Ricordare Zafón
Significa rievocare le atmosfere suggestive, intriganti, oniriche e struggenti di uno straordinario romanzo d’esordio come L’ombra del vento, pubblicato nel 2001 e inserito fra i 100 classici in lingua spagnola degli ultimi 25 anni. Romanzo in cui confluivano gli accenti immaginifici e fiabeschi della narrativa per ragazzi con la quale lo scrittore iniziò: Il principe della nebbia, del 1993, venne conosciuto e ripubblicato solo dopo il clamoroso successo del primo.
Vi confluiva anche l’abilità nel toccare le corde intime dei sentimenti, l’istintiva tendenza ai toni thriller e orrorifici del genere gotico – sempre più marcati e, a volte, eccessivi nella Tetralogia dei libri dimenticati (L’ombra del vento, Il gioco dell’angelo, Il prigioniero del cielo, Il labirinto degli spiriti) – il tutto reso in uno stile coinvolgente, serrato, con intuizioni metanarrative e consumato senso del ritmo.
Mi vorranno scusare i tantissimi, appassionati cultori di Zafón se sottolineo ancora una volta – l’ho fatto spesso – gli inevitabili rischi di un debutto letterario di tale successo da identificarsi immediatamente, nell’immaginario collettivo, con lo scrittore, sino a farne dimenticare lo stesso nome. Un successo tale da dover imporre un confronto ancora più angoscioso con la produzione successiva e divenire un modello ingombrante e difficile da emulare. Un successo tale da prospettare una strada di sequel e letali prequel.
L’ombra del vento
Così stava per accadere al brillante Joël Dicker de La verità sul caso Harry Quebert ma, dopo il passo falso de Il libro dei Baltimore qualcuno deve averlo ben consigliato. Così in parte è accaduto a Zafón, destinato e quasi “costretto” dalla fortuna planetaria de L’Ombra del vento a sviluppare e sviscerarne i molteplici spunti – anche quando, inevitabilmente, si esaurivano, mentre la vena creativa perdeva in freschezza e originalità – piuttosto che esperire nuovi percorsi e suggestioni, magari a costo di non veder crescere Daniel Sempere e “far morire” letterariamente un personaggio indimenticabile come Fermín Romero.
È questo, alla fine, l’omaggio più sincero che si possa rendere al suo assoluto talento: immaginare quello che avrebbe potuto scrivere fuori dalle brume di una Barcellona visionaria e pure reale, per continuare sempre a ricordarci che “c’è un libro sepolto in ciascuno di noi… bisogna solo incontrarlo”. Perché il bildungsroman appassionato di una crescita interiore scandita dall’amore sconfinato per la Letteratura ha indubbiamente segnato una generazione di lettori. E se la “vita felice” non fosse stata così ingiustamente “breve”, per dirla con Hemingway…
Io ho amato “L’ombra del vento” ed anche altri suoi libri. Così, per dire. Non ben ho capito la conclusione di questo articolo ma posso immaginarla. In ogni caso… come si può dire (o augurare) ad un autore di cambiare genere solo perché non piace abbastanza? Non mi sembra un “omaggio”. Non sarebbe più facile, per il lettore, cambiare autore?