L’Islanda è una terra alla fine del mondo con una natura grandiosa e selvaggia, sperduta in mezzo all’oceano. Qui si svolgono le indagini di Erlendur Sveinsson. Il futuro commissario in questo romanzo è ancora un giovane agente addetto agli incidenti notturni di Reykjavík e gira tutta la notte nella città deserta. Durante Le notti di Reykjavík si incontrano solo barboni, ladri, incidenti stradali, qualche rissa e tantissimo alcol. Arnaldur Indriðason ha creato un eroe tormentato e ostinato, lento ma inesorabile e con un grande cuore.
Ormai il lettore italiano è sottoposto a una vera alluvione di gialli nordici, al punto che potrebbe rischiare una crisi di rigetto. Per quale ragione dovrebbe leggere, dunque, un romanzo come Le notti di Reykjavík di Arnaldur Indriðason?
Si tratta di un romanzo uscito nel 2012 ma ambientato intorno ai primi anni ’70 in Islanda. Protagonista è il poliziotto Erlendur Sveinsson, qui alle prime armi, ma che diventerà ben più esperto visto che la serie conta a tutt’oggi 14 titoli.
L’intreccio è incentrato su quello che in gergo si definirebbe un “cold case”, un “caso freddo”. Un vagabondo alcolizzato è morto annegato in uno stagno. Sembrerebbe un incidente e infatti quasi tutti pensano a questa spiegazione. Ma non Erlendur, a cui qualcosa non torna. Conosceva superficialmente l’uomo, conosce superficialmente i testimoni e, mentre da un lato non è convinto delle possibili ragioni del comportamento del primo, da un altro ha buone ragioni per non fidarsi della parola dei secondi.
Questo caso si sovrappone però a un altro, apparentemente del tutto disconnesso, relativo alla scomparsa di una donna, anche questa spiegata da quasi tutti, molto semplicisticamente, con la possibilità che se ne sia andata chissà dove, per allontanarsi da un matrimonio fallito. Erlendur però non è convinto neanche di questo. Visto che la donna è scomparsa più o meno nello stesso periodo in cui il vagabondo è annegato e visto che potrebbe essere scomparsa proprio nella stessa zona in cui si trova lo stagno, per lui i due fatti sono collegati e probabilmente una volta spiegato l’uno, si spiegherà anche l’altro.
“Del resto, i casi di scomparsa erano il suo chiodo fisso. Gli interessava il fenomeno in sé, ma anche il destino di chi non veniva più ritrovato, e quello di chi restava. Sapeva che la sua ossessione dipendeva dal fatto di aver vissuto sulla propria pelle un trauma simile, in mezzo alle montagne dell’Est e di aver letto tutti quei libri sulle avventure di viaggiatori che si erano persi in lande inospitali”.
Solo che si tratta di un lavoraccio perché nessuno vuole collaborare. I suoi stessi colleghi sono scettici, mentre i testimoni sono reticenti, o addirittura ostili. Intanto si trascinano i mesi senza che si veda la soluzione all’orizzonte.
Le notti di Reykjavik è un romanzo che rientra in tutti i crismi del miglior police procedural, inserendosi in una tradizione solida, ma non per questo da ritenersi esaurita nelle sue potenzialità.
L’eredità degli svedesi Per Wahlöö e Maj Sjöwall
Non per diventare noiosi ma, quando un uomo e una donna vengono definiti da Camilleri “il padre e la madre del moderno romanzo poliziesco”, una ragione deve pure esserci. Stiamo parlando degli svedesi Per Wahlöö e Maj Sjöwall, tra l’altro espressamente citati da Indriðason in una scena in cui Erlendur si mette a leggere un loro romanzo tradotto in islandese.
Al di là del fatto che le storie con Erlendur Sveinsson si svolgono pressoché nello stesso periodo in cui Sjöwall e Wahlöö fanno nuovere Martin Beck e i suoi colleghi tra Stoccolma, Malmoe e dovunque ci sia bisogno del loro intervento, la visione della realtà dell’islandese è identica alla loro. Tra l’altro, Camilleri è stato anche sponsor di Indriðason in Italia.
Qui in Italia abbiamo sempre avuto la tendenza a idealizzare i popoli nordici e le loro vite perfette, i loro welfare efficientissimi, il loro senso civico e il loro rispetto per la natura, o la loro predisposizione a leggere tanto e farsi una buona cultura qualsiasi cosa facciano nella vita. Per non parlare dell’abilità nel risolvere problemi tecnici nel modo più semplice, esemplificata dagli arredamenti dell’Ikea. Tutte ottime qualità, questo non si discute. Il fatto però è che si tratta di una sola faccia della medaglia.
Nei loro romanzi Sjöwall e Wahlöö raccontavano una Svezia fatta soprattutto di famiglie sfasciate, violenze domestiche, adolescenti abbandonati a se stessi, droga e prostituzione, anche minorile, pressoché ubiquitarie. Per non parlare dell’alcolismo e dei problemi di integrazione degli stranieri, soprattutto finlandesi: non sappiamo come vadano le cose oggi ma, nella Svezia degli anni ’60 erano considerati come gli albanesi nell’Italia degli anni ’90.
L’Islanda di Indriðason
L’Islanda di quegli anni le assomiglia molto. Ci sono magari meno drogati, ma il numero di alcolizzati è davvero impressionante. La prostituzione è meno spudorata, ma forse solo perché la gente è più povera e ha meno da spendere. Di stranieri se ne vedono pochi e poiché stanno bene economicamente, nessuno si sogna lontanamente di discriminarli: ma le discriminazioni esistono comunque tra gli abitanti delle città e quelli delle campagne.
In mezzo a questa realtà, i poliziotti si muovono senza farsi l’illusione di essere chissà quali strumenti di giustizia, solo per ubbidire a un oscuro senso del dovere verso la divisa che indossano. Sanno che, anche quando avranno risolto i casi, non metteranno a posto le cose: i morti resteranno morti, le vittime di altri reati conserveranno le cicatrici dei traumi, i colpevoli forse si riabiliteranno ma più probabilmente no.
Il fascino di questi romanzi non sta certamente in un esotismo di maniera che ci mostra Paesi dove difficilmente riusciremmo a viaggiare – prima degli Europei del 2016, molti italiani neanche sapevano che esisteva, l’Islanda – ma nel fatto che ci mostrano senza illusioni e senza inutili compiacimenti una realtà che è lo specchio di quella che siamo abituati ad avere intorno a noi. E, come Martin Beck o Erlendur Sveinsson, ci sentiamo perfettamente normali al pensiero di saper trovare ogni volta un modo per affrontarla senza cederle.