Dopo il colto, perspicace, ironico feto di Nel guscio e il dolente, umanissimo androide di Macchine come me, c’è ancora una voce narrante anomala e spiazzante nell’opera di Ian McEwan, quella dal retroterra più blasonato: Lo scarafaggio.
Scarafaggio che condivide con il protagonista de La metamorfosi, il nome tronco (Jim/Gregor) e un cognome graficamente identico eccettuata la “a” finale (Sams/Samsa).
Inoltre l’incipit del libro, sino a pagina 18, è una ripresa fedele del racconto kafkiano che non trova però un coerente sviluppo quando l’artropode acquisirà – pur nel contesto surreale del plot – fattezze e atteggiamenti del Primo Ministro inglese Boris Johnson.
Sams/Samsa
Entrambi Sams e Samsa si svegliano da “sogni inquieti”. In McEwan compare paradossalmente la connotazione psicologica “tipo perspicace, ma niente affatto profondo”, attribuibile comunque anche a Gregor Samsa che tale appare quantomeno sul lavoro. Entrambi verificano la spropositata grandezza del proprio nuovo corpo e osservano costernati e distesi sul dorso rispettivamente “le numerose zampe miserevolmente sottili” e “appena quattro arti pressoché inamovibili”.
In due stanze egualmente piccole, mentre Samsa inizia tragicamente presto la riflessione sul suo gravoso impiego di commesso viaggiatore culminante nel “farò tardi”, omettendo così di fatto quella assai più logica sulla sua metamorfosi assurdamente accettata, Sams continua il meticoloso scandaglio del proprio involucro: “lingua ripugnante, denti infiniti, colorito azzurrino/smorto della pelle, ridotto campo visivo”.
E questo prima di giungere, con puntuale parallelismo, anche lui al “farò tardi”, ovviamente ad una ben più gratificante riunione del Parlamento di Sua Maestà. Con la verifica di ambedue circa la difficoltà nel movimento e l’impossibilità di fidarsi della propria voce – nel rispondere l’uno alla madre e al procuratore, l’altro alla premurosa assistente con un identico “pigolio”, si conclude la quasi testuale, intrigante parafrasi della prima parte de La metamorfosi.
Il modello de Lo scarfaggio diviene quello della letteratura distopica e della satira politica di Jonathan Swift.
Un velenoso pamphlet anti-Brexit
La blatta si ritrova nelle vesti dell’affabile, bipartisan, primo uomo della scena politica britannica, “in piedi ad un’altezza vertiginosa” e messa di buon umore dalla toilette mattutina. In questo velenoso, schieratissimo pamphlet anti-Brexit, alla fine non era forse nemmeno necessario scomodare l’autore del Processo, visto che i due piani si saldano a fatica, se si eccettua la scelta del ripugnante animale come esemplificazione simbolica del disgusto dello scrittore per la linea politica di Boris Johnson.
L’attrazione per il caffè (meglio i fondi), per lo zucchero, per i mosconi appena morti lo caratterizzano, insieme all’immediata destrezza con cui l’ex-parassita riesce ad adattarsi alla visione “multicolore, binoculare, non composita” di una vita pubblica deformata e avvelenata da liberatorie menzogne, intrighi, bassezze che trasformano il conciliante inquilino di 10 Downing Street nello spietato leader degli Inversionisti.
Questi sono contrapposti ai Cronologisti filoeuropeisti e cavalcano la stanchezza diffusa e la strisciante paura dell’ignoto di chi ha affidato loro il proprio voto. Sono epigoni dell’idea “semplice, bella” e patriottica che orientare il flusso monetario non in direzione dell’accumulo ma di un reimpiego frenetico dei capitali affranchi il popolo inglese da una detestabile schiavitù, lo corrobori con “il dono sacro di una esaltante autostima”, elimini le disuguaglianze, il divario Nord/Sud, la stagnazione dei salari.
I backbenchers, promotori dell’Inversionismo estremo, si troveranno, alla fine, d’accordo con frange significative della “vecchia” Sinistra e questo costituisce l’ultimo, peggiore tranello. La mistificazione che la vittoria autarchica risponda al grido collettivo forte e sincero di emancipazione culturale prima che economica, è la “polvere magica” del populismo, temibile composto di irrazionalità, xenofobia, cinismo mascherato da nostalgia per certe forme di purezza nazionale che il protagonista, a capo di un Gabinetto improvvisamente decisionista, sparge a piene mani.
Trupper/Trump
E intanto vengono messi in riga gli (ex)alleati francesi e tedeschi, con l’eccezione del Presidente americano perché “uomo tutto d’un pezzo e di solide certezze morali” che ricorre spesso a Twitter, una “versione primitiva dell’inconscio feromonale”. Strepitoso è il ritratto-macchietta di Tupper/Trump.
Viene scelto anche l’inno – Walking back to happiness di Helen Shapiro – per una scommessa che, entro il 2050, garantirà all’Inghilterra tutta un futuro pulito, verde, fiorente, libero dagli asfissianti cavilli anti-impresa del moloch statale e transnazionale.
Scritto in punta di penna e con “tanta rabbia”, per ammissione dello stesso McEwan (leggi anche qui), durante le presentazioni di Macchine come me, Lo scarafaggio è un divertissement in bilico tra fantapolitica e caustica, a tratti godibile, disamina di un presente politicamente inaccettabile. L’autore è un convinto progressista di rango che, fra le brillanti, riconosciute qualità narrative, conferma la sua non comune abilità nella costruzione dei finali: svanito rapidamente, l’ingombrante riferimento alla Metamorfosi ritorna in un epilogo prevedibile ma spettacolare, sul quale non anticipiamo veramente nulla.