Una vita di giorni impossibili

In un giorno impossibile del 1965, Willa di otto anni riceve una scatola misteriosa che contiene un barattolo d’acqua e le istruzioni: “Un oceano: seminare in giardino”. Lei lo fa e in qualche modo crea uno straordinario varco temporale che le permette di incontrare le Willa del futuro.

Un giorno impossibile del 1990, Willa ha trentatré anni, è madre di Eli e Seb, moglie di Sam, quando la sé della sua infanzia le appare magicamente in giardino, sotto l’albero di mango. Ma lei è anche una donna perseguitata dai ricordi del suo passato ed è sull’orlo di una decisione che avrà tragiche ripercussioni.

Un giorno impossibile del 2050, Willa è una novantatreenne dai capelli d’argento, che adora gli stivali di gomma e la cui memoria sta rapidamente svanendo. Eppure sa che c’è qualcosa che deve ricordare, un avvertimento che deve dare alle Willa più giovani riguardo un terribile evento del 1990. Se solo si ricordasse qual è. Riusciranno le tre Willa a incontrarsi per guarire il loro passato e salvare il loro futuro, prima che tutto si ripeta?

Capitolo Uno

 

2050
Willa Waters, 93 anni

Sghimbescio. Una parola per cui ho deciso di sviluppare una ve­ra passione durante la vecchiaia. Ho un taccuino nuovo che si intitola Cose di Cui Sono Sicura, che mi è stato spedito qualche giorno fa. La parola del giorno era scritta all’interno della copertina: (a) Sghimbescio (aggettivo): storto, sghembo.

Mentre arranchiamo giù per la Main Street di Boonah, con il cloppi­ti-cloppiti dei miei vecchi stivali di gomma alle caviglie, la badante mi restituisce il taccuino. «La tua vita va a scatafascio, Willa. Io sono quella che prova a tenerti in carreggiata!» Alza gli occhi al cielo. Il freddo in­vernale le fa diventare il naso rosso come il colore dei miei stivali e le sue parole sono nuvolette gelate mentre mi dice che “dovrei questo” e “dovrei quello”. Dovrei indossare scarpe adeguate per fare spese in città. Dovrei smettere di comprare altre cose. Chi è che l’ha nominata Sceriffo del Dovrei?

Tra l’altro, oggi sono in città per spedire due scatole molto importanti. Il biglietto incollato sopra dice così: DUE SCATOLE MOLTO IMPOR­TANTI, esattamente in questo modo, in strepitanti lettere maiuscole. Un pacco è indirizzato al 14 Seagrove Way, Boonah, 1965. La stessa casa in cui sono cresciuta e dove vivo ora. L’altro pacco dice 21 Graves Place, Brisbane North, 1990. Non sono sicura di chi viva là. Non sembra un posto piacevole, vero? (Graves in inglese significa tombe N.d.T.)

Pensare alle scatole mi fa tremare e sentire un po’ di nausea, così so di aver bisogno di nuovi stivali di gomma per tenermi attaccata al suolo. Se devo andare in missione all’ufficio postale mi serviranno piedi marini. La badante mi stringe il gomito mentre camminiamo lungo la strada. Le vecchie signore non hanno bisogno che gli si tenga stretto il gomito. Cosa credono, che ce la daremo a gambe con il deambulatore che sba­tacchia nel vento dietro di noi?

«Per la miseria, Willa, non è un’impresa coraggiosa. Stiamo riportando dei pacchi all’ufficio postale. Non ti servono dei nuovi stivali.»

«Santi numi! Che bisogno c’è di tirare in ballo la miseria, cara? Compra­re degli stivali non è mica una tragedia.»

La mia casa appartiene agli stivali di gomma: stivali da pioggia, galo­che, eskimesi, trombini, stivaletti, gambali. Diamine, hanno dei nomi così variegati. Sono gli amici che fanno le cose al posto mio, come mar­ciare coraggiosi attraverso la città quando in realtà sto trascinando i piedi. Nascondono i miei alluci artritici e rendono forti e sicure le mie caviglie, un reticolo di vene. Che straordinaria invenzione sono questi stivali di gomma.

La mia badante è… Com’è-Che-Si-Chiama. Come è che si chiama? Mi ricorda un gatto, sta sempre a soffiare e ad agitare la coda. Gatto. Gat­ti. Katie. Ecco il suo nome! Le chiedo se ho già un paio di stivali che hanno camminato sulla luna. Dice di no, e le spiego che è una buona cosa, perché gli stivali lunari devo ancora comprarli. Insomma, dico co­se come queste solo per iniziare una conversazione. Beh, io le chiamo conversazioni. Katie le chiama “interiezioni di follia”. Pazienza, dico io. Possiamo fermarci al bar per un teuccio?

Novantatré anni è quell’età che ha un potenziale infinito di scioccare e irritare la gente. Sono fantasticamente vecchia, abbastanza per indos­sare il rosso con il viola, i pois con le righe. Per dire qualsiasi cosa mi svolazzi per la testa e fingere di non avere la più vaga idea del perché la gente sbuffi e sospiri. Per aver bisogno di scarpe adeguate e invece comprarmi degli stivali di gomma gialli.

Mentre aspettiamo al bancone da Lublands, Katie mi chiede perché devo fare una cosa così insensata. Mi sono quasi dimenticata quale sia la cosa insensata che sto facendo. Mi guardo in giro, come faccio a volte per ricordarmi dove sono. Ah sì, gli stivali.

Le scarpe mi osservano dagli scaffali. Lublands è l’ultimo grande magazzino del suo genere che c’è nel paese, un po’ come me, rimasto piùo meno com’era quando Boonah è stata fondata. Le assi sconnesse del pavimento sorreggono file e file di scaffali stracolmi di jeans e cappelli di feltro. In estate, i ventilatori sul soffitto combattono una fiera battaglia contro le mosche e l’umidità, ma quando fa freddo il negozio è pieno che è un piacere. Giacche impermeabili Driza-Bone e camicie da lavoro R.M. Williams si ammassano in ogni angolo come comari di paese. C’è uno strano miscuglio di rotoli di tessuto e pelli di vacchetta. Pile di faz­zoletti ripiegati, bordati all’uncinetto, stanno vicino a calzettoni da uo­mo e tazze da tè. Se non lo vende Lublands, allora non si può comprare.

Un commesso, con la camicia abbottonata che gli strangola il collo os­suto, registra gli acquisti su un cimelio di cassa che richiede ancora di battere sui tasti.

«Fa parte anche questa dell’armamentario “Vecchia drogheria”?» lo canzona Katie.

Senza i miei occhiali da lettura la targhetta del commesso è tutta sfoca­ta. Immagino sia Levi o Jackson. Troppo giovane per essere un Bill o un Ronald. È Levi. Decido che è Levi.

«Tu lo sai perché voglio gli stivali, vero, Levi?» Mi appoggio pesante­mente al deambulatore.

Sembra valutare questo nuovo nome che gli ho appioppato. Un sorriso gli balena negli occhi, sicuro di sé ma amichevole, nonostante questa mezza matta che ha davanti.

Con espressione pressoché impassibile, informo entrambi che mi ser­vono gli stivali di gomma perché mi piace ammirarli ai miei piedi men­tre faccio jogging sotto la pioggia. Katie è dritta in piedi di fianco a me e si aggiusta il tesserino dell’uniforme.
Per capriccio, dico che prenderò anche le scarpe col tacco pitonate. Katie emette una mezza parola che suona tipo “acc”. La sua faccia sfu­ma verso il rosso e le sopracciglia si uniscono. Favoloso. Missione com­piuta.

Levi ride e mi allunga la mano perché possa stringergliela, cosa che fac­cio con vigore perché, accidenti, ci dovrebbe essere più gente come lui. Dico a Katie di mettermi gli stivali lunari gialli prima di uscire. «Intendi gli stivali di gomma?» chiede.
«Sì, quelli. E non metterla giù tanto dura se puoi, cara. Infilare degli sti­vali ai piedi di una vecchia signora non è proprio un gesto da Medaglia al Valore.»

Con un cenno del capo, Levi mi consegna la scatola con le scarpe pi-tonate e un’altra con dentro gli stivali vecchi. Da parte mia, mi avvio come una regina verso l’uscita, coi nuovi stivali gialli di gomma ai piedi, a testa alta. L’inno nazionale mi risuona nella testa, o lo farebbe se mi ricordassi le parole. In verità, le scatole sono appoggiate sul sedile del mio deambulatore e zoppichiamo fuori insieme.
Katie fa l’offesa, uno degli stati d’animo che predilige. «E comunque, perché continui a usare quel deambulatore? Adesso ci sono quei nuovi sostegni allo spostamento…»

Dei bambini ci sorpassano correndo, seguiti da un cucciolo di kelpie (cane da pastore australiano N.d.T.). Chiasso e polvere, spinte e strattoni. Ho sempre pensato che un gruppo di bambini si dovrebbe chiamare orda o accozzaglia. A quel pensiero mi fermo.

«Oggi vengono i ragazzi, Katie?»
Prova a farmi proseguire. «Mi chiamo Caty. Diminutivo di Caitlin. Si pronuncia Ca-ti o Ca-tlin. È irlandese, ricordi? E mi chiedi tutti i giorni di tuo figlio.»

«E tu dimmelo di nuovo.» Arranco dietro di lei, coi nuovi stivali che mi sciabordano attorno alle caviglie.

«Tuo figlio ormai è bello cresciuto» strilla Katie.

Le lancio un’occhiataccia. «Cosa? Di già? Ma allora, oggi vengono?» «Hai un solo figlio. E comunque no, oggi no.» Katie affretta le sue ade­guate scarpe nere in direzione dell’ufficio postale. Ci mettiamo in fila con i contadini che odorano di terra e di fieno appena tagliato. Ci sono dei bambinetti aggrappati a donne in jeans e stivali. Boonah può anche avere trattori che si guidano da soli e diavolerie robotiche, ma ha più o meno lo stesso odore di quando ero bambina. I coltivatori di carote continuano a coltivare. Il mondo ha ancora bisogno di verdure.

«Katie! Dimmi che vengono.»

Sposta il peso da un piede all’altro. «Ca-ti! E… non sta a me dirlo.» «Dimmelo!» Forse grido un pochino, perché Katie si interrompe, e così gli altri.

Mette a posto il collo della camicetta. Riparandosi con la mano sibila: «Con Eli non andate d’accordo, ti ricordi? Mi ha assunto e adesso è un bel po’ di tempo che mi prendo cura di te. Stiamo facendo gli scatoloni in modo da essere pronte per quando ci sarà posto nella casa di riposo.» Borbotta: «Prima è, meglio è» credendo che non la senta.

All’accenno alla casa di riposo, mi si rivolta lo stomaco. «Non mi met­terebbero mai in una Casa dalle Lenzuola-di-Plastica! E io ho due figli, Eli e Sebastian!»

«Si chiamano case di riposo e l’unico figlio di cui sono a conoscenza è Eli.» Siamo arrivate in cima alla fila adesso, così Katie non aggiunge altro.

Una signora dietro il bancone si acciglia quando Katie le consegna le etichette con l’indirizzo.

«Qualche giorno fa ci hanno consegnato due pacchi per errore. Qualcu­no li ha lasciati nel giardino e…»

«No, no.» Spingo più vicino il deambulatore. «Li dobbiamo spedire!» Katie parla sopra di me: «… uno degli indirizzi è sbagliato, e l’altro pac­co è probabilmente qualche scemenza che Willa ha di nuovo ordinato alla radio. Quella stupida presentatrice della radio, Marta, dovrebbe ri­spondere di molte cose. In ogni caso, siamo qui per restituirli. Ci sono due grossi scatoloni sul sedile posteriore della vecchia auto di Willa.» La signora dell’ufficio postale studia le etichette. «Boonah, 1965 e Bri­sbane, 1990, eh?» Poi mi fa l’occhiolino. «Le spediremo. Vuoi che dica a Gerald di tirarle fuori dalla macchina per te, tesoro?»

Prima che possiamo rispondere grida: «Gerald! Vieni qui e renditi uti­le.» Si gira verso di noi. «Me ne prenderò cura io. Oh, e Willa ha dell’altra posta.»

La signora dell’ufficio postale ci consegna una voluminosa busta gialla che Katie si infila nella borsa prima che possa chiedere.

Gerald fa capolino dietro l’angolo. Ha un aspetto unto e brufoloso, ma annuisce con approvazione agli stivali di gomma ai miei piedi. Katie gli spiega dov’è parcheggiata la mia macchina lungo la strada. Lo segue con passo pesante dicendo: «Il pezzo d’antiquariato. Modello 2019. La riconosci subito.»

Colgo frammenti di conversazione mentre cerco di stargli dietro. «E la sai guidare?» Gerald procede saltellando a fianco di Katie.

Fa un gesto sprezzante con la mano. «Mio nonno me l’ha insegnato tempo fa. Un talento del tutto inutile, pensavo, finché non sono stata assunta proprio a condizione che ne sapessi guidare una. Willa non si fida delle “diavolerie moderne”.»

«Aspetta. I ragazzi. Hai detto che non andiamo d’accordo? Sono sicura che io voglio andarci d’accordo. Katie?»

Si volta ad aspettarmi. Quando la raggiungo mi mette una mano riso­luta sulla schiena. «Davvero vuoi saperlo? Va bene! Eli mi ha detto che tu sei stata assente per la maggior parte della sua vita. Da quanto ho capito, è da poco tornato dagli Stati Uniti per occuparsi delle tue cose e cercare di metterti in quella casa di riposo.»

«Smetti di dire casa di riposo! Ho i brividabadibidi!»

«Il termine “brividabadibidi” è morto intorno all’anno 2000!» Stringo le labbra e batto un piede stivalgommato.

«Sto cercando di trovare qualcosa di sarcastico da risponderti, Katie. Ma alla mia età può volerci un po’ e non ho tempo. Pensaci da sola e fai finta che te l’abbia detto io.»

Fa l’offesa fino a quando superiamo il MacBean’s Diner, dove i clienti mangiano patatine unte e spruzzano salse sopra tortini di piselli mol­licci e ci guardano passare. Perché è questo che fai nei paesi, guardi quelli che passano. Boonah è piena di perdigiorno, una famiglia allar­gata che bighellona tutta insieme. Mi immagino il passaparola su di me che attraverso High Street, da Organic Foods a Franny’s Florist. Il ma­cellaio, il panettiere e quello che frigge patatine si scambiano una risa­tina di cinque minuti e un distratto: «Che mi dici della signora Willa Waters? Quella rincoglionita con gli stivali di gomma è di nuovo in città.» Probabilmente non dicono la parte della rincoglionita. Probabilmente non parlano di me affatto. Il che è un peccato. Pensavo che un giorno sarei stata un valido argomento di conversazione.

Individuo una panchina di legno e quasi riesco ad allungarmici sopra per una sosta quando Katie mi aggancia con fermezza un braccio attor­no alla vita e mi fa fare gli ultimi passi fino alla macchina.

Sta ancora sbuffando quando Gerald prende dal sedile una delle sca­tole fradice.

Fa un fischio sommesso. «Ma guarda ’sta macchina! Credo che mio nonno ne avesse una. Non ne vedi più molte così.» Si accorge di una targhetta appesa allo specchietto retrovisore. «Permesso speciale ecce­tera?»

Katie annuisce. «A Boonah te la lasciano portare in città solo nel we­ekend. Solo strade secondarie. Niente statali. Meglio esporle nei musei, se posso dire la mia.»

Gerald dà un calcio alla ruota. «Pensa un po’ questi pneumatici di gom­ma. E quello è un cambio manuale?» Tiene la scatola in equilibrio sul fianco e guarda dentro dalla portiera del passeggero.

«Ridicola, ecco cos’è. Ecco, prendi l’altra scatola.» Katie strappa via l’an­notazione che dice che sono Molto Importanti.

«Non pesano molto» dice lui, reggendole sulle braccia.

Poi la cosa più strana. Una folata di brezza marina soffia, là fuori, nel mezzo di una cittadina circondata da recinti e colline. Entrambe le sca­tole gocciolano dagli spigoli e quando le gocce toccano il marciapiede si trasformano in sabbia, ma né Katie né Gerald sembrano accorgerse­ne. C’è un’etichetta delle dimensioni di una cartolina sopra ciascuna delle due, e io so che c’è scritto: Un oceano: seminare in giardino.

Mentre mi fermo ad assaporare l’aria salmastra, una bambina cammi­na verso di me. Indica i miei stivali di gomma e fa alla madre una do­manda che non riesco a sentire. La saluto con la mano, e anche lei mi saluta. La bambina mi ricorda qualcuno, e mi fermo. Dunque, qual era il suo nome? Super… Willa qualcosa. Mmh. Oh, lo so io… Super Willa con gli Stivali! Da dietro la gonna di sua madre salta fuori una bambina

più piccola. Una sorella? Sorella è una parola dolorosa.

Mentre guardo la più grande un panico improvviso mi assale. «Si è per­duta! Katie, vedi quella bambina? Dobbiamo aiutarla!»

Katie mi ignora.

Non so perché dico che Super Willa con gli Stivali si è persa, quando è proprio davanti a me, ma c’è un forte strappo nella mia memoria. Io e questa bambina ci siamo già incontrate, ne sono certa. Guardo i suoi stivali di gomma, provando a mettere insieme i pezzi. Tiro fuori dalla tasca il mio nuovo taccuino e giro le pagine, cercando di trovare il suo nome.

Prima di riuscirci, la madre della bambina trascina via lei e la sorellina e sono andate, scomparse, come se non ci fossero mai state. La brezza marina svanisce con loro.

«Dov’è stata trovata questa scatola?» chiedo, ma nessuno risponde. «Dove?» Pianto gli stivali nella sabbia. Mio Dio, c’è molta più sabbia di prima!

Katie mi prende il braccio. «Suvvia. Non ti arrabbiare. I giardinieri han­no trovato le scatole sotto l’albero di mango in giardino, mentre falcia­vano l’erba qualche giorno fa.»

«Sono due Scatole Molto Importanti. Le spediremo?»

«Non c’è bisogno di gridare. Sì, le rimanderemo indietro.» Katie cerca di tirarmi verso la portiera della macchina.

Gerald si allontana con le scatole.

«Aspetta! Credo che mi servano.»

È già a metà della strada. Sfoglio nuovamente il taccuino. Cose di Cui Sono Sicura. Sì, ecco qua.

1. Spedire due Scatole Molto Importanti il 1° giugno 2050.

«Che ore sono, Katie?»

«È ora di salire in macchina.»

«No, intendo la data.» Pianto gli stivali di nuovo. Sapevo che sarebbero stati un buon investimento.

«Uh. Senti, vieni qua, più vicino alla macchina. Metti via il taccuino. Stai attenta al deambulatore. Stai attenta… Lascia che. Solo. Vuoi per favore…»

«Daaaataaa!»

«Primo giugno del 2050, che Dio mi aiuti!»

L’ho fatto, quindi. Le ho spedite. Katie si arrabbia fino a sbuffare un bel po’ a fianco della macchina, dove finge di aiutarmi a salire e io fingo di non avere bisogno di aiuto. Che delizia, fare l’offesa.

Tiziana Zita

Tiziana Zita

Se prendessi tutte le parole che ho scritto e le mettessi in fila l'una dopo l'altra, avrei fatto il giro del mondo.

12 commenti

  1. L’ autrice sembra padroneggiare con sicurezza un plot fantastico e – forse – distopico proiettando la vicenda in un futuro prossimo assolutamente plausibile e, almeno per quanto emerge dal primo capitolo, affine al nostro presente: gli uffici postali esistono ancora e per le strade non si aggirano androidi di ultima generazione…”macchine come Klara”. Vivaci e intriganti la dolce, tenace, ironica, smarrita Willa e il suo spiazzante, personalissimo lessico. Promettente.

  2. Un inizio che promette divertimento, fantasia e creatività… molto interessante! Willa è un personaggio di quelli che rimangono in mente a lungo.

  3. Speriamo che nello scorrere del libro Willa ci avvicini al mondo magico.
    Più ce ne allontaniamo e più diventiamo tristi e noiosi.

  4. Adoro i time travel anche se con i paradossi temporali si arriva sempre ad un certo punto in cui i conti non tornano. Non ho capito se il pitch iniziale faccia parte del libro o se l’autrice l’ha aggiunto per darci l’idea della storia. Senza, effettivamente, il Primo Capitolo sarebbe un po’ interlocutorio, non molto chiaro da seguire. Tuttavia una cosa è certa: la Willa novantenne è davvero tanto tanto simpatica

  5. Sono innamorata di Willa, la novantatreenne dai capelli d’argento. La “vedo” come fosse una vecchia amica… non mi addentro in osservazioni di “critica letteraria”, ma mi seduce la capacità dell’autrice di essere riuscita, almeno per quel che mi riguarda, a definire in maniera così delicata e misteriosa questo personaggio. Voglio proprio capire dove la porteranno i suoi stivali di gomma… e anche scoprire le “altre” Willa.

  6. Come saremo nel futuro? Come giudicheremo noi stessi a distanza di anni? Cosa succederebbe se avessimo la possibilità di tornare indietro ed incontrarci? La nota dinamica dello “sliding doors” è sempre affascinante, ma la cosa che mi intriga di più è capire se la Willa anziana uscirà effettivamente come la vera protagonista, magari sfatando il mito della giovinezza a tutti i costi.

  7. Inizio molto promettente e divertente,raccontato in maniera ironica! la vecchietta smemoranda prelude ad un racconto che descriverà 3 donne diverse in tre fasi della loro vita; un filo le tiene legate ,un avvenimento importante che ha segnato per sempre il loro destino

  8. Si intuisce che la storia fa riferimento ai traumi infantili e ai conflitti interiori che ne derivano, agli effetti più o meno collaterali portati avanti nel tempo e, comunque, alla possibilità di guarirne e di arrivare alla loro risoluzione.
    La narrazione adottata dall’autrice è di tipo stravagante ed eccentrico, una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie applicata alla magia delle sovrapposizioni temporali, dove prima incontriamo una Willa bambina piena di energia e di speranze, poi una Willa di mezza età, madre e moglie, sull’orlo di una crisi di nervi, e infine una Willa di novantatre anni, con gli stivali di gomma ai piedi, in preda all’irrazionalità di una demenza senile paradossalmente molto razionale. Riusciranno le tre Willa a curare il loro passato e salvaguardare il loro futuro prima che sia troppo tardi?
    Interessante! Da scoprire…

  9. La premessa e la descrizione dei personaggi sono vivaci e intriganti, la voce della vecchia Willa riecheggia di un tratto deliziosamente infantile che indica un legame con le bambine, le sue sé del passato…Un ottimo inizio che invoglia senz’altro a proseguire la lettura!

  10. Bellissima l’idea di creare un personaggio, la novantenne Willa, proiettato in un futuro lontano da noi e ancora non prevedibile . Immagino che la protagonista ripercorri la sua vita , i suoi ricordi , i momenti più significativi della sua crescita. Un tale soggetto poteva essere raccontato con i toni della verosimiglianza , l’ autrice ha scelto invece un umorismo un po’ caricaturale che non prediligo. Ritengo anche che questo incipit disorienti un po’ il lettore ,che deve rincorrere la figura di Willa resa volutamente poco realistica.

  11. Willa, una anziana signora vive la sua realtà. Incomincia ad avere piccole lagune che non la arrendono. Mi sento molto identificata con essa. Ho settantanove anni e lotto per poter continuare ad abitare sola. Ha i suoi rischi, l’artrosi come per Willa è un impedimento importante, ascoltare le scocciature che hanno chi ti circonda non è bello; però non si può mollare se si vuole essere independenti per un po’ più di tempo.
    Il racconto è quasi comico, simpatico; penso che nei prossimi capitoli ci darà filo da torcere. Incantevole.

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