Uno dei migliori esempi di solidarietà e slancio della storia d’Italia
Questo Paese ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime
I treni della felicità. Così venivano chiamati i treni che, dal 1946 al 1952, hanno salvato migliaia di bambini dalla fame e dalla miseria conseguenti alla guerra. Questa storia potrebbe tranquillamente iniziare con “C’era una volta”, visto che ha tutte le caratteristiche di una favola, ma per fortuna è accaduta davvero.
La guerra era appena finita e si cercava faticosamente di ripartire, di rimettersi in piedi, di creare un futuro. Tutta l’Italia era a pezzi, in particolare il Centro Sud. Già in difficoltà prima della guerra, era stato devastato dai bombardamenti degli Alleati prima e dalle rappresaglie dei nazisti in fuga dopo.
La situazione era drammatica, la mortalità infantile era a livelli altissimi. La miseria e i pericoli della strada erano temi all’ordine del giorno, i bambini e i ragazzi di tutto il Sud non avevano nessun tipo di infrastruttura che li potesse in qualche modo tutelare.
In altre zone d’Italia si stava leggermente meglio. Vuoi per la vocazione prettamente agricola, vuoi perché non c’erano stati bombardamenti, sta di fatto che alcune regioni, tra cui spiccava l’Emilia Romagna, avevano un tenore di vita più alto. Con ciò si intendeva la possibilità di mangiare tre volte al giorno e di poter avere scarpe ai piedi.
Così l’Unione delle Donne Italiane decise, con pragmatismo femminile, che un gesto di solidarietà avrebbe potuto aiutare quei bambini. E quindi chiesero alle famiglie dell’Emilia Romagna di ospitarli per un periodo.
Parliamo di numeri pazzeschi: 70.000 bambini, di cui 12.000 napoletani, partirono con questi treni della felicità. Napoli, infatti, tra le grandi città era stata quella più devastata dalla guerra e molte famiglie si trovavano in uno stato di indigenza assoluta, tanto che il 19 dicembre 1946 si costituì il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli. La risposta, su base esclusivamente volontaria, fu incredibile. Con l’aiuto del Partito Comunista si radicò questa sorta di affido temporaneo su scala nazionale.
A parte pochissime eccezioni – tra cui un libro divulgativo del 1980 dal titolo Cari bambini, vi aspettiamo con gioia, la cui prefazione fu curata da Giovanni Berlinguer – questa storia è stata nascosta alla memoria collettiva per decenni: non se ne parlava, non si raccontava nelle scuole, non era oggetto di dibattito. Fino a che, come se si fosse essa stessa risvegliata dall’incantesimo che la rendeva dormiente, la storia dei treni della felicità, è arrivata alle orecchie delle persone giuste, persone che l’hanno saputa raccontare.
Prima Giovanni Rinaldi, uno storico che nel 2009, ha pubblicato I treni della felicità, un libro di testimonianze dove questi bambini, ormai almeno settantenni, ricordavano e raccontavano l’esperienza che cambiò la loro vita.
Poi Alessandro Piva, regista, che ha diretto il documentario Pasta nera, presentato al Festival di Venezia nella sezione Controcampo Italiano nel 2011.
Alessandro Piva stava raccogliendo testimonianze per un documentario sullo sciopero di San Severo del 1950, quando uno degli intervistati gli chiese se volesse ascoltare la storia di quando lui prese il treno per la prima volta. Più o meno la stessa modalità con cui lo stesso Rinaldi è partito per scrivere il suo libro.
Al regista si è aperto un mondo: con il supporto di Rinaldi ha recuperato decine di queste persone tra ospitati e ospitanti. Poi c’erano le organizzatrici e tra queste spiccava Miriam Mafai. Ha intervistato chi è partito, chi è tornato, chi è restato, chi ha ospitato.
La commozione è il filo conduttore di tutto il documentario, non solo di chi lo guarda, ma anche di chi lo ha realizzato, come mi ha raccontato l’aiuto regista del documentario, il mio eclettico fratello Renato:
“Non appena ci si avvicinava a questi signori e gli si chiedeva di raccontare, la voce si spezzava e, foto ingiallite alla mano, ti portavano con loro a vivere quell’esperienza unica”.
Bambini che non avevano mai preso il treno, mai visto la neve o il mare, che lasciavano le famiglie e andavano da soli alla scoperta di un posto che, per loro, era talmente esotico e sconosciuto da essere quasi alieno.
Bambini spaventati o perlomeno guardinghi, complici anche i racconti dell’orrore che parlavano di comunisti che mangiavano bambini, di taglio di mani e piedi per fare sapone, o di deportazioni in Russia: malsani tentativi di contrasto al Partito Comunista per supportare la Democrazia Cristiana.
Superata la prima reciproca diffidenza, anche per l’oggettiva difficoltà a comunicare, visto che molti, da entrambe le parti, parlavano solo dialetto, l’incontro tra culture diverse ha creato delle vere e proprie famiglie allargate, rimaste tali anche quando i bambini – curati, nutriti e mandati a scuola – sono poi tornati a casa. Perché, come hanno raccontato tutti, questa esperienza ha arricchito entrambe le parti in causa, inclusa la comunità intorno alle famiglie coinvolte.
“Quando due mondi si incontrano, crescono tutti e due”
Esiste anche una piece teatrale, Criucc – i treni della felicità, di e con Laura Pece e Stefano Greco della compagnia dei Teatri della Viscosa, che speriamo presto di vedere di nuovo in tour.
Ultima in ordine di tempo a raccontare questa storia è stata Viola Ardone, insegnante e scrittrice napoletana che, nel 2019, ha pubblicato Il treno dei bambini. Caso editoriale dell’anno, grande successo internazionale, prende spunto dai lavori precedenti sui treni della felicità per scrivere un romanzo di grande impatto emotivo.
L’io narrante è Amerigo Speranza, un bimbo dei quartieri spagnoli di Napoli, dove vive con la madre, analfabeta e poverissima. I quartieri spagnoli sono uno dei simboli dell’ecletticità e delle contraddizioni napoletane; un tempo zona poverissima, tuttora molto popolare e piuttosto malfamata, si trova proprio a ridosso di piazza Plebiscito e di Chiaia, all’opposto noto per essere il quartiere chic dei benestanti.
Amerigo ci porta nei suoi vicoli dell’immediato dopoguerra, dove passare davanti al carretto che vendeva “pizza fritta” e desiderarne una, portava ad avere un “pacchero” (lo scappellotto) di rimprovero da parte della madre.
Amerigo parla in italiano, ma inserisce qua e là termini napoletani “classici”; non si tratta proprio di dialetto, quanto di modi di dire della città che erano tipici di una generazione che non c’è più. Come dice l’autrice in un’intervista:
“Sono termini che usavano le mie nonne, che abitavano in due quartieri molto differenti”
Amerigo racconta della sua faticosa vita quotidiana, degli sforzi della madre per farlo mangiare, una madre talmente presa dalle incombenze di sopravvivenza da non avere mai tempo neanche per una carezza, o un bacio. Poi ci sono la curiosità e il timore quando sale sul treno, la paura di essere rifiutato quando vede che tutti i bimbi vengono portati via dalle famiglie affidatarie mentre lui resta lì che aspetta, la meraviglia di avere una stanza tutta per sé e tre pasti al giorno, la scoperta che esistono cose che vanno al di là della mera sopravvivenza – come la musica, per cui è particolarmente portato – che possono essere il motivo di riscatto da una vita di stenti.
Mi sono molto emozionata a leggere questo romanzo. La delicatezza e la dolcezza con cui Amerigo ti prende per mano e ti fa vedere con i suoi occhi da bambino la sua esperienza, toccante e lacerante al tempo stesso, valgono davvero la lettura. Anche se la seconda parte del libro, secondo me, perde un po’ di questa emozione e meraviglia.
La ricetta
“Io esco pazzo per la genovese” è la dichiarazione d’amore di Amerigo ne Il treno dei bambini. Un condimento per la pasta, tipicamente napoletano, che la madre prepara con particolare maestria e frequenza.
Devo dire che mi trovo d’accordo con il protagonista: anche io “esco pazza” per la genovese, di cui mio padre è un esperto cuoco. Non ho idea del perché si chiami così, quando ne parlai alla mia amica genovese cadde dalle nuvole, credo esista solo a Napoli. Ve la racconto consigliandovi però di rimandarne la preparazione all’autunno, serve un clima fresco per gustarla al meglio.
Piatto dalla lunga preparazione, non è particolarmente laborioso, ma l’odore di cipolle rischia di restare in casa per qualche giorno. Comunque si surgela che è una meraviglia, quindi nel momento in cui vi cimentate, fatelo in quantità!
La Genovese
1 kg di noce di vitello (quel pezzo di carne con il nervetto in mezzo, necessario per il piatto, comunque un taglio di seconda scelta)
75 gr di burro
1 dl di olio
100 gr di finali tra salame e prosciutto, tipo gambuccio per intenderci
75 gr di lardo
2 carote
1 gambo di sedano
Un mazzetto di prezzemolo
2 kg di cipolle bionde
1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
250 ml di vino bianco secco
Sale e pepe
Tritate finemente i salumi e tutte le verdure. Legate la carne, mettete tutto insieme, con il burro e l’olio, in una capace casseruola. Unite pomodoro, sale, pepe e coprite. Lasciate cuocere a fuoco bassissimo per almeno due ore. Quando vedete che gli ortaggi sono cotti, scoprite e alzate la fiamma per far rosolare carne e verdure. Poi sfumate con il vino, versato a più riprese.
Continuate la cottura, aggiungendo di tanto in tanto dell’acqua, fino a che le cipolle non siano ridotte in crema. La salsa deve essere scura e lucida e serve per condire ziti spezzati o reginelle. La carne si mangia a parte ed è favolosa.