La fragilità dell’uomo di fronte all’avanzata della tecnica è uno dei problemi centrali del nostro tempo. La domanda che Gianna Angelini pone a Francesco Monico in questa intervista è: la tecnologia garantisce un continuo progresso? La risposta è no.
Fragile. Un nuovo immaginario del progresso è l’ultimo libro di Francesco Monico, uscito a giugno di quest’anno, edito da Meltemi.
Il saggio propone una riflessione sul valore che, ormai da molti decenni, diamo al termine “progresso”, e su dove ci abbia portato e ci stia portando l’estrema fiducia che tutti dimostriamo nei confronti di un certo modo di concepire la tecnica e la tecnologia.
Sebbene il libro sia stato pensato ed elaborato in tempi non sospetti, che sia uscito nel pieno di uno sconvolgimento mondiale causato dall’epidemia da Covid-19, sembra quasi profetico. Sì, perché la tesi di fondo espressa dall’autore, semplificando molto, è che il modello della crescita a tutti i costi alla base dell’immaginario del progresso, che sta portando ad una degenerazione del nostro stesso modo di vivere l’ambiente che ci circonda, non solo non sia scontato, ma si possa e debba combattere. Una esigenza, questa, che stiamo sperimentando ogni giorno da mesi. Il terreno di lotta sarebbe rappresentato proprio dall’immaginario e si alimenterebbe proponendo, favorendo ed educando le persone alla costruzione di contro-immaginari.
Se il mito del progresso si è imposto perché è diventato il modulo narrativo imperante, allora la soluzione per combatterlo non dovrebbe essere quella di reimpostare la narrazione a tutti i livelli su presupposti opposti? Magari aiutati e guidati dall’arte contemporanea, che rompe nessi e logiche per definizione?
Al centro di tutto il lavoro di Monico si situa la riflessione sulla costruzione di immaginari collettivi alternativi, dunque un posto centrale nel suo testo è rappresentato dal contributo offerto dalla narrazione intesa in senso ampio. Un aspetto che, da semiologa, ritengo molto interessante e per molti versi condivisibile.
Per entrare meglio nelle logiche e nel metodo del testo, abbiamo parlato direttamente con l’autore. Gli abbiamo sottoposto una serie di dubbi e curiosità.
Ecco l’esito della nostra intervista
Fragile è frutto di una lunga ricerca iniziata più di 5 anni fa. Cosa ti ha spinto ad intraprenderla? Perché hai pensato che un testo che mettesse in discussione la nostra stessa idea di progresso fosse diventato necessario?
Ne ho sentito l’esigenza perché viviamo immersi nella tecnica e nella tecnologia senza avere veramente idea del loro significato e del modo in cui si sono manifestate nel tempo sotto forma di progresso. E poi anche per una ragione storica, perché i movimenti totalitari del XX secolo altro non erano che le prove generali della società tecnologica. E per un’opportunità culturale, perché la filosofia del Novecento si è occupata molto di tecnica. Per tutti questi motivi, circondato da così tanti stimoli, sentivo la necessità di entrare nello specifico delle questioni del rapporto tra uomo e tecnica. Così cinque anni fa iniziai un percorso di archeologia culturale e di genealogia del sapere sul significato della tecnica. E fin da subito il concetto di immaginario moderno è finito al centro della ricerca e, con esso, il progresso.
Proprio perché il fil rouge della tua disquisizione è rappresentato dal concetto di immaginario, un ruolo determinante nel tuo lavoro è rappresentato dalla letteratura. Che rapporto hai con la letteratura e quanto pensi debba pesare nel processo di costruzione di noi stessi?
Il soggetto è prima di tutto un narratore
Il mio libro si basa sulla cosiddetta teoria dell’Homo Fictus, l’uomo finto, fittizio, frutto dell’invenzione narrativa. L’idea è che l’evoluzione abbia contribuito a plasmare le caratteristiche fisiologiche e neurologiche degli esseri umani, così come di tutte le altre specie, mentre il comportamento, il sentimento e il pensiero – sottintendendo con essi, anche i prodotti dell’immaginazione umana, si sono modellati a partire da quelle caratteristiche. Il soggetto è prima di tutto un narratore. Proprio per questo diventa fondamentale essere consapevoli del ruolo che l’immaginario e la letteratura hanno nel fenomeno umano, soprattutto nel XXI secolo, caratterizzato dalle narrazioni digitali omnipervasive, istantanee e multimediali. La letteratura è il depositato narrativo dell’immaginazione. Da ciò deriva che la comprensione dell’umano non può prescindere dalla conoscenza approfondita della letteratura: di quella antica orale e chirografica, quella moderna tipografica e quella contemporanea multimediale e ipertestuale.
Per contrastare il declino inevitabile a cui ci porterà il perseverare nel mito del progresso inteso secondo il senso comune, più volte nel testo citi l’importanza di un cambiamento nel modo di relazionarci con l’ambiente che ci ospita, il nostro Pianeta. Questo comporta delle scelte di vita che hanno a che fare anche con il nostro quotidiano. Tu hai una famiglia e due bambine piccole, come stai contribuendo a questo cambiamento nel tuo piccolo? Come pensi che possano essere sensibilizzati anche i bambini – il nostro futuro – verso questo nuovo e diverso modo di vivere?
Il Progresso è un archetipo della modernità. Ed è un archetipo in senso psicologico, quindi è un simbolo che contribuisce a realizzare il soggetto che crede e si appoggia alle sue narrative. Credendo alla narrazione sul progresso, il soggetto ne è condizionato, consciamente o inconsciamente; ne è influenzato nell’arco della sua esistenza, nella realizzazione dei suoi progetti di vita, nel suo modo di essere o comportarsi. Il cambiamento sta tutto nel consapevolizzare questa dimensione culturale archetipica e attuare una decostruzione attraverso l’attivazione di contro-immaginari che implichino alternative. Seppur detestata e osteggiata dai più, la teoria della decrescita di Serge Latouche, nella completezza delle sue otto erre, costituisce un modello coerente.
Come padre, credo che l’unica possibilità sia quella di rendere le nuove generazioni consapevoli della possibilità di contro-immaginari rispetto al modello standard della crescita-a-tutti-i-costi. Proporre un nuovo modello umanista antispecista che ponga al centro il rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni, innescando così una comprensione ecologica dell’ambiente nella sua totalità.
Gli Amish e il rifiuto selettivo della tecnologia
Una parte del testo che mi ha colpito molto, e come me penso altri lettori, è l’approfondimento che dedichi alla cultura Amish, partendo dal loro rifiuto selettivo nei confronti della tecnologia. Davvero credi che dovremo imparare da loro? Cosa ti affascina del loro modo di affrontare la vita?
Sentivo l’esigenza di un capitolo sperimentale-dimostrativo e così mi sono messo alla ricerca di una cultura antimoderna. Ho escluso i buddisti perché sempre mal recepiti dalle sinistre, quindi ho individuato gli Amish. Loro hanno delle caratteristiche uniche: da un lato sono il gruppo socioculturale più in crescita negli Stati Uniti, dall’altro hanno letteralmente messo a punto la quasi totalità delle proposte alternative moderne al modello della crescita iperindustriale: le small farm, la filiera corta, il car sharing, le grid energetiche, gli small shop e così via. Ho trovato molto interessante la loro storia e identificato una parentela con il pensiero di Jean Jacques Rousseau dal quale abbiamo sempre da imparare. Credo che il messaggio più importante degli Amish sia interrogarsi se una nuova tecnologia sia maggiormente utile alle precedenti, quali implicazioni individuali abbia e quali implicazioni abbia sulla comunità. Di fatto il più profondo insegnamento degli Amish è quello di pensare criticamente e non diventare servi dei meccanismi della tecnica.
La fragilità del sistema umano
Che effetto ti fa vedere il tuo libro pubblicato in un momento storico come questo? Pensi che la pandemia da Covid-19 e le conseguenze che inevitabilmente genererà nel nostro immaginario collettivo metteranno in discussione alcune idee espresse nel tuo libro o le confermeranno?
Oggi, a causa del Coronavirus, da un lato siamo limitati nelle nostre interazioni umane, ma dall’altro abbiamo più tempo per pensare e quindi soppesare le nostre emozioni e i nostri sentimenti. Fragile è pensato come una finzione speculativa. Quando ho iniziato a scriverlo nessuno poteva immaginare una situazione come quella attuale. Ricercando dati, prendevo consapevolezza dello stato del pianeta e non ne parlavo perché mi sembrava di non essere compreso, mi sembrava che questa consapevolezza non fosse condivisa. Poi, una serie di allarmi lanciati dai movimenti di denuncia ecologista, hanno cambiato l’immaginario. Fino al Covid-19 che ha marcato uno spartiacque, rivelando la fragilità del sistema umano. L’aspetto importante è la riconciliazione con la natura dovuta al Coronavirus, la sostenibilità, l’ecologia. Il titolo si è dimostrato valido, è stato pensato ben prima dell’arrivo della pandemia e quindi si è rivelato corretto.
Appiattimento sul criterio dell’efficacia: le immagini
Nel tuo testo sono molti anche i riferimenti cinematografici, alcuni dei quali presenti quasi come premonitori del nostro futuro. L’audiovisivo è un linguaggio che ha un ruolo molto importante anche nella tua carriera professionale, dalla tua esperienza in Rai a quella di Direttore di Media Design in NABA ed ora di direttore di Accademia UNIDEE. Come mai, secondo te, questo modo di espressione non ha mai smesso di essere centrale da quando si è imposto?
Io sostengo che non ci sia differenza tra i diversi testi. Ovvero è testo sia la letteratura che il cinema, che il multimediale. Ho avuto a che fare con l’audiovisivo, ho messo le mani in una grammatica visiva e ho sperimentato concretamente la megamacchina tecnica. Oggi viviamo una cultura visuale compiuta e siamo immersi in un esorbitante sistema comunicativo. Sono convinto che le immagini in movimento non siano percorribili con la razionalità. Al contrario, il sistema di espressione delle immagini non ha mai smesso di essere centrale, perché non richiede alcuna preparazione, né cultura, da parte del fruitore. Questo aspetto è molto importante nel villaggio globale del XXI secolo, caratterizzato sia dalla babele delle lingue, ma anche e soprattutto da un appiattimento sul criterio dell’efficacia. Le immagini non prevedendo alcuna preparazione: sono perfette per la globalizzazione.
Approfondire gli strumenti e i modi per generare consapevolezza
Molti dei nostri lettori sono giovani appassionati di arte, media, letteratura. In questo momento di grande incertezza, cosa ti sentiresti di consigliare loro di approfondire per sperare di ritagliarsi uno spazio in questo settore? Che ruolo devono assegnare alla tecnologia? Come dovrebbero considerarla e, secondo te, su cosa si dovrebbero concentrare?
Direi loro di vedere l’arte come l’evento originario del fenomeno umano, i media come gli apparati tecnologici con cui ri-mediamo le nostre esperienze e che dispongono dei racconti, la letteratura come il dispositivo in cui si realizza l’essere umano. Direi di mettere al centro del loro pensiero l’immaginazione e approfondire gli strumenti e i modi per generare una consapevolezza. Di assegnare alla tecnologia il ruolo di strumento, con la consapevolezza che la tecnica crea l’uomo e lo domina e di seguire questa ‘nuova scienza’ utilizzando alcuni concetti operativi che io elenco nel mio testo.
Una domanda personale: qual è stato, nel tuo passato di giovane ricercatore, il prodotto culturale che ti ha fatto capire che nella vita ti saresti voluto occupare di immaginario? C’è un libro, un film, un componimento musicale che ti hanno colpito a tal punto da condizionare le tue scelte accademiche e professionali?
A Milano ho avuto esperienza della megamacchina tecnica [l’autore si riferisce al suo lavoro come regista e autore per RAI e Mediaset] e ho incontrato l’opera di Marshall McLuhan. Se devo citare un libro direi La legge dei Media di Marshall ed Eric Mcluhan con il suo portato sulla ‘Scienza Nuova’ di Vico. Un film è La Ricotta di Pasolini che fu folgorante per la carica poetica ed ermeneutica verso il binomio progresso e tradizione. Il componimento musicale, anche se banale, è sicuramente il Ring di Richard Wagner, ovvero L’anello del Nibelungo, perché è un’opera filosofica compiuta in senso artistico e favolistico: il suo tema dell’amore come speranza rigeneratrice di un mondo calcolante e speculativo è attualissimo. La centralità dell’immaginario è apparsa nell’attraversamento di varie epoche. Qualcuno ha definito la mia generazione come la ‘cuspide’ tra un mondo a bassa intensità tecnica e un mondo ad intensità tecnica. Quello che ho visto è stato una processione di paradigmi narrativi culturali, anche opposti, che si sono succeduti, invalidandosi a vicenda, pur avendo eguale consistenza epistemica. Questo mi ha fatto capire che la verità è sostanzialmente una questione di potere. E oggi il potere è sostanzialmente tecnico.
A quali progetti stai lavorando in questo momento? Ci puoi anticipare qualcosa?
Come professione, sento molto la responsabilità della direzione dell’Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto. E’ un progetto che, per il portato culturale di un patrimonio nazionale come quello di Michelangelo Pistoletto, può e deve essere molto importante per l’Italia. Come mia ricerca personale c’è il prossimo testo dal titolo Homo Fictus. Se Fragile è la sistematizzazione del mio pensiero, Homo Fictus sarà molto più agile.
Sogno nel cassetto?
Non saprei, posso dire che sono felice con le cose che mi circondano. Il sogno è che il mondo sia un posto migliore per tutti.
GRAZIE!
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Francesco Monico è professore di Archetipi dell’immaginario e di Filosofia della Tecnica in differenti Atenei e Accademie italiane. E’ stato direttore fondatore della Scuola di Media Design e Arti multimediali della Naba di Milano. Ha diretto il PhD in Art&Media della Plymouth University/Planetary Collegium (UK). E’ attualmente direttore dell’Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto di Biella.