Scrivere come in una serie tv

Scrivere come in una serie tv. Cronache Letterarie

Parliamo dell’uscita di due thriller per la casa editrice Haiku, con trame molto originali, ma il cui stile narrativo lascia a desiderare. Si tratta di Fango rosso di Rino Mazzanti e Le piccole volpi del deserto di Rossella Gazzelloni.

Una delle caratteristiche peculiari della narrativa è la capacità di adeguare i suoi registri espressivi seguendo l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e del loro linguaggio. Questo è tanto più valido per la narrativa di genere, che si rivolge a segmenti di pubblico trasversali, non identificabili tramite una specifica connotazione culturale, e quindi aperta a una possibilità di espressione più fluida.

Ma quello che è sempre avvenuto, nella fase attuale sembra raggiungere livelli parossistici. Si direbbe che mai come oggi il linguaggio narrativo sia influenzato da stilemi e lessici importati direttamente dal cinema o soprattutto dalla televisione (alla quale lo stesso cinema si sta ritrovando sempre più subalterno), per non parlare dell’influenza dei linguaggi imposti dalle nuove tecnologie, da quello del forum a quello dei social.

In una fase di trasformazione come la presente, è normale che, anche in Italia, qualche piccola ma dinamica realtà editoriale si stia muovendo nelle direzioni che sembrano anticipare i prossimi cambiamenti. Un esempio può essere quello delle Edizioni Haiku, la cui attività è cominciata nel 2010. Haiku porta avanti una politica di collaborazione con due agenzie letterarie – Alessio Callegari e Scrittura Efficace – che selezionano preventivamente i testi su cui lavorare, intanto che seguono la loro realizzazione.

Negli ultimi tempi, la Haiku ha proposto due thriller molto originali, anche se è impossibile non esprimere qualche riserva sul loro contenuto. In effetti, entrambi sono validi dal punto di vista dell’intreccio, sempre curato nel dettaglio e pieno di colpi di scena. Stilisticamente, invece, proprio per l’intenzione di rappresentare qualcosa di nuovo a tutti i costi, non si possono considerare altrettanto riusciti.

Fango rosso di Rino Mazzanti

Fango rosso. Scrivere dialoghi come in una serie tv

Il primo di cui ci occupiamo è Fango rosso di Rino Mazzanti, uscito nel 2020. È un romanzo di ambientazione americana, confezionato come un thriller ma con forti connotazioni fantastiche. La vicenda prende l’avvio dal rapimento di una giornalista che indaga su una serie di morti sospette di giovani operaie. Morti avvenute in un’azienda che lavora l’alluminio e accumula fanghi rossi come prodotto di scarto. La giornalista è legata a un certo Lou Caswan, figlio di una delle vittime e discendente da una famiglia che in passato ha annoverato pirati dei Caraibi e soldati della Guerra di Secessione.
Le morti delle operaie non sono le uniche circostanze sospette. C’è anche quella di uno strano ricercatore, dal lavoro del quale è possibile risalire successivamente a un libro di pietra, dal possesso del quale discendono poteri particolari.

A questo punto, ovviamente, è meglio lasciare al lettore la scelta se proseguire o no, altrimenti si rischia di spoilerare troppo.

Fango rosso, nonostante il fascino indubbio della sua trama, non è facilissimo da leggere. In alcuni punti, appare addirittura irritante per come sembra complicare inutilmente una narrazione già di per sé tutt’altro che lineare. Soprattutto, nella prima parte, la scelta di scrivere un testo fatto soprattutto di dialoghi non appare la migliore possibile, considerando la quantità di flashback di cui la storia necessita per essere compresa.

Attenzione allo “spiegone”

In mancanza di un narratore onnisciente, questi flashback prendono inevitabilmente la forma di lunghi “spiegoni” da parte di questo o di quel personaggio. A occhio, la scelta dello stile dialogato farebbe pensare a un’idea nata inizialmente come sceneggiatura e poi sviluppata successivamente come romanzo. Questo non è per forza un punto di debolezza. Ma che si tratti di una sceneggiatura, o di un romanzo, già uno “spiegone” basta e avanza, due sono troppi, figuriamoci di più.

Inoltre, i capitoli si presentano come narrati in prima persona da personaggi che riferiscono fatti e dialoghi: al di là dell’aspetto inverosimile per cui i fatti sono pochi e i dialoghi molti, il tentativo di utilizzare una lingua più parlata che scritta porta a risultati come tempi dei verbi che non concordano nella stessa azione, o soggetti sottintesi che non si capisce bene chi siano se non si rilegge tutto due o tre volte.

Per carità, la gente comune spesso parla effettivamente in un modo molto simile, e così scrive anche in chat o sui social: ma ciò non toglie che, trasportati in un romanzo, certi elementi lascino alquanto a desiderare.

Le piccole volpi del deserto di Rossella Gazzelloni

Le piccole volpi del deserto. Scrivere come in una serie tv

L’altro romanzo è Le piccole volpi del deserto di Rossella Gazzelloni, uscito nel 2019. In questo caso, la vicenda si svolge in gran parte a Ostia, nell’area che ormai, tra Romanzo criminale, Suburra, Dogman e quant’altro (per non parlare delle notizie di cronaca) sembra diventata davvero il perfetto topos per l’ambientazione di storie nere fino allo splatter.

L’adolescente Marco, cresciuto in una famiglia disfunzionale, attratto dalla compagna di scuola Lidia, finisce per essere cooptato dal padre di questa, il boss Damiani, che governa lo spaccio e la prostituzione. Dopo gli esordi come pusher, Marco si guadagna la fiducia di Damiani. Scala così le gerarchie della banda fino a ritrovarsi a fare il killer nei regolamenti di conti con le bande rivali. Il rapporto tra i due, cementato dall’unione tra Marco e Lidia, evolve gradualmente in un rapporto del genere padre-figlio. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, Marco, per una volta animato da buone intenzioni, finisce per farla fuori dal vaso. Almeno secondo la perversa logica di Damiani. La reazione spropositata di quest’ultimo scatena un bagno di sangue e un successivo conflitto di tutti contro tutti, i cui esiti arriveranno molto lontano.

Scrivere come in una serie tv

Anche qui, l’intreccio si fa seguire senza problemi ma sullo stile è lecito nutrire qualche dubbio.

Si possono anche accettare le continue descrizioni di scene di sesso in un linguaggio da quattordicenni. Un ininterrotto profluvio di fiche bagnate, cazzi duri, cazzi mosci, cazzi nel culo, bocchini, eccetera: alla lunga, il lettore si sente a disagio come un guardone. Ma tutto sommato questo può essere funzionale alla descrizione di una realtà in cui il sesso è praticato nemmeno per istinto, ma semplicemente per sfogarsi in qualche modo dopo essersi “bombati” fino agli occhi. Tanto più che le relative sequenze sono in realtà meccaniche e banalissime, senza nulla di realmente erotico. E la visione ossessiva del sesso comincia ad afflosciarsi nel momento in cui i personaggi sono posti davanti alla necessità di compiere scelte importanti.

Semmai, a risultare problematica è la composizione dei paragrafi, quasi sempre lunghissimi. Spesso sono senza pause che marchino il passaggio da una scena all’altra, o da un’azione all’altra. Forse l’intenzione era quella di mantenere un ritmo molto elevato per tutta la narrazione, ma il risultato non è molto piacevole e non facilita per niente la lettura.

In definitiva, possiamo concludere che questi tentativi di battere nuove strade siano riusciti solo in parte. Sicuramente, l’influenza del mezzo televisivo e delle sue modalità espressive, a loro volta in rapida evoluzione, costringe chiunque voglia tenersi al passo con la comunicazione a tentare adattamenti che possono riuscire più o meno bene e non è mai facile prevederne i risultati.

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Roberto Cocchis

Roberto Cocchis

Classe 1964, insegnante di liceo, autore di un piccolo successo editoriale (Il giardino sommerso, Lettere Animate, 2017) e di altre opere di narrativa, collaboratore di Cronache Letterarie e di Vanilla Magazine; amo i misteri e i gialli, sia quelli veri sia quelli inventati, con preferenza per quelli dimenticati e soprattutto quelli introvabili: vedi la mia rubrica su Cronache Letterarie.

Un commento

  1. Le critiche si accettano e sono il sale per migliorare, ma “Lascia a desiderare” è un’espressione che sottintende molto di più di quanto in realtà è stato argomentato nell’articolo, non condivisibile del tutto. Mi domando; si poteva forse evitare di affidare ai posteri il collegamento degli autori ad uno “stile che lascia a desiderare”, utilizzando altri termini ugualmente critici?
    Noi esordienti dobbiamo solo ringraziare questi “piccoli” (grandi!) Editori che credono in noi “piccoli” autori e nei nostri progetti. Senza di loro non avremmo la men che minima voce. e non avremmo mai avuto la possibilità di assaporare questo mestiere così affascinante, senza nessuna velleità economica!

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