Un anno di libri di un lettore onnivoro

Non sono uno scrittore, ma mi capita spesso di scrivere. Appunti, saggi, lettere e mail, schede, post.  Questo è il libro che avrei voluto incontrare da ragazzo per mettere un freno a una scrittura intemperante, piena di aggettivi, avverbi, sottolineature, incisi, virgolette, puntini. Volevo farci star dentro tutto e rincorrevo una precisione frutto di insicurezza e ispirata a cattivi modelli.

Come non scrivere
Claudio Giunta, 2018
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Come non scrivere contiene i fondamentali della scrittura, relativi alla cosiddetta ‘scrittura argomentativa’ (relazioni, temi, tesi, articoli), che tuttavia non farebbero male anche ad alcuni creativi candidati allo Strega…

Il suo insegnamento in uno slogan, potrebbe essere “Bello è breve e chiaro”. Sono questi i cardini di qualsiasi testo, scritto per necessità o per piacere, che voglia anche essere letto. Saper scrivere significa anzitutto avere il coraggio di togliere più che di aggiungere. Quello che puoi dire in venti righe, non dirlo in trenta, ma neanche in ventuno.
Scrivere non è dettagliare, precisare, duplicare, inzeppare. È essere lineari e semplici. È trovare le parole giuste.
Anche la chiarezza, è all’insegna della sottrazione: via tortuosità, parole ampollose, infiocchettature, periodi interminabili, insomma tutto quello che inquina la limpidezza del discorso.

Il libro di Giunta è una miniera di esempi concreti, soprattutto di cattiva scrittura. Sono presi dal linguaggio contorto delle varie burocrazie (lì si gioca facile), ma anche dalla prosa di penne famose. L’autore li corregge e li trasforma sotto i nostri occhi, restituendo loro la leggibilità, primo requisito di ogni testo.

Dimenticavo di dire che Come non scrivere è anche un libro molto divertente e per nulla scolastico. Lo si capisce fin dall’inizio quando l’autore declina le “tre leggi da tenere a mente, ogni volta che si prende la penna in mano, o si comincia a digitare sulla tastiera”.
E sono le leggi di Borg (sì, il tennista), di Silvio Dante (personaggio dei Sopranos) e di Catone (beh, qui torniamo alla classicità). Ma per conoscerle, bisogna leggere il libro…

Il tempo di vivere con te
Giuseppe Culicchia, 2021
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“Perdonami, Walter, se ci ho messo così tanto. Trenta libri, e più di quarant’anni. È per raccontare la tua storia che ho cominciato a scrivere, il giorno dopo la tua morte. È per questo che ho continuato a farlo in tutto questo tempo. Eccolo qua, il primo libro che avrei voluto scrivere. Ma avevo appena undici anni, facevo la prima media, e anche se dalle elementari i miei temi venivano letti in classe da maestre e professori di lettere, non ne ero capace. Ne sarò capace, ora?”.

Mi ha molto colpito questo libro, che ripercorre dall’interno la breve vita, conclusasi tragicamente, del brigatista rosso Walter Alasia, diventato a suo tempo famoso anche perché a lui fu intitolata una colonna delle BR. Walter Alasia, vent’anni, fu ucciso dalla polizia, la mattina del 15 dicembre 1976, dopo che aveva colpito a morte due dei poliziotti, venuti a cercarlo nella casa dove abitava con i genitori a Sesto San Giovanni.

Il tempo di vivere con te non è una biografia, né un’inchiesta giornalistica. È un doloroso memoir nel quale Giuseppe Culicchia, cugino dello stesso Walter e oggi affermato scrittore, ha sentito il bisogno di raccontare, a più di quarant’anni di distanza, chi è stato per lui Walter. Di nove anni più grande, idolo della sua infanzia e suo mentore, più che un cugino era il fratello che non aveva.

Ma ricordare, per Culicchia, è anche interrogarsi sulla scelta di Walter. Rileggere quegli anni – gli “anni di piombo – da un punto di vista inusuale: attraverso gli occhi di un ragazzo che si apriva alla vita. Che cosa è scattato nella mente e nel cuore di Walter per portarlo a una scelta così radicale? Culicchia non ha risposte, ma trova il tono giusto, rivolgendosi direttamente a Walter in un colloquio intimo nel quale l’affetto non diventa mai giustificazione.
Da leggere senza pregiudizi ideologici.

Sanguina ancora
Paolo Nori, 2021
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L’incredibile vita di Fedor M. Dostoevskij recita il sottotitolo. Ora, se conoscete Paolo Nori, non vi aspetterete certo una biografia tradizionale. C’è di più.  Non è immodesto l’autore quando in copertina appone sotto il titolo la dicitura “romanzo”, perché, pur essendo una biografia molto documentata, in realtà Sanguina ancora lo si legge come un romanzo pieno di cose strabilianti. Sempre sul filo della “coglionaggine”, come la chiama lui. Nori è uno che ti stupisce ad ogni frase, capace di mantenere l’equilibrio anche laddove pensi che cadrà.

La sua voce è inconfondibile: un impasto di acutezza e di terra-terra, dal quale trae fuori la vera anima del personaggio. Se ci entri, non ti stacchi più. E ci sarebbe da dire ancora della sua capacità di parlare del “male di vivere” con levità impareggiabile, nutrita di tocchi di umorismo surreale e toni sommessi. Sempre con l’aria di uno che passeggia per strada con un amico, raccontandogli dell’ultimo libro letto. Ma questo è un po’ il marchio di fabbrica di Nori: una riproposizione del parlato, che in realtà è molto costruito ma mai letterario nel senso deteriore del termine.

«Ecco, io, quando sono seduto, da qualsiasi parte, a leggere un libro lunghissimo scritto in Russia centosessanta anni fa, ho l’impressione che non rimpiangerò il tempo che sto passando, ma magari mi sbaglio».

Nostra Signora degli eretici
Alberto Maggi, 2016
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Non è un testo devozionale sulla Madonna. Caso mai proprio il contrario. Infatti fa piazza pulita di tutto il “ciarpame” che si è addensato sulla figura di Maria di Nazareth, “inquinata nei secoli da una pioggia di pseudo-apparizioni”. Diventata “portabandiera di rivendicazioni oscurantiste e antievangeliche”, ridotta a “un’icona solo da venerare”.

Ma non è neanche un’impossibile ‘vita’ di Maria. È un’indagine, documentatissima, sulla sua persona condotta a partire da uno studio delle fonti (la Scrittura e i Padri della Chiesa, ma anche il Talmud e gli scritti rabbinici) e insieme dalla letteratura e dai documenti dell’epoca.

L’autore, biblista e teologo, mette in discussione proprio quell’immagine stereotipata, che si è andata stratificando nel corso dei secoli e ci restituisce una donna vera, immersa nella realtà storica, culturale e religiosa del suo tempo. Ci racconta come si svolgeva la sua vita nel mondo ebraico di duemila anni fa, quando la donna era considerata meno di niente.

Ci racconta come era vista dai suoi compaesani, come affrontava problemi e situazioni familiari, compreso il difficile rapporto con un figlio così, diciamo, “particolare”. E anche «l’enorme scandalo che, per una persona religiosa dell’epoca», rappresentava una figura come la sua. Non è un libro facile, e per certi aspetti è duro e doloroso, ma può interessare anche chi non è credente.

Osservazione fuori tema! La copertina del libro (particolare da Maria e Elisabetta) mi ha fatto scoprire una pittrice, che mi piace segnalare: Dorothy Webster Hawksley (Londra, 1884–1970), “artista di talento ma enigmatica, che è rimasta indipendente da qualsiasi movimento artistico mainstream” la definisce Susannah Walker, curator al British Museum.

Qualche romanzo…

Casa. Marilynne RobinsonMi rendo conto a questo punto che nella mia lista di suggerimenti non c’è neanche un romanzo. In realtà, la lista di partenza comprendeva un paio di altri titoli. Ma di Klara e il sole di Kazuo Ishiguro ha parlato su queste pagine in termini così precisi Marco Camerini, che ho poco da aggiungere. Quello che mi ha colpito di più di Klara – che è la voce narrante, è importante ricordarlo – è la sua nostalgia dell’umano, che paradossalmente risveglia e fa vibrare quello che a volte, noi umani, non sappiamo più riconoscere. Non lasciarmi è senz’altro un gradino sopra, ma è difficile restare insensibili alla dolcezza e alla fame di emozioni di Klara.

Quanto al secondo titolo, Casa (2008) di Marilynne Robinson, trattandosi del secondo libro di una quadrilogia, rimando a quanto ho scritto a proposito del primo, Gilead.
I romanzi nella mia lista ci sono, eccome, solo che vengono da quella terra straniera che è il passato. E non mi sono sentito di metterli in diretta competizione con quelli oggi. È successo che una provvida rilettura dei Promessi sposi abbia inaspettatamente risvegliato in me la voglia di ricuperare tanti classici persi per strada.

Anzitutto Le confessioni di un italiano (1867, postumo) di Ippolito Nievo, che vince la palma del miglior libro da me letto nel corso dell’ultimo anno (e anche del più lungo, intorno alle 900 pagine), nonostante nella seconda parte accusi qualche debolezza di struttura e di scrittura. In stellette sarebbe ****½!
Sono convinto che se l’autore, morto a 30 anni in un naufragio, avesse potuto farne una revisione, Le confessioni di un italiano potrebbe competere con I promessi sposi (sì, ormai l’ho detto!).

Le terre del Sacramento (1950) di Francesco Jovine l’ho iniziato con scarsa convinzione e poi via via sono stato trascinato dentro dalla storia e da una scrittura che attinge alle risorse del barocco meridionale, senza tuttavia mai lasciarsene avviluppare totalmente. Personaggi ben scolpiti che alimentano l’immaginazione e restano nella memoria. Davvero una bella scoperta, propiziata da uno sponsor entusiasta, Goffredo Fofi.

Su Casa d’altri (1953) di Silvio D’Arzo, morto a 32 anni l’anno prima che il libro venisse pubblicato, vale ancora la definizione di Montale, “un racconto perfetto”. Finalmente l’ho letto dopo averne sentito parlare da sempre (qui trovi la nostra recensione).
Il mitico, e scandaloso, Il mare non bagna Napoli (1953) di Anna Maria Ortese, conserva ancora oggi tutta la sua rabbia consumata in una scrittura febbrile, frutto – secondo l’autrice stessa – di una nevrosi.

“Quanto a me, non potevo guardare la realtà se non in quell’alone fra viola e nero, sotto il riflesso di un sole malato”.

Al di là del valore letterario, è senza dubbio un libro di denuncia, ma che fosse “contro Napoli” oggi è un po’ più difficile sostenerlo.

Un cuore arido (1961) di Carlo Cassola, scrittore che ho amato in tempi non sospetti, quando era sbeffeggiato come la novella Liala, è “forse il romanzo di Cassola più bello e importante”, scrive Anna Bravo nella bellissima introduzione all’edizione Oscar, “non una parola mancata né sprecata”. Con l’occasione ho riletto anche La ragazza di Bube, anzi l’ho ascoltato dalla voce appropriata di Alessandro Benvenuti, conterraneo dei protagonisti Mara e Bube.

Infine, più vicino a noi, segnalo Notturno indiano (1983) con le sue imprendibili ombre orientali che popolano oniricamente l’insonnia dell’io narrante, naufrago più che viaggiatore. Antonio Tabucchi, per me sempre una garanzia.

E una poesia…

In chiusura, permettetemi di proporre un’esperienza di poesia.
Prendete il libro di Emilio Rentocchini, forse il più grande poeta dialettale vivente, Lingua madre (2016), e apritelo a una pagina qualsiasi. Leggete. Leggete anche a voce alta, nel dialetto emiliano. Non importa se non siete di lì (il poeta è nato a Sassuolo). Cercate di sentire il suono. Naturalmente poi leggete anche la traduzione e quindi tornate a leggere un’altra volta l’originale. Sono tutte ottave. Rentocchini è uno specialista di questo metro. Il libro ne contiene 256, una per pagina, in originale e poi nella traduzione.

Eccone una pagina e anche il link per sentire l’emilian sound dalla voce dello stesso autore.

Rentocchini in tre aggettivi: metafisico, denso e spiritoso.

La piopa dal caser, seinsa perchè,
l’am spiéga la mê storia in na vinteda.
Setta la piopa a nécchia quell ch’a gh’è,
aria pulvreinta e paia dla careda
ch’la suga incô al paciugh d’eter méll dè
nasû de sfrus, per n’ostia, dmand n’ungeda
in la mê testa areda da l’etê.
Po’, deintr a cal frufrù, la veritê.

Il pioppo del casaro, senza un perché,
mi spiega la mia storia in una ventata.
Sotto il pioppo latita quel che c’è,
aria polverosa e paglia della carraia
che oggi assorbe la poltiglia di mille altri giorni
nati di frodo, per nulla, come un’unghiata
nella mia testa arata dall’età.
Poi, dentro quel fruscio, la verità.

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Cesare Biarese

Cesare Biarese

Ho lavorato alla Rai e a Mediaset come editor di serie tv. Ho scritto un paio di libri (su Zurlini e Antonioni). Oggi leggo guardo scrivo, a volte medito. E mi dedico a un grande archivio di cinema e visual media.

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