A volte scrivere la recensione di un libro può essere riduttivo, se non noioso. Allora ho pensato che, per una volta, sarebbe più stimolante condividere le esperienze di lettura in corso. Le mie letture seguono un po’ lo stile a costellazione di Olga Tokarczuk, la scrittrice polacca Nobel 2018. Quindi la mia lettura nomade s’articola in diversi libri: un romanzo, più libri di poesia e saggi. In questo modo, inconsapevolmente, si crea una mappa calviniana con diversi percorsi di conoscenza. E intanto sulla scrivania rispuntano le pile di libri…
Il libro è l’opportunità di un incontro e di un dialogo. E questo per me non è mai stato più vero che dopo aver incontrato un’autrice come Maria Zambrano. La filosofa spagnola mi ha stregato. Del resto, come si fa a non innamorarsi di una che scrive simili parole?
Man mano che l’uomo ha creduto che il suo essere consistesse in null’altro che nella coscienza, l’amore si è andato trovando senza spazio vitale, come un uccello soffocato nel vuoto di una libertà negativa.
La citazione si trova nell’incipit di un libro edito da Mimesis che raccoglie due scritti sull’amore della Zambrano: Frammenti sull’amore, appunto.
Credere che l’uomo si esaurisca in null’altro che nella coscienza apre la strada all’antropocentrismo: l’uomo al centro del mondo in nome di una presunta superiorità rispetto agli altri esseri. In questo modo l’uomo perde il suo slancio interiore, la spiritualità e la passione. E non riconosce più né il divino, né il sacro, di cui pure è impastato.
Assorbire totalmente il divino è una forma del volersene liberare.
Indica la Zambrano. L’uomo ha allontanato la sofferenza e la passione che l’esperienza del divino comporta. Ha finito per vedersi solo come nuda vita, per dirla con Giorgio Agamben, ridotto a mera realtà psico-biologica, a cosa che ha i suoi bisogni materiali, misurabili, giustificabili. E per difendere questa nuda vita è disposto a tutto: anche a rinunciare alla libertà. Ecco perché l’uomo di oggi vive un amore svuotato, privato delle energie e dello slancio vitale che nascono dalla passione e dal mistero.
Privato di ciò che può rendere la vita un’esperienza divina, appunto, sublime: un incontro che apre ai segreti dell’altro, spinge il cuore oltre il confine della vita. Oltre la morte. Mentre così non rimane che la paura di soffrire e morire.
Maria Zambrano ci ricorda che sono rimasti solo i poeti a celebrare il sublime dell’amore. A cantare corpo e misteri di questo sentire e agire amorevole senza il quale nulla è. Perché l’uomo che non trascende, che non va oltre se stesso, non comprende più il mistero dell’amore. Non vede più la bellezza del mondo. Così alle sue orecchie la voce dei poeti suona come un delirio, un inutile, incomprensibile canto. Al punto che quella voce la si lascia, sì, libera di esprimersi, ma la si fa cadere nel vuoto:
“Ai loro deliri non s’oppone nessuna resistenza, ed è proprio questa la forma più chiara della pseudo libertà di cui godiamo”, scrive la Zambrano.
Benché scritta nel 1982, ovvero negli ultimi anni della sua vita, la riflessione di Maria Zambrano anticipa chiaramente ciò che vediamo accadere oggi sotto i nostri occhi.
La parola necessaria
Il frammento sull’amore della Zambrano non poteva non suscitarmi una rinnovata riflessione sulla poesia e sulla disobbedienza dei poeti. In continuità con quanto già scrissi su Cronache Letterarie a commento del libro di Ben Lerner Odiare la poesia, periodicamente mi si ripropone la domanda che pose e continua a porci Friedrich Hölderlin: perché i poeti nel tempo della povertà?
A quale povertà si riferisce Hölderlin il “poeta del poeta” come lo ha definito Heidegger in uno dei saggi del suo Sentieri interrotti (un testo purtroppo ormai fuori catalogo e introvabile)?
Hölderlin vedeva già, ancora prima di Nietzsche, la povertà dei tempi presenti e futuri: gli dei greci e tedeschi sono fuggiti via dal momento che l’uomo, ponendosi al centro del mondo, non vive in armonia con la natura e gli altri esseri. Non vede la sacralità dell’una e degli altri, nemmeno di se stesso. Non riconosce più armonia e bellezza.
Eugenio Mazzarella nel suo Perché i poeti. La parola necessaria, edito nella Piccola biblioteca di Neri Pozza, prende spunto proprio dall’interrogativo romantico di Hölderlin.
Se Heidegger definisce Hölderlin “il poeta dei poeti” è perché al centro della sua opera c’è l’essenza linguistica della poesia: quel farsi del mondo nella e con la parola che fa della poesia il rinnovare la creazione. Per cui Hölderlin può nominare gli dei, cioè il Sacro del Mondo. La poesia è istituzione in parola dell’essere. Il poeta è custode di quest’essenza.
Eugenio Mazzarella indica in Leopardi la coscienza della poesia. In “equilibrio tra apollineo e dionisiaco, tra ferma forma e animo mosso, intuizione contemplativa e sentimento, il poeta assiste come la prima volta all’incarnarsi delle cose, ascolta il silenzio e gli dà voce: alla presenza dà forma”.
La poesia è esperienza non conoscenza. Meglio, è conoscenza nell’esperienza. È l’io che nutre di stupore e meraviglia lo stare nel mondo. E stare al mondo è avere parola. Dire questo “stare” è ciò che fanno i poeti, chiude Mazzarella. Perciò la loro è una parola necessaria.
Hölderlin dimentica che se dio è morto muore anche l’uomo. L’uomo non può sopportare la mancanza degli dei perché, anche se lo ignora, il mistero è presente. Sopravvive nell’illusoria libertà dell’uomo contemporaneo che Maria Zambrano riporterà al centro del suo pensiero.
Poetici primati
La riflessione sulla necessità della parola s’estende a macchia d’olio alla scrittura in generale e, come in una sorta di labirinto a spirale, diventa iniziatico ritorno tra le braccia di Maria Zambrano. Al suo affascinante, incessante interrogarsi: Perché si scrive.
Raccolto nel volume Per abitare l’esilio, edito da Le Lettere, Perché si scrive è uno dei principali saggi scritti dalla Zambrano durante il suo esilio romano (1953-1964).
“Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova”, enuncia la Zambrano.
Per Maria Zanbrano però sia la solitudine che il difendersi appartengono a una dimensione interiore ben diversa da quella che è nell’immaginario collettivo. È una solitudine comunicabile in cui lo scrittore riesce a cogliere i legami tra le cose del mondo e li rivela. E’ il vicinissimo del sentimento nel lontanissimo della contemplazione dello stare nel mondo, per riprendere Leopardi. Così la scrittura, a differenza del parlare, rivela ciò che non è dicibile oralmente. Nel rivelare è la difesa, la salvezza dello scrittore.
Ma cosa vogliono dire lo scrittore e il poeta? E perché vogliono dirlo?
Ancora questo incessante interrogarsi socratico della Zambrano apre orizzonti inediti. È vero che lo scrittore e il poeta vogliono esprimere il segreto, ciò che a voce non si può dire perché troppo vero.
“Le grandi verità non le si suole dire parlando”.
Allo scrittore il segreto si rivela mentre lo scrive. “Al poeta la parola rivela segreti soltanto nell’estasi, fuori dal tempo”. Lo scrittore incide le parole, le fissa sulla carta immediatamente, senza voce. Il poeta prima ancora di scrivere parole, canta o piange, dà voce lirica al suo segreto. Il poeta ha sempre voce. Puro misticismo. Non a caso nella raccolta degli scritti di Maria Zambrano ritroviamo una riflessione dedicata a San Giovanni della Croce, il mistico poeta la cui presenza trapunta le opere della filosofa spagnola.
Ormai credo che oggi i mistici – spesso i poeti e qualche filosofo – siano i soli rimasti a custodire l’amore e il mistero. E a esserne custoditi a loro volta. Per questo la loro presenza è ancor più necessaria.
Lo scrivere richiede la fedeltà prima di ogni altra cosa.
Dopo aver letto questa frase ho chiuso Per abitare l’esilio, e anche gli occhi. Sono rimasto in silenzio…
Che bellezza! E che meraviglia scoprire che, pur percorrendo strade diverse, si possa arrivare a condividere una stessa visione, una stessa parola: fedeltà. Strano, da un po’ di tempo questa parola è costantemente presente nella mia esperienza. Il maggio scorso ho pubblicato una raccolta di poesie dal titolo Fedeltà del gelso. Ancora non conoscevo la Zambrano. Potete immaginare la mia emozione nel leggere le sue parole. La mia raccolta è scaturita dall’osservazione, dapprima casuale poi sempre più consapevole, di un grande gelso dalle more nere. L’albero si trova nel giardino di fronte a casa, e posso osservarlo dalla veranda della cucina.
Giorno dopo giorno mi rendevo conto di come il gelso rimanesse fedele alla sua natura: spogliandosi completamente in inverno, rivestendosi di nuove foglie in primavera, accogliendo orde di merli a maggio, al comparire delle prime more… Questa naturale fedeltà è diventata via via lo specchio dei miei giorni. Per essere fedele nello scrivere poesia (e non solo) prima di tutto occorre spogliarsi del proprio io, come riconosce la Zambrano. Solo così è possibile rinascere e accogliere. Cantare insieme ai merli avidi di more e litigiosi. Realizzare che la natura essenziale di ogni essere è la medesima. In fondo, non siamo che dei Poetici primati secondo il prof. Mario Barenghi!
Mi riprometto di dedicare a questo bel saggio un prossimo articolo. Per il momento aggiungo solo che ci sono autori che cercano di dar un senso alla realtà ribellandosi alla condizione umana data, e che non intendono scendere a patti con la vita. Alcuni sono nomi noti: Kafka, Camus, Philip Dick. Ma il nome Stig Dagerman vi dice qualcosa?
Uno scrittore anarchico che non volle diventare adulto
Anarchico viscerale incapace di accontentarsi di verità ricevute, vulnerabile e malato di “simpatia”.
Questo il ritratto di Stig Dagerman riportato sul retro della copertina della sua raccolta di racconti Il viaggiatore, edito da Iperborea.
Sebbene sia poco conosciuto, lo scrittore svedese appartiene alla famiglia dei Kafka, dei Camus, dei ribelli alla condizione umana. In realtà è più vicino a Kafka che a Camus. Nato nel 1923 Stig Dagerman è morto suicida nel 1954 a soli trentun anni, al culmine della fama e del successo nonostante la giovane età.
La vita di Stig Dagerman è profondamente segnata dall’abbandono materno pochi mesi dopo la nascita. Lo vivrà sempre come lo stigma dell’ingiustizia e continuerà a chiedersi perché. Viste le difficoltà economiche del padre, minatore nei pressi di Stoccolma, Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Furono questi i suoi anni più felici grazie ai nonni, persone vivaci, rassicuranti e intellettualmente stimolanti. Saranno loro a dargli l’imprinting intellettuale.
Stig non dimentica né l’abbandono materno, né la dimensione proletaria in cui è nato e appena adolescente s’avvicina agli ambienti anarchici di Stoccolma. Proprio per il trauma dell’abbandono, i personaggi dei racconti di Stig Dagerman sono bambini, adolescenti e giovanissimi. In realtà, proietta se stesso, le sue paure, la sua rabbia, il suo dolore. I suoi libri parlano di lui, della sua esperienza. Nel racconto Uccidere un bambino, il più bello e famoso di questa raccolta, la narrazione è impersonale e vibra di quella che potrebbe essere la voce di un Dio che, dall’alto, osserva e declina il consumarsi di un’inevitabile tragedia che diventa così il paradigma di un’ingiustizia universale.
“[…] Una minuscola e insignificante tragedia che in quattro cartelle dice quanto e forse più non abbia detto Camus nell’intera Peste” scrive Goffredo Fofi nell’illuminante postfazione.
La raccolta si chiude con un inedito che dà il titolo al libro: Il viaggiatore. Più che un racconto è un epitaffio, sintesi della sua visione:
Qui riposa
uno scrittore svedese
sua colpa fu l’innocenza
dimenticatelo spesso.
Bere il tè coi morti al Caffè della gioventù perduta
L’esperienza quotidiana di lettore è un percorso che procede per associazioni non sempre logiche e lineari. Sospinti dallo slancio quasi infantile che dà leggere libri come quelli di Maria Zambrano può portare a condividere un tè coi morti come fa Chandra Livia Candiani – esempio del delirio poetico di cui parlavo – magari seduto Nel caffè della gioventù perduta di Patrick Modiano, in una Parigi rarefatta e borghese. Un po’ troppo per i miei gusti.