Figure solitarie e malinconiche che si incontrano di notte in atmosfere alla Simenon. Ma prima di arrivare a parlare de Il montacarichi di Frédéric Dard, un gioiello del genere pubblicato da Rizzoli, Roberto Cocchis fa una rassegna del noir, dei suoi tratti essenziali, delle sue principali correnti e anche di alcuni romanzi imperdibili per chi ami questo genere.
Il “noir” è una strana categoria narrativa, eterogenea finché si vuole, ma con delle regole che non lasciano scampo. In un buon noir, c’è sempre poco spazio per i discorsi edificanti sul Bene che vince sul Male. Di solito, è già tanto se si trova qualcosa di lontanamente riconducibile a una qualche forma di “Bene”. E i deus ex machina che ripristinano l’ordine su cui si regge la società civile, o mancano del tutto, o hanno un ruolo marginale, o tutto fanno tranne quello che dovrebbero fare.
Quando Rex Stout dichiarò che chi non ama i “gialli” deve essere per forza un anarchico. Come “gialli” intendeva esclusivamente i mystery: per amare il noir occorre esserlo almeno un poco, anarchici, ma esserlo sul serio.
Nel cuore del noir
Il noir non è il classico “nero” orrorifico, di stampo gotico, dell’Ottocento.
Il noir tiene le radici ben affondate nel nostro secolo e nella civiltà contemporanea. Al centro del noir c’è sempre un protagonista lontano anni luce dagli azzimati detective che risolvono enigmi giocando con la loro razionalità. Di solito c’è un fallito, o poco ci manca, che si ritrova a vestire i panni della vittima, oppure del sospettato, o dell’autore del delitto. A volte anche di due o tre di queste cose insieme. Si tratta di un personaggio non solo negativo, ma anche dotato di una evidente carica autodistruttiva, che però non per questo è rassegnato a morire. In ogni caso non ha speranze, o perché il sistema che dovrebbe tutelarlo è irrimediabilmente corrotto, o perché si porta addosso qualche stigma che lo rende un perfetto capro espiatorio anche quando è innocente.
Versione intimistica dell’hard boiled
Il noir è un’invenzione americana, una versione intimistica dell’hard-boiled. È l’hard-boiled senza gangster e senza detective che ha avuto molta diffusione anche in Europa.
Un lettore italiano che volesse azzardarsi ad assaggiare un po’ di capolavori noir tradotti nella nostra lingua, al di là dei soliti autori (validissimi, ma non esistono solo loro) riproposti in continuazione come Cornell Woolrich, dovrebbe scartabellare soprattutto nel vasto universo del fuori catalogo, alla ricerca di perle come La casa buia di Day Keene, oppure Sogno criminale di James Hadley Chase, oppure ancora Finché morte non li raggiunga del misterioso e sfuggente John Lloyd, che probabilmente è uno pseudonimo ancora non censito dello stesso Chase.
Keene è americano come Woolrich, mentre Chase è inglese: ma un grosso contributo al genere è stato dato anche dai francesi.
I francesi e il polar:
policier plus noir
La Francia aveva già alle spalle una buona tradizione di autori di polizieschi. Simenon su tutti, ma anche S. A. Steeman: per combinazione, entrambi belgi, però francofoni. Nel secondo dopoguerra, ha assorbito un bel po’ di cultura angloamericana, rielaborandola a modo proprio, tanto da ottenere risultati che nulla hanno da invidiare a quelli dei maestri. Si pensi a quel perfetto hard-boiled che è Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian.
I francesi, oltretutto, non si sono limitati a scrivere degli ottimi noir, ma hanno fuso il genere con qualche elemento del poliziesco più classico, dando vita al genere chiamato “polar” (policier plus noir), impostosi soprattutto al cinema, del quale il rappresentante più autorevole è stato il regista Jean-Pierre Melville.
Tra i tanti rappresentanti del puro noir francese, dovendosi pur orientare in qualche modo, sarebbe doveroso citarne almeno sette: Albertine Sarrazin, autrice ormai di nicchia, deceduta a soli trent’anni nel 1967. È da riscoprire a tutti i costi, con il suo L’astragalo.
Poi c’è Francis Ryck, pseudonimo di Yves Delville, autore soprattutto di romanzi di spionaggio che, in pieno periodo James Bond, mettono al centro della scena delle figure ancora più grigie e disperate dell’Alec Leamas di La spia che venne dal freddo. Alcuni di questi furono tradotti in “Segretissimo” negli anni ’70.
Quindi ci sono diversi titoli dell’immancabile (e imprescindibile) Simenon. Il duo Boileau- Narcejac, saccheggiato dal cinema. Sébastien Japrisot, di cui abbiamo già recensito, tempo fa, La cattiva strada (qui trovi la nostra recensione). Noel Calef, autore dell’indimenticabile Ascensore per il patibolo. E, last but not least, Frédéric Dard.
Frédéric Dard
Dard in Italia è piuttosto noto per la serie del commissario Sanantonio, lunga almeno 154 romanzi (alcuni dei quali trasposti anche in fumetti). Serie che è stata tradotta più o meno per intero – alcuni titoli più volte – nella nostra lingua, a partire dal 1970. In Francia, usciva dal 1949.
Anche di Sanantonio abbiamo parlato in una precedente recensione, quella di Les Italiens di Enrico Pandiani. Quindi rinviamo a quella il lettore curioso di approfondire l’argomento.
Non solo Sanantonio
Ma Dard non è solo Sanantonio, come l’editoria italiana sta cominciando finalmente a capire.
Complessivamente, dovrebbe aver pubblicato oltre 280 libri, firmati con almeno 17 pseudonimi. Alcuni dei quali piuttosto bizzarri, come Kaput o Kill Him.
In particolare, la Rizzoli negli ultimi tre anni ha alcuni titoli dello scrittore francese, non appartenenti alla sua serie più celebre. Due dei quali erano assenti da molto tempo dalla nostra disponibilità e uno del tutto inedito nella nostra lingua. Les scélérats del 1959, uscito con il titolo Gli scellerati, è l’inedito assoluto.
Les salauds vont en enfer ha avuto una storia un po’ contorta: prima piéce in due atti, rappresentata al Grand-Guignol nel 1954, poi film uscito nel 1955, infine romanzo pubblicato nel 1956, con il titolo I bastardi vanno all’inferno (da noi ebbe già un’edizione con Cino Del Duca nel 1957, titolo: Le canaglie vanno all’inferno).
Infine c’è Le monte-charge (il montacarichi), uscito nel 1961 e tradotto in due edizioni ormai molto rare: L’ultima parola all’assassino in “Il giallo illustrato di Settimo Giorno” nel 1964, e Il montacarichi nel 1966. L’editore in questo secondo caso era Ripalta che all’epoca traduceva molti romanzi francesi, soprattutto di spionaggio.
Il montacarichi
È proprio di questo romanzo, Il montacarichi, che ci occupiamo oggi.
Un uomo, che poi scopriremo chiamarsi Albert Herbin, torna nella sua città natale, nella modesta casa che ha condiviso con la madre durante una giovinezza piena di sacrifici.
La madre è morta da poco e lui è passato per vicende personali che prima lo hanno emancipato dalla povertà e poi lo hanno portato a ridiventare un emarginato. È la vigilia di Natale e non ce la fa proprio a passarla da solo in quella casa che non ha neanche il bagno. Esce, dunque, per recarsi a un ristorante, e qui cena seduto proprio accanto a un tavolo occupato da una giovane donna con una bambina. La donna gliene ricorda un’altra, ma non può essere lei perché quella è morta.
Herbin e la donna con la bambina terminano la cena contemporaneamente: a tavola, hanno scambiato molti sguardi ma nessuna parola. Nessuno dei due sembra prendere l’iniziativa di rivolgersi all’altro e quindi finiscono per separarsi, andando ognuno per proprio conto.
Per Herbin è troppo presto per ritirarsi, quindi si reca a un cinema. E qui ritrova la donna con la bambina. Durante la proiezione del film, che i due seguono seduti uno accanto all’altra, il comportamento della bambina, molto irrequieta, li costringe a parlarsi brevemente. Dopo un ulteriore scambio di sguardi, Herbin si azzarda a prenderle la mano e la donna lo lascia fare.
Poi la donna dice che la bambina è stanca e deve coricarsi. Quindi Herbin si offre di accompagnarle a casa, a piedi, portando la bambina in braccio. La donna lo conduce fino a un cancello dove campeggia l’insegna di una ditta, una stamperia, e poi all’interno, fino ad entrare insieme in un montacarichi che funge da ascensore per i piani superiori.
Con questo, si recano all’appartamento della donna, che mette a dormire la bambina, offre da bere a Herbin e rimane qualche minuto a chiacchierare con lui. Poi gli propone di uscire di nuovo, approfittando del fatto che la bambina dorme.
I due si raccontano le loro storie, molto infelice quella di lui, un po’ meno quella di lei, e vanno a casa di Herbin, dove però si trattengono poco. Poi passano per un bar e bevono qualcosa, prima che lei dica che deve tornare a casa perché non può lasciare per troppo tempo la bambina da sola.
A casa di lei, li aspetta una sorpresa. Che in realtà, almeno per Herbin, è solo la prima di molte sorprese che si susseguiranno una dietro l’altra fino all’ultima pagina.
Herbin narra la storia in prima persona, inizialmente cercando di mostrarsi cinico, ma rivelandosi via via sempre più vulnerabile. È il classico protagonista da noir, che mille volte potrebbe tirarsi fuori dai guai ma puntualmente finisce per cacciarsi da una brutta situazione a una ancora peggiore.
Solo 130 pagine ma…
La brevità del romanzo (circa 130 pagine scritte grande e con diversi dialoghi) non gli impedisce di ospitare una lunga serie di colpi di scena, senza che però i personaggi si trasformino in burattini privi della minima personalità.
Anzi, si tratta di personaggi complessi, che nei dialoghi si presentano in modo molto convenzionale, salvo poi rivelare gradualmente la propria natura man mano che l’intreccio si avvicina alla conclusione e la posta in gioco si fa più alta.
Il senso di mistero e di tragedia incombente che grava su di essi fin dalla prima pagina è un potente incentivo ad andare avanti per qualsiasi tipo di lettore: ed è proprio una constatazione del genere a esprimere meglio l’elevato livello qualitativo di questo romanzo.