“Possibile che delle banalissime parole, scelte in un certo modo, messe in un certo ordine, siano capaci di cambiarti la vita?”
Alice Basso è una scrittrice straordinaria, capace di creare personaggi interessantissimi, sfaccettati e intelligenti, raccontando le loro avventure con ironia e leggerezza. Il tutto su uno sfondo di citazioni letterarie che non ti fanno mai annoiare.
Si dice che non si debba giudicare un libro dalla copertina, eppure io sono stata catturata da quella de Il morso della vipera, primo volume della sua seconda serie, rimanendone totalmente soggiogata, al punto che ho divorato in due giorni anche il secondo volume.
La serie con Vani Sarca
Avendo esaurito la seconda serie (per ora composta da soli due volumi) e ormai nell’impossibilità di rimanere senza la scrittura arguta e vivace di Alice Basso, sono andata a leggere anche i 7 libri (5 ufficiali più 2 extra) della prima, aventi come protagonista la ghostwriter Vani Sarca, ovvero la saga con cui ha esordito e che l’ha consacrata.
Vani Sarca è una torinese DOC, un po’ sociopatica, vestita come la sorella dark di Edward mani di forbice, che ha una dote singolare: è capace di entrare empaticamente in sintonia con le persone, riuscendo quasi a leggere nella loro mente. Vani odia interagire con il mondo e se ne starebbe sempre rintanata in casa a leggere, mangiando patatine al formaggio e bevendo birra scura. Perciò il lavoro della ghostwriter sembra fatto apposta per lei.
Anche perché, se è vero che non vuole avere a che fare con le persone e parla il meno possibile, in compenso scrive meravigliosamente. Scrivere le viene naturale come respirare. Si tratti del saggio di un neurochirurgo, o del romanzo di un talentuoso autore con il blocco dello scrittore, Vani riesce a produrre tutto ciò che il suo direttore le chiede.
Finché, per una serie di coincidenze si ritrova in mezzo a un’indagine poliziesca e, grazie a una notevole faccia tosta, unita all’empatia di cui sopra, aiuta il commissario Berganza a risolvere il caso.
Scopre così che entrare nella testa delle persone – non solo per scrivere un libro, ma anche per risolvere indagini e rimettere a posto situazioni – le piace e la fa stare bene. Così, a poco a poco, inizia a capire sé stessa e ad aprirsi alle relazioni con gli altri, per quanto pochi e molto selezionati.
Nei 5 romanzi di Vani Sarca, Alice Basso si diverte a costruire una protagonista sarcastica, irriverente, colta. La serie è strapiena di citazioni letterarie, il che è ovvio visto il lavoro che fa Vani e visto che la sua occupazione principale, quando non scrive, è leggere.
L’intera serie è ambientata a Torino che è raccontata in maniera talmente vivida e particolareggiata, da diventare parte integrante della storia. Non solo grazie alla descrizione degli ambienti, ma proprio narrando le peculiarità di vita e i costumi dei torinesi, Alice Basso ci fa immergere nell’atmosfera della città.
La serie con Anita Bo
Ma torniamo al punto alla seconda serie, quella con cui io ho cominciato, e alla nuova meravigliosa protagonista di Alice Basso.
Anita Bo è una bellissima ragazza di venti anni, nella Torino del 1935. Aiuta i genitori nella tabaccheria di famiglia e, come per tutte le ragazze dell’epoca, la società si aspetta da lei solo una cosa. Che si sposi e che faccia dei figli. Meglio se tanti.
Il suo fidanzato, Corrado, bello, simpatico, innamorato, benestante, ne ha in programma nientedimeno che sei! Anita vuole sposarsi, ma sei figli le sembrano tanti. Allora, cogliendo tutti di sorpresa, dichiara che sì, lo sposerà, ma prima vuole lavorare.
In questo modo, lei che a scuola non era mai andata un granché bene e che con i libri ha sempre avuto poco a che fare, grazie a un po’ di astuzia e molta faccia tosta, si ritrova a lavorare come dattilografa per Saturnalia, una rivista che traduce e pubblica racconti pulp americani, i primi hard boiled, gli autori che all’epoca andavano per la maggiore, come Raymond Chandler con il suo Philip Marlowe.
A furia di ascoltare e leggere, Anita capisce che la letteratura e le parole non sono poi male, che aprono la mente e che, con le dovute cautele, posso anche veicolare dei messaggi che, alla luce del sole nel 1935, sarebbe meglio non far trapelare.
Ciononostante, insieme al suo capo Sebastiano, si lascia coinvolgere in situazioni pericolose ma che la fanno sentire, finalmente, viva.
Nel 1935 il fascismo era già bello radicato ma, come spiega Alice Basso nella sua postfazione al primo libro (deliziosa quanto il romanzo stesso), non era ancora ben chiaro a tutti cosa sarebbe diventato. La cappa di oppressione ancora non era così consolidata, anche se comunque bisognava mostrare di essere d’accordo.
Alice Basso usa la storia di Anita per aprire uno squarcio su dei temi super affascinanti dell’epoca. Tra tutti quello assolutamente poco noto dell’avversione di Mussolini per il genere “giallo”, che invece iniziava ad avere successo in America e nel resto d’Europa.
Di libri con protagonista Anita Bo, Alice Basso per ora ne ha scritti due: Il morso della vipera e Il grido della rosa. Il terzo uscirà nella primavera del 2022 e anche questa sarà una serie di cinque. La linea orizzontale è davvero affascinante, perché all’evoluzione personale di Anita si affianca lo studio e il racconto del contesto sociale e storico della Torino dell’epoca, che la rende davvero imperdibile.
I dialoghi sono sempre divertenti e pieni di ironia, e anche in questo caso i romanzi sono pieni di citazioni letterarie che rimandano ad altri autori in un continuo gioco di scatole cinesi.
Leggendo i libri di Alice Basso si vede che lei la scrittura la ama proprio. Le piace giocare con le parole, con i significati, con i racconti. Come mi è già capitato con altri scrittori (vedi qui e qui), mi è venuta voglia di soddisfare la mia curiosità su alcuni punti della sua narrazione, chiedendo direttamente all’autrice. Ecco qui la nostra breve chiacchierata.
Breve intervista ad Alice Basso
Simona
Sei passata da Vani ad Anita con maestria davvero notevole. Le due protagoniste sono come il giorno e la notte, però hanno entrambe un grande intuito investigativo. Vani ce l’ha per dote naturale, grazie all’empatia. Anita deve fare la scemetta perché questo prevede per lei il Ventennio. Ma in realtà, già da come si fa assumere, si capisce che non è seconda a nessuno in termini di arguzia e intuizione. Come ti vengono gli spunti investigativi e la relativa soluzione? Hai anche tu doti da Sherlock nascoste? Voglio dire, puoi avere tutti i consulenti del mondo, ma la storia e gli indizi li crei tu, da dove prendi spunto?
Alice
Oh, QUANTO mi piacerebbe poterti dire che io sono la Grande Fonte di tutti gli Intuiti, la cornucopia della sagacia e dell’istinto investigativo che infondo alle mie protagoniste e blablabla. La verità è che io sono una delle persone più distratte e con la testa fra le nuvole sulla faccia della Terra. Non mi accorgo di niente. Però per Vani ed Anita mi viene in aiuto l’artificio letterario: è molto più semplice fingere di conoscere i raffinati meccanismi dell’intuito umano, se si è anche l’autore del giallo, la persona che si è inventata il mistero e ne conosce la soluzione!
Simona
La struttura narrativa è cinematograficamente perfetta, sia come linea orizzontale (il rapporto tra Vani e il commissario, come quello tra Anita e Sebastiano) così come lo sono le linee verticali, ovvero le trame dei singoli romanzi. Hai già in mente tutti e cinque i romanzi di Anita, come li avevi per Vani? O aspetti l’ispirazione davanti alla fantomatica pagina bianca?
Alice
Ah, qui posso rassicurarti. Quando si tratta di organizzare scalette e strutturare storie mi trasformo in una metodica geometra. Certo che ho in mente tutti e cinque i romanzi di Anita. Proprio come a suo tempo è successo con Vani, ho subito progettato l’intera serie come fosse un macro-romanzo, per poi scendere sempre più nel dettaglio e compilare scalette via via più specifiche, libro per libro, addirittura capitolo per capitolo.
Lo so, suona molto poco romantico, ma è un metodo utilissimo, perché ti permette di smazzarti a monte tutte le rotture di scatole della trama, le possibili incoerenze, i problemi di consequenzialità ecc. ecc., nonché di bilanciare bene le parti della storia, alternare scene d’azione e scene più riflessive, scene di suspense e scene di umorismo, far apparire in maniera equilibrata tutti i personaggi e così via. Dopodiché non ti resta che divertirti a scrivere. Senza più dilemmi, grattacapi, nulla che non sia il gusto di cercare il modo più piacevole di dire quello che hai già stabilito che vuoi dire. Quindi, in realtà, questo metodo apparentemente impiegatizio è proprio quello che mi permette di più di mantenere sempre vivi il divertimento, l’entusiasmo e il gusto dello scrivere in sé.
Simona
Le ambientazioni di Anita sono super particolareggiate, è per questo che ci vuole un anno tra una storia e l’altra? Al di là della postfazione che leggo volentieri tanto quanto il libro, mi incuriosisce molto la tua ricerca storiografica. Come trovi le fonti? Immagino che la faccenda sia un po’ più complessa di una richiesta a Google e che si tratti di una specie di gioco di scatole cinesi. Io mi ci perderei tipo la particella di sodio dell’acqua Lete.
Alice
Perché, io no? Tu non hai idea di quanto tempo io perda rincorrendo idee concatenate, spunti che si collegano e si trascinano dietro spunti fratelli in una catena di cose che approfondiresti ad libitum. Vai su Wikipedia credendo di voler solo verificare la data di nascita di Pietro il Grande, ne riemergi dopo sei ore, dopo essere finita sulla pagina delle Octopodidae senza più ricostruire il come e il perché…
D’altro canto la serie di Anita è nata proprio così, sai? Quando per la prima volta ho avuto l’idea di mandare una dattilografa a lavorare per un giallista nel Ventennio, nella mia testa c’è stato come un Big Bang ed è esploso tutto un universo di spunti, scenari, questioni e possibilità da approfondire. La tipica parabola delle ragazze che si emancipavano grazie al mestiere di dattilografa, è diventata la storia della condizione femminile tout court, la quale a sua volta ha aperto gli scenari delle case di tolleranza e dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia.
E intanto l’ambientazione torinese ha “chiamato” la descrizione dei singoli quartieri, l’impatto urbano dell’industria, ma anche del cinema!, perché Torino aveva appena smesso in quegli anni di essere la capitale del cinema italiano (a questo sarà dedicato tutto il terzo libro, infatti)… E così, be’, ecco: ti pare che potesse bastare un libro solo? Una serie di cinque era il minimo!
Gastronomicamente parlando…
Torino e il Piemonte hanno una lista di bontà infinita, dalla bagna cauda ai tajarin, dagli agnolotti ai tartufi, per non parlare dei vini.
Ma Torino è anche la patria del cioccolato e quindi vi racconto di un dolce al cucchiaio buonissimo, facente parte della grande famiglia delle Crème caramel, che è quanto di più torinese ci sia in giro: il Bonèt.
Bonèt in dialetto significa cappello, nello specifico un cappello tradizionale che si usava nelle campagne. E poiché questo dolce era servito a fine pasto, nonché cotto nel forno spento dopo aver cucinato tutto il resto, era praticamente il “cappello”, il gran finale dei pranzi di festa.
Come tutti i dolci semplici, di famiglia, ha mille mila varianti. Io vi passo quella tradizionale di una mia cara amica.
Bonet
(vi servirà uno stampo da budino)
500 ml di latte fresco intero,
300 gr di zucchero,
120 gr di amaretti secchi,
70 gr di cacao,
5 uova,
5 cl di rum,
75 gr di zucchero per caramellare
Frullate nel mixer gli amaretti, conservandone qualcuno per la decorazione finale, e mettete la polvere da parte.
Montate insieme le uova con lo zucchero, fino a ottenere un composto bianco e cremoso. Aggiungete quindi la polvere di amaretti, il cacao setacciato, il rum e, da ultimo il latte a filo, mescolando per non far formare grumi.
Accendete il forno a 150° in modalità statica e, mentre si scalda, preparate il caramello in un pentolino, scaldando lo zucchero con due cucchiai d’acqua. Fate bollire il composto per qualche minuto senza mescolarlo poi, stando molto attenti perché scotta da morire, rivestite lo stampo del bonet.
Caramellate lo stampo del Bonet con il caramello caldo, lasciatelo raffreddare per qualche istante e poi versateci sopra il composto.
La cottura va fatta a bagnomaria, quindi adagiate lo stampo in uno più grande. Versate poi nello stampo grande, acqua a sufficienza per arrivare ai due terzi del vostro stampo, e mettete in forno per circa 60 minuti.
Quando è pronto, capovolgetelo su un piatto da portata e decoratelo con gli amaretti rimasti.