Dobbiamo all’editore Solferino la riscoperta in Italia di un’autrice straordinaria. Oggi è al centro di un interessante dibattito critico sebbene ancora poco nota al grande pubblico dei lettori. Sara Gallardo, prematuramente scomparsa nel 1988, figura nel pantheon eretto da Riccardo Piglia all’inizio del nuovo secolo, troneggiando accanto ai nomi di Borges, Puig, Sarmiento e Cortázar. Difficile ignorare la potenza della sua scrittura. Quella voce tanto intensa da squarciare la pagina, da risuonare – per citarla – come «dieci casseruole che rimbalzano a terra».
Gennaio
Mirabilmente tradotto da Bruno Arpaia, Gennaio colma dunque una lacuna di insostenibili proporzioni, restituendo al lettore una prosa asciutta, spoglia di orpelli, femminile nel senso opposto all’abbandono emotivo. Qui, in centotrentotto pagine, si condensa piuttosto il senso del dolore, un modo di essere donna che è pratico e lieve al tempo, tramato di un’impotenza arcaica, soffocante, svelata in tutta la sua crudezza.
Quest’opera d’esordio (apparsa nel 1958) è infatti la storia di una gravidanza indesiderata, di «un fungo nero» che soffoca le viscere. Nefer, sedicenne dal corpo gracile, scopre di essere incinta dopo una violenza avvenuta a una festa. Mentre tutti ballano e lei è sola, insidiata da un uomo che la spinge tra i rovi. È qui che ha inizio il suo dramma, il terribile corpo a corpo col peso che nasconde.
La trama parrebbe esaurirsi già così. Poiché il racconto di Sara Gallardo si snoda lungo i binari di una Passione ingovernabile, nella duplice accezione del tormento e dell’estasi. A sottolineare – se mai ce ne fosse bisogno – l’attenzione dell’autrice al significato delle parole.
È nell’uso dei termini, nella scelta oculata e “puntuta” di essi, che si realizza l’immersione nell’universo del romanzo, situato con precisione nel tempo e nello spazio (l’Argentina rurale di metà Novecento) ma carico di valori universali. Nell’angusto mondo di Nefer ogni cosa ci appare duplice, a partire dal feto che ora è condanna ora è «amico». O ancora la morte, che assume il senso della liberazione mentre dall’altro lato spaventa e schiaccia:
«La nuca le se riempie di rumore e nebbia, chiude gli occhi e pensa, magari il tetto del magazzino ci cadesse addosso e ci schiacciasse e finisse tutto».
Quando Nefer cavalca…
Si prova un disagio fisico dinnanzi alla vita di questa donna; espropriata di sé, del proprio stesso corpo, fantastica fughe che sa impossibili. Annaspa e soffoca nel suo ambiente nativo, legato a leggi non scritte che si tramandano con il sangue.
Gallardo è brava a rendere l’orrore, un senso di stasi che procede dal ritmo, tanto lento e sobrio da apparire dilatato. Anche quando Nefer cavalca, sognando che la fatica cancelli il peccato, si ha il senso di una paralisi eternamente ritornante, l’idea che la Storia non possa “muoversi”.
Oppressa dalla vergogna, dai sensi di colpa istillati dalla Chiesa, dalla madre, da tutto un sistema che gravita attorno a lei, la giovane non può che cedere a un destino prestabilito, in cui la sua voce di donna è ridotta al silenzio.
Tutto, in quest’opera di Gallardo, rivela un’attrazione per i margini – dell’universo sociale, femminile, persino mentale – e tutto è intrecciato con l’idea di “denuncia”, senza per questo apparire pedante o didascalico. Il linguaggio scarno, quasi rattenuto, si attaglia all’esplosione dell’anima di Nefer. Ne contiene gli eccessi facendo leva sul non-detto, aggirando le rappresentazioni crude tramite squarci di memoria, tutti giocati sul dettaglio e le piccole reticenze. La voce della giovane, quasi un flusso di coscienza, si alterna all’occhio del narratore. Questo è insieme esterno e partecipe, così da rendere la fusione tra prospettiva autoriale e sguardo del personaggio. Al centro, pagina dopo pagina, c’è il racconto intimo, in cui la protagonista tenta di costruirsi uno spazio, di trovare un equilibrio tra questa vita e una fragile pace dell’animo.