Immaginate un’affascinante cittadina cinta da mura che si affaccia su una baia tra le più belle al mondo. Una città ricca di storia, di passato e di mistero, La Valletta, sull’isola di Malta.
Immaginate che, dopo essere salpata dal porto della suddetta città nell’anno 1919, una nave su cui viaggiava una spia inglese, Sydney Stencil, protagonista di molti complotti orditi a livello internazionale, sia improvvisamente affondata a causa di una tempesta anomala, e che il naufragio abbia reso orfano il giovane Herbert Stencil, avventuriero e viaggiatore un po’ trascurato dal genitore.
Immaginate che Herbert, ansioso di scoprire la verità sulla misteriosa morte del padre, abbia ritrovato tra le carte di lui il seguente appunto:
“Dentro V., dentro di lei, c’è molto più di quanto nessuno abbia mai sospettato. Il problema non è tanto sapere ‘chi’ è, ma ‘che cosa’. Che cos’è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta”.
Poi immaginate che, ossessionato da questa nota e sospettoso dell’esistenza di occulte trame, Herbert decida di dedicare la propria esistenza alla ricerca di V., che però non si sa cosa sia: un simbolo, un concetto, una cosa o, come egli è propenso a credere, una donna, forse addirittura la propria madre.
Se la vostra immaginazione è stimolata da questo antefatto, ebbene questo romanzo è per voi.
Perché dal proposito di ricerca di Herbert si dipana una storia, lunga e immaginifica, che tocca almeno tre continenti e diverse epoche storiche.
Sono tutte epoche di crisi, età in cui i conflitti improvvisamente trovano un proprio culmine per cui l’umanità intera sarà per sempre modificata.
V. di Thomas Pynchon è una storia piena zeppa di colori, un caleidoscopio di personaggi reali e improbabili, di situazioni surreali mescolate ad eventi storici autentici, nella migliore tradizione del grande Borges.
L’affresco meraviglioso che ne deriva è sfidante e insieme inquietante. Perché mette a dura prova il lettore, tipicamente armato della giusta pretesa di “capire” quel che legge, tenere a mente i fatti e che pretende di attribuire un senso a quel che legge. A questo punto però la sfida sale di livello, perché il romanzo va lasciato decantare per capirne qualcosa, o meglio per arrivare ad un disvelamento che pian piano emerge in tutto il suo compiuto splendore.
Le righe che seguono vorrebbero rappresentare un manualetto per sopravvivere “felicemente” (e l’avverbio non è usato a caso) alla lettura di V., il primo romanzo di Pynchon, scritto dall’autore appena ventiseienne nel 1963, nel tentativo di godere delle meraviglie del suo genio. Vorrebbero contrastare il naturale sperdimento che si impossessa del lettore che più volte non può fare a meno di chiedersi dove diamine l’autore voglia andare a parare.
La struttura del romanzo è già un’opera di architettura: si tratta infatti di 17 capitoli (16 più l’epilogo), di cui almeno sette sono romanzi brevi dedicati alle molteplici declinazioni di V. nella ricostruzione di Herbert Stencil, spesso corrispondenti a donne il cui nome comincia con la ventiduesima lettera dell’alfabeto. Donne che si palesano con nomi uguali o diversi, ma con caratteristiche simili.
Gli altri capitoli fungono da cerniere di collegamento tra queste storie monografiche e sono incentrati sulla miriade di colorati personaggi che animano (a volte senza una funzione specifica perché la divagazione è il fulcro del postmodernismo), il progetto di ricerca di V.
I protagonisti della ricerca sono Herbert Stencil di cui abbiamo già parlato, ossessivo e paranoico studioso del passato del padre e dei mille intrighi che ne hanno attraversato l’esistenza, e Benny (Benito) Profane, uno schlemil – come in ebraico si definisce un individuo goffo, non particolarmente intelligente – cui Herbert si accompagna nella maniacale ricerca di V.
La storia riveste un’importanza fondamentale
in questo romanzo di Pynchon
I due personaggi, così diversi, impersonano la dialettica filosofica occidentale tra il mondo intelligibile e quello sensibile: Stencil analizza gli eventi alla ricerca di un significato, di un collegamento razionale tra loro, proiettando il proprio modello teorico sulla storia del mondo al fine di attribuirle un senso. Invece Profane – un “indegno”, come suggerisce il nome – semplicemente si abbandona agli eventi, spesso adottando la tecnica dello yoyo che va e viene sul medesimo filo, incessamente uguale a sé stesso.
Nella dialettica tra i due mondi si dispiega la problematica del senso dell’esistenza e della storia.
Storia che riveste un’importanza fondamentale in questo romanzo poiché gli avvenimenti narrati sono sempre inseriti in contesti realistici. Abbiamo così una narrazione ambientata in Egitto nel 1898 durante la cosiddetta crisi di Fashoda, in cui inglesi e francesi quasi entrarono in guerra per le rispettive rivendicazioni colonialiste e dove per la prima volta compare V. sotto le sembianze di Veronica Wren.
Seguono, senza essere esaustivi per esigenze di brevità, un capitolo ambientato a Firenze, durante un tentativo di sottrazione della Venere di Botticelli dal Museo degli Uffizi, episodio intrecciato con una rivolta in Venezuela nel corso della quale emerge un racconto a proposito della storia segreta di una città scomparsa, Vheissu, che potrebbe essere una delle epifanie di V.
Uno dei romanzi brevi più agghiaccianti è la cosiddetta storia di Mondaugen (personaggio che ritroveremo nel suo L’arcobaleno della gravità) che, ambientata in Namibia nel 1922, preannuncia l’avvento del nazismo e delle persecuzioni razziali.
Malta
Pynchon dedica un altro romanzo breve, emblematico e risolutivo, a Fausto Maijstral (eponimo del Faust goethiano), intellettuale dalle multiple personalità, autore di un diario in cui narra gli stadi della propria evoluzione personale, contraddistinguendoli con numeri romani come un regnante. Questo capitolo, ambientato a Malta nel corso dei bombardamenti che ci furono durante la Seconda Guerra Mondiale, è particolarmente importante (nonostante sia letterariamente il meno riuscito), poiché vi compaiono i principali elementi simbolici su cui si innesta il romanzo e rappresenta anche un punto di svolta in termini di intreccio.
Per quanto riguarda i simboli, Malta è uno dei luoghi in cui sono più presenti le manifestazioni iconografiche del passaggio tra il culto della Grande Madre e il culto della Vergine, attraverso la rappresentazione del mito di Iside.
Stencil – apparentemente alla ricerca della propria madre – sembra cercare incessantemente la Grande Madre, ovvero la divinità femminile primordiale, mito su cui si fonda la cultura umana moderna.
Il capitolo rappresenta un punto di svolta nella trama perché Fausto Maijstral nelle sue confessioni, fatte rocambolescamente recapitare a Stencil, adombra la morte di V., a La Valletta, e scoraggia la continuazione delle ricerche. Dalle confessioni emerge però anche la descrizione di un processo di disumanizzazione dell’uomo che – in un mondo postmoderno che si avvia alla meccanizzazione – perde sempre di più la dimensione spirituale e religiosa avvicinandosi alle cose, alle rocce.
In questo processo di riduzione dell’uomo ad oggetto inanimato, si innesta la morte della Dea, della Vergine, del principio femminile, ovvero dei valori fondanti dell’epoca moderna: nella nuova storia non c’è più bisogno della Grande Madre perché la Tecnologia ha superato e sconfitto la Natura. Secondo il racconto di Fausto, V. – incarnata nel Prete Cattivo – muore sotto i bombardamenti di Malta.
La rivelazione di Fausto, vera o falsa che sia, non ferma Stencil, il quale decide di recarsi insieme a Benny Profane a Malta (nel 1956, durante l’ennesima crisi storica, in questo caso quella di Suez) per cercare ancora V., di cui non trova però che flebili tracce, anche se scoprirà qualcosa di sé.
Ma che cos’è V.?
V. è Venere (l’eterno femminino)?
È la Vagina (la Grande Madre, la regione pubica a forma di V)?
È la Verità, sempre inafferrabile, che nei secoli assume le connotazioni più disparate, incastonandosi via via in donne con un occhio di vetro, preti smontati da bande di ragazzini, madri improbabili, automi, terre nascoste alla vista dei più da una grande cospirazione universale, isole mediterranee devastate dalla guerra (tutte caratterizzate dalla V iniziale)?
Oppure V. è il simbolo del Vuoto, del caos, della storia che tradisce l’uomo e lo rende sempre più preda del regno dell’inanimato, delle rocce?
È arduo fornire una risposta univoca.
Probabilmente V. è tutto questo e insieme non lo è.
V. è l’inconoscibilità della vita e della storia. E’ l’entità heideggeriana che fluttua liquidamente nel romanzo di Pynchon e che può essere solo parzialmente disvelata.
Forse V. è la continua, incessante ma ineludibile ricerca di un fondamento filosofico che possa attribuire un senso al mondo, pur nella certezza che l’unico significato possibile dell’esistenza sia la condanna al dissolvimento.
Leggere V. di Thomas Pynchon da un lato può essere un esercizio di abbandono ad una narrazione sempre stimolante, enciclopedica, densa di riferimenti culturali (per cui si renderà spesso necessario ricorrere almeno a Wikipedia), rinunciando ad ogni pretesa di cogliere tutto. Dall’altro rappresenta un atto creativo (se, come credo, leggere un libro è un atto di co-creazione tra lettore e autore) attraverso il quale ognuno di noi può ripercorrere le trame delle infinite e irrisolvibili connessioni tra i fatti del mondo e aderire ad una condizione di ricerca sul senso delle nostre esistenze che è forse l’unica ricchezza dell’uomo e, insieme, l’unico antidoto al suo dissolvimento.