La rivoluzione siamo noi
Arte in Italia 1967/1977
La Biennale d’Arte di Venezia del 2017 aveva un titolo che era un po’ gioco di parole, un po’ auspicio e un po’ esclamazione entusiasta: Viva Arte Viva. Guardando il documentario La rivoluzione siamo noi torna in mente proprio quella frase. Presentato in anteprima allo scorso Torino Film Festival, arriva finalmente sullo schermo in varie città italiane, accompagnando la ventata fresca di riaperture dopo l’emergenza sanitaria.
Incentrato sul panorama dell’arte italiana nel decennio 1967-1977, è un’immersione coinvolgente in quel variegato e fecondo magma creativo che è stata l’arte contemporanea in Italia in quegli anni. Alternando preziosi materiali d’archivio a interviste ai protagonisti di quella fase, ovvero galleristi, critici e artisti insieme, presenta in tutta la sua effervescenza quell’Arte veramente viva, sottolineandone la carica innovativa.
La regista Ilaria Freccia, con la consulenza del critico Ludovico Pratesi, è riuscita a trasmetterne l’energia vitale e vivificante, mostrando opere e performance nel loro svolgersi e rapportarsi con il pubblico dell’epoca. In questo modo la patina del tempo viene via, scuotendo le opere dalla loro storicizzazione e rimettendole in moto per lo spettatore odierno. E vista la natura veramente rivoluzionaria dell’arte di quel periodo, l’operazione appare doppiamente felice.
La rivoluzione siamo noi è quindi imperdibile sia per chi conosce bene quella fase, e si entusiasmerà nel veder respirare alcune mostre o happening mitici, sia per chi vuole scoprire il decennio più vivace dell’arte italiana del ‘900.
Intervista a Ilaria Freccia
- Cominciamo da una domanda un po’ scontata ma sempre utile ad inquadrare un progetto: come è nata l’idea di questo documentario?
L’idea del documentario nasce da Ludovico Pratesi, che mi ha proposto di raccontare 10 anni di storia dell’arte italiana dal 1967 al 1977, molto importanti per l’arte italiana e internazionale. Anni che vedono l’Italia come un paese libero e aperto alla sperimentazione in tanti settori della cultura. Abbiamo quindi deciso di proporlo a Roberto Cicutto, allora presidente dell’Istituto Luce Cinecittà, e così è cominciata questa avventura che è durata un anno e mezzo. La sfida era fare un documentario che non fosse didascalico, e che includesse allo stesso tempo la maggior parte dei protagonisti che hanno attraversato quel periodo. Artisti, fotografi, film-maker, ma anche i galleristi e i critici militanti. Molti di loro purtroppo ci hanno lasciato e la sfida era riportarli in vita, raccontarli attraverso le loro stesse testimonianze. Il materiale di repertorio quindi era necessario, e per questo abbiamo consultato una trentina di archivi.
Quando l’Italia era un paese all’avanguardia
- Uno dei pregi maggiori del tuo documentario è di aver riacceso i riflettori su una fase effervescente dell’arte contemporanea italiana, concentrandoti su nomi amati dagli addetti ai lavori ma non necessariamente conosciuti dal grande pubblico. Quella dell’arte italiana degli anni ’70 era una realtà che già conoscevi o è stata un po’ una scoperta?
Conoscevo l’arte italiana di quel periodo, ma non l’avevo mai approfondita. Amavo alcuni artisti, di altri conoscevo solo alcuni lavori. Ma soprattutto non avevo mai avuto occasione di sentirli parlare, di vederli così come erano quando avevano vent’anni. Man mano che trovavamo negli archivi, filmati e fotografie dell’epoca, l’emozione cresceva.
Ho scoperto quindi una generazione di giovani che avevano una straordinaria energia e insieme ai galleristi sperimentavano in totale libertà nuovi linguaggi, rompendo ogni schema. L’arte diventa vita e in quel periodo storico così incandescente, anticipa la politica.
- Ho trovato estremamente interessante la scelta di creare delle suddivisioni legate ai principali centri di attività artistica di quegli anni: Roma, Torino, Napoli e, in misura minore, Milano. Per ogni città c’erano dei galleristi e degli artisti attorno ai quali nel giro di pochi anni fermentò un’intensa produzione di opere, mostre ed eventi. Durante la lavorazione hai individuato delle specificità locali? In caso affermativo, sono a tuo avviso da ricondursi alle personalità coinvolte o al panorama culturale in senso lato di queste città?
Torino, la nascita dell’Arte Povera
Abbiamo deciso di partire da Torino perché è lì che nasce l’Arte Povera, la principale corrente artistica di quegli anni. Torino città industriale, teatro di scioperi e lotte operaie, ma anche città colta, di grandi editori e intellettuali. Una città, come dicono i protagonisti, dove ci si incontrava in strada, dove le gallerie nascevano nei garage accanto alle sedi dei gruppi politici extraparlamentari. L’Arte Povera ha cambiato le regole dell’arte, influenzando poi tutti i movimenti artistici che sono venuti dopo.
Roma e le grandi mostre
Roma invece è stata teatro di grandi Mostre, come Contemporanea, svoltasi nel parcheggio di Villa Borghese e Vitalità del Negativo a Palazzo delle Esposizioni. Mostre interdisciplinari, che hanno visto arrivare in Italia per la prima volta musicisti all’avanguardia come Philip Glass e dove artisti di fama internazionale esponevano insieme agli artisti italiani.
Napoli e la body-art
Infine Napoli, teatro delle prime performance e della body-art. Qui c’erano galleristi coraggiosi come Lia Rumma, Lucio Amelio e Peppe Morra, artisti all’avanguardia come Marina Abramovic, Herman Nitsch, Joseph Beuys, Andy Warhol. L’Italia era un paese che non aveva paura di sperimentare.
- Quanto è stato difficile il lavoro di ricerca in archivio? Tra l’altro hai lavorato con quelle che, in molti casi, costituiscono le uniche testimonianze rimaste di performance ed happening.
Abbiamo attinto a circa 30 archivi, quelli dei musei, delle gallerie, dei fotografi delle fondazioni, oltre agli archivi dell’Istituto Luce e della Rai. Abbiamo cercato e non ci siamo arresi. In alcuni casi i materiali sono inediti ed è tutto quello che rimane di quel momento. Fortunatamente, all’epoca con gli artisti lavoravano anche grandi fotografi. Come Paolo Mussat Sartor a Torino, o Claudio Abate. E film-maker come Mario Carbone a Roma e Mario Franco a Napoli. Oggi, grazie a questo materiale prezioso, possiamo immergerci in quell’atmosfera, rivivere quei momenti ed emozionarci.
L’arte può cambiare il mondo
- Nel tuo documentario ti sei concentrata sul panorama artistico italiano degli anni ’70. Era un periodo di grande partecipazione e vitalità a livello sociale, eppure erano anche i cosiddetti Anni di Piombo. Credi che questa contraddizione si sia in qualche modo riflessa sull’Arte?
Volevamo ricostruire un periodo storico con le luci e ombre che lo hanno contraddistinto. Le grandi speranze e i sogni di una generazione, ma anche la violenza, le morti, le stragi di Stato e il terrorismo. Ovviamente tutto questo si rifletteva nel mondo dell’arte. Come dicono alcuni dei nostri protagonisti, l’arte ha una funzione politica pur non trattando direttamente temi politici. Gli artisti di quel periodo hanno fatto una vera e propria rivoluzione. Hanno anticipato e incluso tutti i temi della politica di quegli anni, trasformandoli, rendendoli universali ed eterni. Come dice il titolo La rivoluzione siamo noi, che è anche un’opera che Joseph Beuys ha portato a Napoli nel ’72. In ogni essere umano c’è una forza creativa, questa stessa forza è rivoluzionaria e può cambiare la società in cui viviamo.