Non sono mai stata in galera, ma credo che se dovessi passare qualche tempo dietro le sbarre, tutto mi verrebbe in mente fuorché di andarmi a rileggere le Lettere dal carcere o Le mie prigioni – così come, del resto, non consiglierei mai un Thomas Bernhard a un amico depresso o La montagna incantata all’ospite di un sanatorio. Con ciò non intendo criticare quanti hanno preferito rileggersi Tucidide, Lucrezio, Manzoni o Camus: è che dovendo lasciare la mia cella, preferisco fuggire in aperta campagna piuttosto che ritrovarmi con altri reclusi nel cortile del penitenziario.
Così, non potendo rifornirmi di libri come ho fatto per le derrate, ho deciso che era finalmente giunto il momento di riscoprire un autore che ho avuto modo di apprezzare tanti anni fa ma sul quale non ero più tornata: Tommaso Landolfi.
La scelta non è stata casuale: in un periodo in cui le statistiche sui decessi continuavano a richiamare alla mente i Soldati di Ungaretti; in cui i media sembravano bearsi della congiuntura che li avrebbe foraggiati per i mesi a venire; in cui il numero dei virologi pareva crescere allo stesso ritmo di quello degli infetti; in cui dovunque, chiunque si sentiva comunque in dovere di dire qualunque cosa con toni apodittici, beh, in un periodo del genere ho sentito il bisogno di rifugiarmi fra le pagine di un scrittore colto, ironico, pacato, discreto. Uno dei pochi ad aver cantato fuori dal coro e dei pochissimi ad avere avuto il coraggio di ammettere “avevo iniziato a scrivere io, e mi sono vergognato”.
Landolfi nasce nel 1908 a Pico, vicino Frosinone, da una famiglia di possidenti terrieri di antica nobiltà. Dopo un’infanzia non facile – perde precocemente la madre, incinta d’un secondo figlio –, frequenta con risultati tutt’altro che brillanti il ginnasio in anni in cui l’assenza della figura paterna lo porterà a sviluppare insofferenza per ogni tipo di autorità. Fin da adolescente manifesta interesse per il cinema, il teatro e le lingue straniere, al cui studio si accosta come a un passatempo, oltre a una maniacale passione per il gioco d’azzardo.
Conseguita la maturità classica e trasferitosi a Firenze per gli studi universitari, nel 1932 si laurea in lettere con una tesi su Anna Achmatova, ancora vivente e praticamente sconosciuta. Stringe amicizia con Renato Poggioli, Leone Traverso, Carlo Bo e Mario Luzi; e inizia molto presto a pubblicare i primi racconti e romanzi. Si avvicina all’attività di traduttore più per necessità economica che per mero interesse, ma per lui la traduzione rimarrà sempre subalterna alla scrittura vera e propria. Traduce da russo, francese, tedesco e spagnolo.
Vive dunque a Firenze negli anni in cui la città – soprattutto attraverso la rivista Solaria – funge a un tempo da approdo e da ormeggio per la grande letteratura inglese, francese, mitteleuropea, russa, statunitense. Si tratta di un’operazione per mezzo della quale la società letteraria fiorentina tenta di erigere barriere atte ad arginare la distruzione culturale che fascismo e nazismo vanno preparando da tempo.
Dopo la guerra Landolfi abbandona il capoluogo toscano disconoscendone il ruolo di guida che aveva rivestito fino ad allora nel panorama editoriale e intellettuale italiano, e comincia a collaborare al Mondo di Pannunzio e al Corriere della Sera.
Continuerà per tutta la vita a interessarsi di letteratura russa, divenendo apprezzato traduttore di Čechov, Dostoevskij, Gogol’, Puškin e Tolstoj.
Sperimenta al tempo stesso i più disparati generi letterari, dal racconto (Le labrene) al romanzo (Cancroregina, Le due zittelle), dalla saggistica (Gogol’ a Roma) alla poesia (Filastrocche, Il tradimento), dalla diaristica (Rien va, Des mois) alla drammaturgia (Landolfo VI di Benevento).
Non si dedicherà mai alla politica attiva, benché il suo radicato antifascismo lo avesse portato nel 1943 a scontare un mese di reclusione alle Murate per le sue invettive contro il governo.
Giocatore impenitente alla stregua dell’Aleksej Ivànovic dostoevskijano, vive fra Roma e la tenuta di famiglia a Pico, con frequenti puntate – è proprio il caso di dirlo – presso le principali sedi di case da gioco italiane e tedesche.
Nel 1946 realizza una vincita milionaria – ne parla Gadda in una lettera a Gianfranco Contini –, che servirà al “radicale svecchiamento del guardaroba” e all’acquisto di una potente motocicletta.
L’amicizia con Gadda risale ai tempi del Solaria, del caffè Giubbe rosse e della trattoria L’antico fattore, e sarà spesso costellata di attriti e incomprensioni. La disinvoltura e l’arguzia di Lanfolfi si scontreranno più d’una volta con le inibizioni e la suscettibilità di Gadda anche sullo stesso fronte letterario, dove Tom si prende beffe degli “sconci giochi di parole” di Carlino, e quest’ultimo si diverte a bollare l’amico come un “alquanto gelido e congegnato surrealista”.
Per il resto, Landolfi conduce vita appartata al limite della misantropia: rifiuta di farsi fotografare e di rilasciare interviste, e manifesta un odio viscerale nei confronti dei salotti intellettuali e dell’ambiente letterario ufficiale. Nel 1955 si sposa con Marisa Fortini, originaria di Pico, di quasi trent’anni più giovane di lui; nel 1958 nasce Maria (chiamata Idolina in virtù della forte somiglianza con la nonna paterna) e nel 1961 Landolfo, detto Tommaso.
È destinatario di una quindicina fra i più importanti premi letterari, fra cui Campiello, Strega e Viareggio (Narrativa e Poesia). Nel 1962, in occasione dell’assegnazione del Montefeltro, il presidente di giuria Carlo Bo, che ben lo conosce, gli fa sapere che se vuole riscuotere il premio dovrà intervenire di persona alla cerimonia.
Più dell’innata ritrosia poté l’ossessione: si recherà a Urbino e spenderà sul tavolo da gioco i due milioni di lire ricevuti – in questo, il demone di Landolfi è in buona compagnia: basti pensare all’alcool di Hemingway, al sesso di Byron o al fumo di Prévert, per tacere di un Verlaine o di un Rimbaud, che di demoni ne avevano più d’uno.
Trasferitosi da tempo sulla riviera ligure per sfuggire ai rigori climatici di Pico, muore a Ronciglione nel 1979 a causa di un enfisema polmonare. Il patrimonio letterario lasciato in eredità da Landolfi diviene oggetto di studi e riedizioni su iniziativa di Idolina, che per il resto della vita (purtroppo breve: morirà appena cinquantenne nel 2008) si occuperà della revisione critica e della promozione dei testi paterni, curando nel 1991-92 la pubblicazione delle Opere in due volumi e fondando nel 1996 il Centro Studi Landolfiani.
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Cosa rendeva diverso, irraggiungibile e unico il Tommaso Landolfi scrittore?
In Des mois confessa:
Non ho mai avuto la pazienza (ed è forse mio merito) di tirare davvero a pulimento certe pagine, che nondimeno parvero a taluno particolarmente ben tornite… Ma un bel giorno, sentendomi prigioniero entro i miei quasi fisici risentimenti nei riguardi della pagina, un bel giorno deliberai di allentare il controllo sulla medesima, anzi di lasciarle addirittura le briglie sul collo, e giunsi […] ad una positiva sciattezza. Ebbene, lo credereste? Non per tanto cessai od ho cessato di essere definito “stilista”.
Ma già anni prima, in LA BIERE DU PECHEUR – scritto in maiuscolo come un’insegna, per creare volutamente una multipla ambiguità fra bière-birra e bière-bara, e fra pêcheur-pescatore e pécheur-peccatore (in francese le maiuscole non prendono l’accento) –, aveva lanciato un interrogativo che resterà senza risposta:
Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?
Hanno detto di lui
Carlo Bo
Critico letterario, accademico e politico: Il carattere primo di Landolfi va fissato in tre momenti essenziali: un’intelligenza fuori dal normale, straordinaria, delle virtù altrettanto eccezionali d’artista e infine il sentimento della condizione umana che ha avuto in lui un servitore di grande fedeltà. È il primo scrittore italiano dopo D’Annunzio a poter far con la penna tutto quel che vuole.
Italo Calvino
Così ha definito l’ambivalente rapporto di Landolfi con la letteratura: È il gesto di chi impegna tutto se stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via.
Giovanni Maccari
Critico letterario, tra i massimi esperti dello scrittore: Fin da subito Landolfi fa dei russi la proiezione fantastica della sua realtà. Bisogna capire che in lui l’osmosi tra vita e arte è totale, e quell’amore esplode in una giovinezza d’entusiasmi studenteschi nella Firenze di Solaria, che importa grandi stranieri; poi l’atteggiamento si trasforma in una specie di cara memoria di cui quasi vergognarsi. D’altronde Landolfi non visitò mai la Russia, per lui fantasia. Molto reale, molto vicina però, appunto, una fantasia. […] Ma il suo prelevamento più forte mi sembra quello del personaggio oblomoviano, del disutilaccio, come scriveva, di colui che reputa ogni realizzazione umana come sbagliata nonostante i grandi ideali, e che con autodenigrazione frustrata si condanna all’ozio.
Giorgio Manganelli,
Scrittore, giornalista, traduttore e critico letterario: Fu uomo solitario, bizzarro, schivo non per timidezza, ma per una sorta di disdegno, di furore, di irrisione… Ebbe la gloria di essere uno scrittore inutile. I suoi libri affascinano perché contengono attente contraddizioni, e la sua prosa magra, senza sorriso, ma in nessun caso parlata, si porta appresso immagini di orrore, di sgomento, di decadenza, di spregio.