In una tensione originalissima fra Barthes e i nuovi media, il libretto agile e folgorante di Nicole Müller, fatto di frammenti sull’onda dei ricordi.
Sulla scorta di una poetica che fa del frammento una forma narrativa eloquente, Nicole Müller racconta in Perché questo è il brutto dell’amore, la “banalità” della passione, il comune – terribile – senso di abbandono, l’urgenza di ricomporre una frattura insanabile. Il titolo è programmatico, ed esplicita una condizione finemente scandagliata.
Perché questo è il brutto dell’amore (edizioni e/o, 1993) si presta infatti a una duplice interpretazione, riassumendo ora il dramma della fine ora il doloroso, posteriore, recupero della memoria. La storia di N. e V. è tutta giocata, non a caso, sull’evanescenza del flashback. Non c’è un filo logico, il ricordo procede da sé, la vita – anche nel post-trauma – è improntata a una casualità programmatica, a quella «simultaneità dei sogni» che alimenta i ricordi. L’autrice e io narrante, compenetrata – per sua stessa ammissione – nel ruolo di amante tout court, presenta la vicenda come uno sbocco dell’anima: «La storia è vera per quanto può essere vera una storia raccontata da una persona sola», dunque il groviglio di dati e fatti è costantemente sottoposto al filtro dell’anamnesi, a una voce interiore che tesse i fili dell’emozione.
V. e N. si sono amate, hanno mischiato pensieri e corpi.
V. e N. si sono amate, hanno mischiato pensieri e corpi nell’arco di quattro anni. È questo intervallo il nerbo della loro esistenza, un deragliamento finalizzato alla scoperta dell’altro. Müller lo ripercorre in capitoletti, 498 passi sovente desunti dalla corrispondenza reale, quasi a creare un collage di sentimenti a senso unico.
Nella parola – nell’atto pratico di “fissarla” – si compie un percorso di comprensione e compensazione: «Scrivo per non morire, che questo sia chiaro a tutti», tanto più che V. non sa parlare, è già legata a un silenzio destinato a esplodere, laddove N. chiede certezze e lei, di contro, offre solo «pazienza». L’operazione di Müller ha un intento catartico eppure, al contempo, restituisce un’ansia di soffocamento, incrinata soltanto da brevi scarichi di coscienza. È il tentativo di raccontare l’eutanasia di un amore, di consegnare al “diario” la sovrapproduzione di gesti, parole, sguardi.
Risiede qui, più che nel solo impianto, quella tensione originalissima fra Barthes e i nuovi media. Figlia di una generazione influenzata dal cinema, stretta – per abitudine e attrazione – tra i linguaggi della televisione, Müller concepisce l’opera come un mosaico di immagini, diffrangendo la forma romanzo mediante un procedimento di auto-sabotaggio, consistente in ripensamenti e omissioni, negazioni di senso e smentita di sé. Ogni frammento, numerato progressivamente, è un viaggio al termine della separazione, approcciata con sguardo volto – ora sì – alla codificazione più classica, secondo la quale ogni amore è passione, dolore, un’abrasione quasi fisica.
Nicole, nel testo, si nomina di rado, il rapporto con Veronique è piuttosto una storia di pronomi: “lei”, “io”, a volte “noi”, spesso – soprattutto – “lui”. René, «suo marito. Un essere alquanto indecifrabile», è la linea di demarcazione fra l’eccezione e la norma, il punto entro cui convogliare ogni sorta di esitazione. Debole, remissivo, eternamente sottotono, ottiene la sua “vittoria” grazie al ruolo sociale: è marito, padre, un amore come si deve. V. lo ri-accoglie – lo cerca – dieci giorni prima della sentenza di divorzio, quando per N. comincia il calvario, l’impossibilità di vivere senza e, al contempo, vivere con.
“Ciò che ci viene rubato quando veniamo lasciati,
è sempre il futuro”.
Non è un caso che quest’amore bruci i limiti della misura, nel rapporto donna-donna Müller individua l’assoluto, il compimento di un percorso in cui il “per sempre” è l’unica meta, dove nel corpo – in quel corpo – nasce l’urgenza di un sentimento comune. «Questa è la donna con cui passerò la mia vita», e il concetto ritorna, si amplia, fa incancrenire la piaga. A una passione siffatta non può che seguire un vuoto totale («ciò che ci viene rubato quando veniamo lasciati, è sempre il futuro»), il tentativo – per quanto arduo – di mettere assieme i pezzi.
È la memoria, in questo senso, il veicolo di riappropriazione. Il filo che salda insieme i ricordi – sollecitati, sovente, dalla vista e l’udito – corrisponde al tentativo di comprendere la realtà, di afferrare, con sguardo sbieco, le trasformazioni dell’io. Solo così può cogliersi il senso di quell’amore incondizionato, di un destino ordinario eppure eccezionale: «Questo è il documento di un fallimento. Solo che non me ne rammarico. Perché nel fallimento risiede anche una buona dose di successo. […] ‘Tout est à venir’. Ora sto meglio. Molte grazie».
Perché questo è il brutto dell’amore
Purtroppo il testo è ormai fuori commercio. È difficile trovarlo, tuttavia resta indimenticabile.
Penso sia un peccato che l’editore e/o non abbia ancora pensato a una ristampa, ma parlarne può invogliare il lettore a saperne di più. È vero, con le biblioteche chiuse è mancato un presidio fondamentale, però il nuovo Dpcm ne ha disposto la riapertura per il prestito e la consegna! E ingegnandosi un po’ è anche possibile acquistare il libro su Ebay, Maremagnum, Amazon e altre piattaforme.