Libri giapponesi sui gatti e lingue di gatto
“Dio ha creato il gatto per permettere all’uomo di accarezzare la tigre”.
(F. Méry)
Il gatto, io lo adoro come se fossi un antico Egizio.
Dopo un po’ che non ne accarezzo uno vado in crisi da astinenza felina.
Per cui sono un’appassionata di quella che i nostri amici anglosassoni chiamano “PET-LIT”, il sottogenere letterario che comprende quelle storie che hanno come protagonisti gli animali e di cui il re, manco a dirlo, è lui, il Micio.
Da Esopo in poi, i grandi scrittori da sempre celebrano il gatto, animale tra i più amati e certamente il più misterioso, affascinante e sorprendente. Con la sua indipendenza e quell’aria a metà tra lo snob e l’enigmatico, il gatto è per antonomasia il migliore amico di scrittori, artisti e poeti. Dopo il periodo buio nel Medioevo, in cui i gatti erano – diciamo così – guardati piuttosto male, tornano protagonisti delle pagine scritte nel Rinascimento e trovano il loro splendore nei secoli successivi.
Da Il gatto con gli stivali di Perrault allo Stregatto di Alice nel paese delle meraviglie, da Edgar Allan Poe che gli dedica dei racconti dell’orrore fino al nostro Pascoli e il suo sonetto “La gatta”, per arrivare agli scrittori contemporanei, chiunque voglia passare qualche ora accompagnato dal felino tra le pagine del suo libro, non ha che l’imbarazzo della scelta. Che siano gatti giapponesi, inglesi o indiani.
Il gatto è protagonista infatti di favole, racconti, romanzi, poesie, saggi in tutto il mondo. Si va dai romanzi leggeri e campioni di incasso a quelli più blasonati, assurti a rango di classici.
Ecco i libri giapponesi sui gatti:
Io sono un gatto
Tempo fa mi è capitato tra le mani quello che è considerato un classico della letteratura giapponese, Io sono un gatto, di Natsume Soseki, pubblicato nel 1905. L’io narrante, come nella maggior parte dei libri di questo genere, è proprio il gatto che l’autore utilizza come filtro, ironico e dissacratore, per raccontare i cambiamenti sociali del Giappone dei primi del ‘900.
Mi sono quindi dedicata a leggere di gatti giapponesi, incuriosita dalla conoscenza del Paese del Sol Levante. La prima cosa che salta all’occhio è che il romanzo di Soseki, nei libri giapponesi sui gatti, è sempre in qualche modo citato. Ecco come comincia:
Io sono un gatto.
Un nome ancora non ce l’ho.
Cronache di un gatto viaggiatore
Ad esempio, il romanzo Cronache di un gatto viaggiatore di Hiro Arikawa, inizia proprio citandone l’incipit. Nana – il protagonista – si presenta tutto orgoglioso dicendoci che, al contrario del protagonista del libro di Soseki, lui un nome ce l’ha.
Nato randagio e adottato da Satoru, un ragazzo trentenne che vive a Tokyo. Tra i due si crea subito un legame speciale che dura cinque anni. Poi Satoru perde il lavoro e si deve trasferire dall’altra parte del Giappone. Non potendosi più prendere cura di Nana, partono su una vecchia Station Wagon argento per cercare un nuovo padrone tra le amicizie di Satoru.
Attraverso gli occhi di Nana vediamo un Giappone pieno di panorami affascinanti, pieno di colori e profumi, conosciamo alcuni dei piatti tipici e delle, altrettanto tipiche, usanze di questo Paese culturalmente tanto lontano da noi. Nessuno degli amici di Satoru, dal compagno di classe delle elementari o delle medie al suo primo amore, sembra piacere al nostro Nana. E quando alla fine si scopre il motivo per cui si sarebbero dovuti separare, si scopre pure che il loro legame di amicizia è talmente forte che non può essere spezzato.
Se i gatti scomparissero dal mondo
Anche il secondo capitolo del libro Se i gatti scomparissero dal mondo, di Kawamura Genki, inizia citando il fatto che, al contrario del libro di Soseki, il gatto del protagonista un nome ce l’ha.
Qui l’io narrante è il coinquilino umano (non si può parlare di padroni, quando si parla di gatti, giapponesi o no), un postino riservato e taciturno di cui non sappiamo il nome. Anche lui è un trentenne single che, dopo delle analisi di routine, scopre di avere una settimana di vita.
Mentre è preso dalla disperazione gli appare il Diavolo che, come da prassi, gli propone un patto: un giorno di vita in più per ogni cosa che accetterà di far sparire. Telefoni, orologi, film… ogni giorno il postino decide che il mondo può fare a meno di qualcosa, affrontando i pro e i contro della sua scelta.
Ogni oggetto è legato a un ricordo, a una persona particolare e la sua scomparsa lo mette di fronte al fatto che ha curato troppo poco le emozioni e le cose davvero importanti della sua vita. Ma, tutto sommato, la sparizione dell’oggetto non rende la vita peggiore di quanto non fosse prima. Fino a che il Diavolo gli propone di far sparire i gatti…
E’ una storia particolare, profonda e delicata al tempo stesso, tutta basata sulle emozioni e sulla capacità squisitamente umana di perdere di vista l’essenza della vita. Cosa che, invece, per i gatti è sempre molto chiara.
Anche qui c’è uno spaccato di vita giapponese, anche qui parlano delle dinamiche scolastiche che, evidentemente, hanno un ruolo fondante nella struttura sociale nipponica. Soprattutto, anche qui incontriamo una ex fidanzata con la quale il nostro protagonista non è riuscito a cementare un legame affettivo profondo.
La gatta, Shozo e le due donne
Un altro classico giapponese del 1936, La gatta, Shozo e le due donne, di Jun’ichirō Tanizaki (premio Nobel nel 1964), è tutto incentrato sulla gelosia della prima e della seconda moglie di Shozo per la sua gatta Lily.
In questo libro, leggero solo all’apparenza, l’autore riesce a raccontare le dinamiche dei personaggi, tutti concentrati sugli altri più che su sé stessi e su quello che provano. Solo attraverso la gatta che, al contrario di loro non si cura dell’opinione degli altri ma si concentra su quello che è più importante per sé stessa, si intravede la critica alle convenzioni sociali del Giappone.
E’ chiaro come il libro rifletta il sentire dell’epoca in cui fu scritto ma anche gli altri due libri giapponesi sui gatti, quelli di Arikawa e Genki, li ho trovati permeati di questa maniera di raccontare la psicologia sociale giapponese, le dinamiche familiari e in generale relazionali basate su una rigidità di norme e comportamenti che a noi, o perlomeno a me, appaiono quantomeno anacronistici. E gli autori, tramite i nostri amici dalle orecchie a punta e il loro sguardo distaccato e venato di superiorità, sottolineano le debolezze e peculiarità umane.
Non sono esperta di cucina giapponese, so solo che è molto ricca e articolata e va ben al di là del sushi di cui noi siamo ormai conoscitori. D’altronde, è come se la conoscenza della cucina italiana si limitasse alla pizza!
Per cui resto in ambito europeo e vi spiego come si fanno dei biscottini leggeri e fragranti, strategici per eliminare albumi avanzati e ottimi per accompagnare il caffè e i gelati, che comunque fanno riferimento ai protagonisti di questo articolo.
Lingue di gatto
75 gr di burro
85 gr di zucchero a velo
60 gr di farina
2 albumi
½ cucchiaino di estratto di vaniglia
Fate fondere il burro a fuoco basso, o nel microonde. Fatelo raffreddare poi mescolatelo in una terrina con lo zucchero a velo. Incorporate poi gli albumi, senza montarli ma amalgamandoli per bene. Unite quindi l’estratto di vaniglia e la farina setacciata.
Preriscaldate il forno al 130°. Mentre si scalda, foderate una teglia con carta forno e preparate una sac a poche con una bocchetta liscia. Metteteci il composto e spremete sulla teglia dei bastoncini lunghi circa 5 cm. Lasciate parecchio spazio tra l’uno e l’altro perché si allargano in cottura.
Infornate per circa 6 minuti: le lingue di gatto devono essere dorate, scure lungo i bordi ma ancora chiare al centro.
Aspettate qualche minuto poi, con l’aiuto di una spatola, mettetele a raffreddare su una gratella.