Come riconosciamo un’opera d’arte? Come la distinguiamo da ciò che arte non è? C’è una modalità preferenziale per fruirla? In che modo un’opera ci parla? A questi interrogativi cerca di rispondere Paola De Santiago Haas in un infervorato confronto con alcuni artisti e critici leggendari.
Andando giù per via di Monserrato – tuttora ombelico romano dell’arte nonostante la triste chiusura di alcune storiche gallerie e l’ancor più triste comparsa di pseudogallerie – incontro Maja Titonel. Maja, come tutti, spera di riaprire presto la sua bella galleria. A pochi passi dall’abitazione che fu di Cy Twombly, qualche giorno prima aveva scritto agli amici:
In tempi non sospetti [il progetto anticipava] l’attuale richiesta di distanziamento sociale, seppure le ragioni fondanti siano ben diverse.
Maja si riferiva al suo progetto Miscellanea – l’esercizio dell’arte, nato dalla necessità di cambiamento che si annidava da anni in lei. In Miscellanea lo espone così:
Per ogni mostra solo tre opere o un’unica installazione. Tre sedie opportunamente distanziate invitavano i visitatori ad accomodarsi per sottolinearne la permanenza.
Viene quindi abolito l’iconico vernissage d’inaugurazione. Il principio che sta dietro a Miscellanea è il riconoscimento del valore dell’arte.
L’esperienza artistica e/o estetica, allenata con costanza, raffina via via la nostra capacità di sentire, nutre l’intelligenza non lineare, crea legami e memorie, vitalizza.
Sono fulminata dalla riflessione di Maja sul ritorno alla funzione vera dell’arte, e per estensione dei luoghi che la espongono. O meglio, che la custodiscono.
I pensieri m’invadono mentre cammino; più in là passo la bottega dell’antiquario Serafinelli e mi torna in mente quando tempo fa commentavamo la celebre affermazione del pittore brasiliano Cândido Portinari:
El arte es arte o es mierda.
Trascorrono giorni e settimane e questi pensieri lievitano. Come se si fosse aperto dentro di me un vaso di pandora. L’arte è sempre stata un luogo privilegiato del mio metabolismo, ma questo è troppo… Pensieri di ogni tipo aprono porte nella mia mente, tormentandomi giorno e notte. E domande, domande… in fondo quelle di sempre, ma che ormai non aspettano.
Cent’anni fa André Breton leggeva, sul palco del Théâtre de l’OEuvre di Parigi il Manifeste Cannibale Dada. Quello stesso 27 marzo Breton leggeva un manifesto di Francis Picabia. Anzi: Breton addirittura vestiva un manifesto di Picabia con su scritto:
Perché amiate qualcosa bisognerebbe che l’abbiate visto ed ascoltato da molto tempo, branco di idioti.
Un manifesto che parla di cannibalismo, un altro di amore…
Pare che Dalí abbia detto, a proposito dell’amore: ‘Se Gala morisse e diventasse piccola come un’oliva, la mangerei’. Soltanto l’arte che tutto raccorda poteva trovare un nesso tra amore per la moglie e cannibalismo.
Continuo a farmi domande… È l’arte, dunque, quella cosa che riesce a raccordare tutto? Perché Maja vuole che ci sediamo davanti alle opere d’arte? Perché spesso ci sembra di non capirla? Come facciamo a distinguere tra arte e merda?
L’arte, Cos’è?
Che arte intende Portinari quando dice: “L’arte è arte o è merda”?
Dice il critico d’arte e filosofo britannico Herbert Read:
L’arte è in sé un mezzo per spiegare le attitudini emotive, intellettuali o metafisiche.
L’’arte […] comporta sempre un atto unico di creazione-l’invenzione di una realtà oggettiva che prima non esisteva.
Se l’artista ha la libertà di esprimere il suo temperamento nella pittura, allora ci dovrebbero essere tanti tipi di pittura come ci sono tipi di persone, e questo è infatti ciò che accade.
Andando oltre, possiamo dire che è un veicolo di comunicazione tra le essenze di due esseri umani che si trovano in diversi luoghi e momenti. Poco importa che questa essenza sia caratterizzata da una sensibilità estetica, da un’intelligenza analitica, da un’espressività vulcanica, da un rigore purissimo, dall’apprezzamento del brutto, dall’attivismo ribelle, da un subconscio debordante, da una giocosità irriverente… purché queste caratteristiche siano autentiche, siano proprie dell’artista e impregnino la sua opera.
L’artista russo Vassily Kandinsky sembrerebbe d’accordo:
Coscientemente o meno, gli artisti volgono la loro attenzione verso il loro materiale, studiano ed analizzano nella loro bilancia spirituale il valore interno degli elementi con i quali possono creare.
Fintanto che l’artista riversa completamente nella sua opera ciò che per lui è della massima importanza, indipendentemente dal fatto che risuoni con la percezione, i gusti o le aspettative dello spettatore, allora l’opera può essere considerata un’opera d’arte.
Per tutto il resto, c’è il verdetto di Portinari…
Perché Maja vuole che stiamo seduti davanti a una sola opera d’arte?
A nove anni i miei genitori mi portano ad una mostra di Frida Kahlo. Davanti a me l’immagine di una donna con il torace squarciato con al posto delle interiora una colonna jonica; più in là la stessa donna, anzi due, la vena tagliata e sanguinante sul vestito bianco.
Quella notte ho degli incubi. Ogni tanto rivedo quelle opere: all’epoca le detestai e ora non direi che mi piacciono. Ma ci conosciamo; abbiamo iniziato una conversazione. Ogni volta che ci rivediamo, mi dicono qualcosa di nuovo e io rispondo.
L’opera d’arte è come una persona viva. La si può conoscere soltanto piano piano, penetrando i suoi strati, la sua essenza, in una danza lenta e ardita finché non diventa parte di noi. Oggi invece applichiamo la logica del consumo, tanto alle persone come all’arte. Se non mi credete, provate a scambiare la parola “opera d’arte” con un nome di persona. Consumiamo l’opera d’arte. Le diamo un’occhiata e la vediamo “bella”, “allegra”, “forte”, “ridicola”, “cupa”, “sensuale” “triste”, “enigmatica”, “impegnata”, etc. Stiamo attingendo al nostro bagaglio culturale, creando un legame con qualcosa di preesistente dentro di noi, per etichettarla, per catalogarla in uno stereotipo.
Ci vuole un attimo per fare queste associazioni. Così, in un museo passiamo da un’opera a un’altra, passo dopo passo, sala dopo sala. Oppure lanciamo loro veloci occhiate tra un bicchiere e una chiacchierata al vernissage. Le abbiamo viste, queste opere? Abbiamo dato il giusto tempo al dialogo e alla conoscenza?
Scrive Kandinsky:
La gente […] passa da un’opera ad un’altra […]. Dopo se ne va, ugualmente povera o ricca tale quale era entrata, e si lascia assorbire immediatamente dalle proprie preoccupazioni, che non hanno nulla a che vedere con l’arte. Perché sono venuti?
La folla cammina per le sale e trova i dipinti belli o grandiosi. L’uomo che poteva dire qualcosa non ha detto nulla, e colui che poteva ascoltare non ha sentito nulla.
Su questo Read è inclemente. Scrive nel lontano 1955:
L’uomo comune, tale come lo produciamo nella nostra civiltà, è esteticamente un uomo morto. Può darsi che abbia acquisito il chiacchiericcio dell’apprezzamento, l’accento della comprensione. Ma non è toccato: non ama: non è cambiato dall’esperienza.
Pur volendo iniziare una conversazione con l’opera, lo spettatore affamato si allontana dall’arte. Perché?
Ci risponde ancora una volta Kandinsky:
La concorrenza aumenta. La corsa verso il successo conduce verso preoccupazioni sempre più esterne. Ridotti gruppi che casualmente sono emersi da questo caos artistico, si proteggono dietro le loro posizioni. Il pubblico, abbandonato, guarda senza capire, perde l’interesse per questo tipo d’arte e le volta noncurante le spalle.
In altre parole, prende il sopravvento l’aspetto commerciale, il consumismo. La merda. La metaforica puzza ci allontana.
Tuttavia, quando un’opera ci è estranea, può essere invece dovuto a quello che qui descrive Read:
Otteniamo qualcosa di così completamente rivoluzionario che richiede un considerevole riaggiustamento delle nostre facoltà di percezione per accettarlo come arte.
Quante volte davanti alle ultime avanguardie, a un’opera minimalista di arte concettuale, o postmoderna, ci siamo sentiti perplessi? Davanti a noi i loro nuovi linguaggi, nuovi veicoli di espressione, lo spostarsi dei limiti della ricerca artistica ci obbligano ad interpretarli, ad accoglierli e a spostare i nostri limiti. Ci obbligano a seguirli, a camminare con loro verso l’ignoto. A volte ci prendono per mano. Certe volte ci spingono. A volte tocca a noi.
Resta il problema spinoso. Arte o non arte?
Forse è più semplice di quanto crediamo, riconoscere l’arte vera. Siamo degli alieni e siamo sbarcati in un luogo d’arte. Tentiamo un incontro ravvicinato.
Se abbiamo davanti arte, sarà sempre lei ad iniziare: ci proporrà cinque note musicali. Noi, se siamo attenti, risponderemo come meglio possiamo. L’opera reagirà a sua volta (come può non farlo? È un essere vivente, porta dentro l’anima dell’artista) e ci darà nuovamente delle note. Noi rispondiamo, e così via.
È cominciata una conversazione alla pari della colonna sonora di John Williams, solo che le note sono diverse. Meglio fare tutto da seduti come ci prescrive Maja. Una buona alternativa per conoscere una persona è quella di farci una passeggiata, ma non tutte le opere acconsentono a passeggiare. In ogni caso non dobbiamo correre, perché l’arte, come le persone, non si “consuma”. Sarebbe come cannibalizzarla, ma non con il cannibalismo amorevole di Dalì, o quello Dada.
I quadri di Frida mi hanno insegnato che queste conversazioni non finiscono mai, alla pari di quelle che abbiamo con le persone che contano per noi. Il filo si riprende sempre, sono legami perenni. Picabia ha ragione. Mi rendo conto che ho conversazioni aperte con migliaia di opere: persino con la Merda d’artista di Manzoni che, come tutte le opere d’arte, anch’essa mi dice, nota dopo nota, chi è l’artista.
E con queste conversazioni che audacemente intraprendono con noi, gli artisti si assicurano l’immortalità.
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Riferimenti
Vassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte (1910), Herbert Read, The Philosophy of Modern Art (1955), più qualche altra autorevole fonte, una manciata di ricordi e una centrifuga.