cacciatori.
Donna di colore e lesbica, profondamente religiosa e scrupolosa, Millie prova repulsione tanto verso i nazisti quanto per i modi di Offerman, ma è comunque costretta a mettere in discussione le sue certezze. Perché scoperchiato il vaso di Pandora è inevitabile interrogarsi: per esempio, le fiabe sono solo favole o un mezzo occulto di propaganda? La strega di Hansel e Gretel era la cattiva o solo una ricca ebrea che i due piccoli ariani uccidono per appropriarsi delle sue ricchezze?
In fondo dice Millie: “Le storie non sono scritte per quelli come noi, ma siamo noi che dobbiamo sconfiggere i mostri”. E’ uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo e chi meglio di chi ha subìto l’indicibile?
Sì, le storie sono raccontate per la maggioranza che però lascia che nella realtà siano le minoranze a ripulire il mondo dai mostri, razzismo in primis.
Una serie iperbolica
Hunters è stata criticata dal museo di Auschwitz per aver messo in scena sevizie naziste che non hanno mai avuto luogo, come se quelle evidenti esagerazioni grottesche e raccapriccianti fossero una mancanza di rispetto verso gli orrori che vi sono effettivamente stati commessi.
Personalmente la ritengo piuttosto un’iperbolica reazione, uguale e contraria al negazionismo mai sopito. D’altro canto Hunters non si pone in nessun modo come ricostruzione realistica, né dal punto di vista stilistico, né tantomeno a livello di trama. È piuttosto un guilty pleasure, un piacere di cui vergognarsi un po’, perché è sopra le righe ma è anche splendidamente recitato e perfettamente costruito. Ha uno stile variato ma mai slegato. Ha dei colpi di scena che in fondo ci aspettiamo e poi un finale che sconvolge davvero nella sua geniale improbabilità.
Quindi prendete i pop corn ma preparatevi anche a farvi delle domande. Perché, e questa è l’unica cosa veramente realistica, i mostri sono qui ora e… ”possiamo essere noi”, se non stiamo attenti.