Sulle tracce del crimine – Viaggio nel giallo e nero Rai è una bella mostra, godibile e intelligentemente semplice, dove non si riesce proprio a stare in silenzio: davanti alle immagini delle serie TV della propria giovinezza è tutto un susseguirsi di “mi ricordo”, “lo vedevo con i miei”, “che paura che mi faceva”… ed è una festa per tutte le età, visto che abbraccia 66 anni di storia della televisione italiana. I temi della mostra sono molti, ma qui vogliamo affrontarne uno in particolare: l’Italianità della fiction gialla della televisione italiana.
La prima cosa che colpisce è che le origini del giallo italiano sono in realtà tutte d’importazione. Il tenente Sheridan, ovvero il primo poliziotto famoso dell’immaginario televisivo italiano, è in realtà il capo della sezione omicidi della polizia di San Francisco. Il personaggio è stato inventato da sceneggiatori italiani (Casacci-Ciambricco-Rossi), interpretato da Ubaldo Lay nel suo inseparabile impermeabile bianco. Ma sulla sua scrivania c’è scritto “lieutenant Sheridan” e non “tenente”, mentre alle pareti sono appesi improbabili manifesti “americani” e sulla portiera della sua macchina c’è scritto “California State Police”.
La sigla di Nero Wolfe ci mostra le strade di New York, poi si entra nell’italianissimo teatro di posa della Rai e non se ne esce quasi più. I personaggi su cui indaga il titanico Tino Buazzelli hanno nomi come Helen Frost (Carla Gravina), Boyden Mac Nair (Aroldo Tieri), o signora Bruner (Paola Borboni).
Gino Cervi, naturalmente nelle vesti di Maigret, scova i colpevoli tra i quartieri di Parigi.
Le origini del giallo italiano sono totalmente straniere
I motivi di questa esterofilia sono diversi. Il principale trova probabilmente le sue origini nella spinta pedagogica della Rai dell’epoca, che aveva bisogno di un romanzo di base, possibilmente ritenuto un capolavoro, per “giustificare” la produzione di una serie televisiva. E libri gialli d’autore italiano all’epoca semplicemente non c’erano: i pochissimi titoli si contavano sulla punta delle dita ed erano ritenuti di qualità infima. Guardando le vetrine delle librerie, o le classifiche di vendita dei libri di oggi sembra impossibile, ma fino a qualche decennio fa gli autori italiani non scrivevano gialli. Mentre attualmente si ha l’impressione che non scrivano quasi nient’altro.
Un’eccezione a questa regola della necessità di una fonte letteraria, ma non a quella dell’ambientazione estera, è il tenente Sheridan. Ma è appunto l’eccezione che conferma la regola, perché questa serie non è nata come fiction a sé stante, ma come la sezione di un originale “gioco a quiz” in cui tre concorrenti dovevano indovinare il finale del giallo, discutendo in studio le varie ipotesi. Il conduttore era Paolo Ferrari, che qualche anno dopo diventerà l’assistente di Nero Wolfe, Archie Goodwin. Solo dopo che gli ospiti dichiaravano chi era secondo loro l’assassino, veniva svelata la parte finale della storia. Giallo club invito-al poliziesco fu trasmesso tra il 1959 e il 1961, mentre la serie televisiva vera e propria è della metà degli anni Sessanta.
Nei primi seicento (600!) numeri del giallo Mondadori c’erano solo 3 italiani
Un altro motivo di esterofilia lo troviamo sul versante del consumo, non della produzione. L’immaginario che gli spettatori e i lettori italiani pretendevano dalle storie gialle era assolutamente estero. Nei primi seicento (600!) numeri del giallo Mondadori c’erano solo tre autori italiani, e le loro vendite erano talmente basse che hanno presto rinunciato ad ambientare le loro storie in Italia e perfino a firmare con il loro nome, assumendo pseudonimi anglosassoni.
La regola valeva anche per il fumetto: Diabolik, il fumetto italiano giallo per eccellenza, creato dalle sorelle Giussani a Milano, era ambientato nel sud della Francia.
A dire il vero una serie gialla italiana ambientata in Italia c’è stata: Aprite: polizia, addirittura del 1958, ma si è rivelata, guarda caso, un totale fallimento e non ha praticamente lasciato traccia. Nella mostra il titolo è nominato ma non se ne vede nemmeno un fotogramma e anche in internet non siamo riusciti a trovarne una sola immagine. Giusto qualche giudizio, il più tenero dei quali è “serie modesta”.
Questa estraneità del male ben si sposava con la cultura democristiana dei dirigenti della prima Rai: “il male è fuori di noi”, sembra dire la fiction gialla dei primi decenni.
Una didascalia di uno dei curatori della mostra, Peppino Ortoleva, dice:
“Leggendo un libro giallo, noi stiamo dalla parte dell’ordine, stiamo dalla parte di chi persegue e perseguita l’assassino. Ma al tempo stesso, ricostruiamo le tappe del suo atto, del suo delitto o dei suoi delitti e anche della sua mente, e ci mettiamo dal suo punto di vista. In qualche modo, siamo “dentro” la mente del criminale.”
Ed è molto meglio se la mente del criminale dentro cui entriamo non ha il passaporto italiano.
Finalmente italiani: Laura Storm (ma con titolo “inglese”!)
La prima serie gialla che ha il protagonista italiano che agisce in Italia, è anche la prima a protagonismo femminile. Laura Storm, interpretata da Lauretta Masiero. Rimane comunque nel titolo un richiamo anglosassone: Storm, ovvero tempesta in Inglese, vedi mai che il pubblico possa pensare sia una fiction completamente italiana! Avere il nome italiano e il cognome straniero è anche una delle caratteristiche dei personaggi di Diabolik, che negli stessi anni stava vivendo un successo incredibile. Possiamo considerare questa scelta un “passaggio graduale” verso una completa italianità.
L’Italianità è ribadita in modo ironico fin dalla prima puntata della serie. Quando Aldo Giuffrè, che interpreta il caporedattore eterno promesso sposo della protagonista, dice ironicamente a Laura Storm: “Questa non è l’America dei libri gialli…” e le ricorda che nella vita vera non si chiama Storm, ma Parrucchetti.
Come si legge nella didascalia della mostra, Le avventure di Laura Storm è “Il primo poliziesco Rai a protagonista femminile (1965-66) e aveva i toni di quello che all’epoca era chiamato giallo rosa: storie di delitti certo, ma abbastanza lievi da non prendersi troppo sul serio.”
Abbastanza lievi, potremmo dire, da poter essere tranquillamente ambientati in Italia.
La fiction gialla italiana: dall’importazione all’esportazione
È nella sezione della mostra intitolata “I mali d’Italia” che troviamo finalmente, ma siamo già alla metà degli Ottanta, il primo fenomeno totalmente italiano che riesce ad imporsi all’estero. La piovra viene infatti venduta in un’ottantina di paesi diversi. Nella lotta alla mafia la fiction trova un tema identitario totalmente italiano.
L’italianità della fiction televisiva italiana completa il suo ciclo e smette di essere un tema.
Nell’ultima sezione, intitolata “I giorni nostri”, risulta anzi evidente come la fiction gialla italiana diventi il genere assolutamente dominante e l’italianità stessa un valore importantissimo per il pubblico. Da decenni, nei palinsesti italiani non c’è nessuna serie gialla straniera che raccolga un numero di spettatori comparabile a quello delle serie nostrane.
In quest’ultima sezione ci si rende conto che moltissimi titoli contemporanei appartengono a due grossi filoni che possiamo far discendere, forse non a caso, proprio da Laura Storm e da La piovra.
I due filoni delle fiction
Il primo filone è quello delle fiction fortemente basato su un personaggio centrale, il cui nome diventa spesso il titolo della serie, a significare l’identità del protagonista con la storia e la cui vita personale si intreccia con i casi gialli. Vi sono presenti forti elementi di commedia e una linea sentimentale più o meno marcata.
Il secondo filone, quello figlio de La piovra, è rappresentato dalle serie poliziesche basate su un impegno civile (leggi anche qui). Questo si configura soprattutto come lotta alla criminalità organizzata, o come racconto della criminalità stessa vista dal di dentro.
Questi due filoni appaiono ormai iper sfruttati, non solo dalla Rai ma anche dai gruppi privati che producono fiction in Italia (ndr: l’autore di questo articolo lavora per la fiction Mediaset). Stiamo vivendo a livello globale un’età d’oro per serie televisive e ormai dovrebbero affacciarsi sul mercato professionale i primi rappresentanti di una generazione cresciuta, non con il mito del grande cinema, ma direttamente con il linguaggio della serialità. Ci aspettiamo e ci auguriamo un grande salto di creatività.
Fino al 6 gennaio 2021 al Museo di Roma in Trastevere
GRANDE ALFONSO,
una bellissima panoramica nel mondo del giallo della Rai negli anni d’oro!! Si ci auguriamo tutti un futuro pieno d’inventiva
e di fantasia. Bellissimo self portrait