Chi lo avrebbe detto che quella calda mattina di dicembre mi avrebbe portato tanto lontano dalla mia Catania, fatta da ristretti parenti e amici, dai bagni nella plaia al Lido Azzurro, dal cinema nel pomeriggio per poi tornare a casa prima delle otto, visto che a quell’ora finiva la giornata di lavoro Lucia Balsamo, la nostra cameriera. Dai giovedì e le domeniche a pranzo dalla nonna, la quale religiosamente mandava la portinaia, donna Tina, a domandare il menù che volevamo mangiare quel giorno.
Mi piacevano le crocchette di salsa besciamelle, il formaggio svizzero, il gorgonzola, l’arrosto ripieno e infine, come di consueto, c’erano i pasticcini della Pasticceria Svizzera, o i cannoli di Mantegna.
Maria, la cuoca, preparava in uniforme ogni nostro desiderio.
Maria era simpatica e dopo il lavoro si vestiva bene, metteva il rossetto sulle labbra e colorava le guance con la cipria Bertelli. Metteva anche il cappellino che le dava un tocco di eleganza.
Maria era signorina, tutti la ridicolizzavano per il fatto che si truccasse, ma in realtà era elegante e ci teneva alla “bella presenza”.
Ai bambini faceva ridere il fatto che si truccasse e le dicevano che sembrava un topo uscito da un sacco di farina… Maria era grassottina, simpatica, pulita e cordiale. Non capivo perché la ridicolizzassero. Lei rispondeva allegra e forse soddisfatta che i bambini le dedicassero attenzione.
Io la ricordo con affetto e rispetto: una signorina degli anni Cinquanta, una cuoca che portava il cappellino con tanta eleganza.
Fu proprio il suo caso che mi fece riflettere.
In quel periodo mio fratello promise a mia madre che non si sarebbe mai sposato per restare con lei. Io subito mi aggiunsi a quella promessa, pur senza troppa convinzione… ma per la mamma!
Poi a pranzo, dopo aver fatto quel ragionamento, le dissi: “Mamma ti devo dire una cosa” e scoppiai a piangere.
Quindi aggiunsi: “Io mi sposo, perché non voglio restare zitella come Maria…”.
Viaggiammo in prima classe sulla motonave Giulio Cesare: fu il secondo viaggio dopo l’inaugurazione.
Godevamo dell’aperitivo in piscina con patatine fritte, quelle patatine tanto comuni adesso, che però per me erano una novità.
Il menù era selettivo e raffinato, il maître ci riempiva d’attenzioni.
Ho compiuto nove anni a Natale e mia madre fece fare una torta con un piccolo alberello con le lucine a pila.
Fu allora che mi resi indipendente per prima volta, presi i soldi che ci avevano regalato gli zii e senza dire niente a nessuno andai al free shop a comprare regali per tutti. Che coraggio, tutto da sola!
Le feste da ballo erano di etichetta e alcune signore mettevano gli abiti lunghi firmati.
Solo una sera noi bambini siamo andati a guardare e mia madre fu invitata da un ufficiale. Sembrava proprio come il film con Jane Powell, Crociera di lusso!
Ma noi eravamo controllati e alle dieci tutti a letto.
Facemmo amicizia con una famiglia brasiliana. Il signore era attaché all’Ambasciata svizzera. Ricordo che la bambina aveva una bambola americana che parlava con un dischetto. A quei tempi!
Ci ripromettemmo di farci visita, di scriverci, di tenerci in contatto.
Nulla di questo successe. Non sapevo quante sorprese ancora mi aspettavano.
Comunque il nostro divertimento preferito era la piscina, visto che sapevamo nuotare. Poi c’era la palestra dove si potevano praticare vari sport: equitazione con un cavallo elettrico che trottava, oppure c’era una barca fissa per remare e tante altre installazioni che per noi erano stupefacenti.
Arrivati a Buenos Aires tutto crollò.
Mia madre non poté prelevare i diciassette colli, fra bauli, valigie e cassoni, perché era rimasta senza un soldo!
Ci diedero solo le valigie. Il resto restò in deposito e non sapevamo quando avremmo potuto recuperarlo.
Mio padre ci venne a prendere al porto e passammo la fine dell’anno a Buenos Aires.
Evita Peron era grave, il Che incominciava il suo giro in motocicletta che avrebbe cambiato la sua vita come la mia.
Gli indumenti erano orribili, dalle fabbriche uscivano golfini grezzi e scoloriti. La carta per avvolgere quasi non esisteva; nei negozi di alimentari usavano quella grigia di infima categoria. Tutto era di qualità scarsa o nulla. Solo gli edifici del principio del ‘900 erano eleganti.
Vidi per prima volta la televisione. Perón mise la televisione prima di noi e a metà del 1951 fu inaugurata. Quando arrivai a Buenos Aires ancora non c’era un vero programma, ma facevano concerti e forse qualcos’altro. Io vidi un concerto e mi sembrò fantastico.
Contrasti d’Argentina.
Era l’anno del Drago per l’oroscopo cinese.
A Buenos Aires l’afa e le auto vecchie con l’odore di nafta mi facevano venire mal di testa.
Le piazze e gli edifici erano belli in Avenida de Mayo, Santa Fé, Nueve de Julio e in generale in tutto il centro.
Il teatro Colón era magnifico, ma contrastava con i bar che avevano macchine da caffè arretrate di trent’anni.
E poi tutti quei gallegos, i galiziani che parlavano tutto il giorno e risuonavano nelle mie orecchie.
C’erano anche gli andaluz con scarpe col tacco e pantaloni a vita alta – proprio estranei alla mia cultura – che giravano per Buenos Aires giacché erano stati i primi a conquistare il Paese.
Tutto questo contrastava con i nostri sandali firmati Varese, i vestiti di popeline di seta, o di pichet nido d’ape portati senza calze. Quelle signore in genere erano vestite di nero, con le calze in piena estate, sembravano “parate a festa” in stile spagnolo.
Noi d’estate calzavamo tutti i sandali, anche mio fratello, e ci sembrava strano vedere quegli uomini con scarpe nere o marroni, allacciate “fino al collo”.
Gli uomini vestivano completi di lana sotto il sole a picco, mentre mio padre e mio fratello usavano popeline elegante e sportiva.
Gli argentini credevano che ci vestissimo così perché eravamo i poveri del dopoguerra, non avevano idea dell’eleganza. I miei genitori avevano scelto le migliori stoffe di shantung lavorate da sarti.
Il viaggio da Buenos Aires a Córdoba fu lungo e faticoso. Mia madre si lagnava che il suo vestito bianco si era tutto sporcato con la cenere del treno a carbone. Che differenza con la littorina!
Arrivati alla stazione di Córdoba, ci vennero a prendere degli zii, fratelli di mia madre, in carrozza perché il tassì era molto caro.
Mio padre si lavò le mani e intanto le diceva: “Te lo avevo detto di non venire!”.
Lui aveva preso in affitto un appartamento e abitava con mio zio, la moglie e il figlio di due anni.
Mio padre non aveva mai lavorato, né mai lavorò. Vivevamo degli affitti e quando questi non bastavano si vendeva un appartamento. Ma le proprietà erano a Catania e se non le vendeva non c’erano soldi.
Mia madre aveva venduto un terreno in campagna e già non restava più niente.
Ma dove siamo? Dove mi hanno portato? Che è successo di tutte quelle promesse di una Argentina prospera, dove i marciapiedi erano ampli e non stretti come quelli della Catania antica?
Arrivammo in una specie di casa con il bagno fuori, con il cesso senz’acqua e un solo rubinetto in mezzo al fango. La cucina che non comunicava con le altre stanze, non aveva acqua.
Le tre stanze davano su un cortile miserabile, circondato da una sola linea di mattoni rotti. La porta era fatta da legni vecchi e bucati da dove si poteva vedere la strada che era a cinquanta metri dal fiume. Lì, in casupole fatte di legno e pietre, si riunivano gli ubriachi.
Io non volevo abbandonare la mia casa. Piangendo l’avevo detto a mia madre mentre lasciavamo la casa della nonna, il mio cane Musetto, i cugini, la plaia, i pomeriggi al cinema e tutte le cose belle che ci offriva la mia città.
L’appartamento dove ero nata, in via Sant’Euplio 70, era confortevole ed era a cinquanta metri da quello della nonna in via Regina Margherita 4, a centocinquanta metri da quello di mia zia, a trecento dalla villa della bisnonna, e dal Sanatorio del bisnonno.
Eravamo felici, anche se molte cose non si dicevano, anche se le verità erano nascoste, anche se le suore facevano tanta paura, anche se non mi volevo fare suora ma dovevo rispondere di sì alla domanda della maestra “Chi si vuole fare suora?” e tutte “Io, io, io…”
Io no! Ma non lo posso dire.
A bordo della motonave Giulio Cesare di Sivia Tomaselli Clementi è stato selezionato per I racconti di Cronache. Se vuoi leggere altri racconti clicca qui.
Hermosa historia! Contagia la melancolia que siente la autora al relatar cada momento recordando a su tan querida Catania. El relato no se estanca en ningun momento, mantiene su dinamismo con el recurso de las comparaciones que se hacen sobre un lugar y el otro.
Mantiene una intriga constante, que se va construyendo en base a los recuerdos sobre esas tardes sicilianas y antagonicamente una triste tarde en la costanera cordobesa.
Espero leer mas historias de esta autora por la pagina.
Questo racconto e’ affascinante.
Mi ha fatto, viaggiare insieme la protagonista in posti per me sconosciuti.
Specialmente in quell’epoca un po’ lontana e strana fino adesso.
Sono entrata nel personaggio ed ho sofferto ogni suo sentimento nostalgico.
Graziosa la sua infanzia piena di piccole allegrie.
Mi piacerebbe conoscere la sua storia letteraria; i titoli sono molto intriganti!.
Sono d’accordo con voi, Damiano e Costanza… anche a me è piaciuto molto, mi ha affascinato e mi ha fatto venire voglia di saperne di più di questa storia.
Ho letto questa avventura nella motonave Giulio Cesare. Con tanti momenti che dividono il racconto prima della partenza e dopo.
Sembra impossibile che la protagonista abbia vissuto tanti cambi, e per quello che esprime si è potuta rialzare varie volte.
Propio intelliggente e piena di voglia di vivere.
Salve Rodrigo.
Grazie per la critica; hai propio ragione,
quel viaggio fu come se si passasse una montagna e dietro lasci una valle; in avanti lo sconosciuto… tutto da develare.
E marca le persone con un forte bollo quasi imborrabile.
La vita continua e si deve avere il coraggio di mettersi in piedi.
Grazie di nuovo.
Silvia
Struggente ricordo con note di leggiadra fanciullezza. Racconto nostalgico della scrittrice protagonista ma pronta a vivere il suo presente.
Descrizioni di luoghi e persone che possono essere pennellate su di un quadro o essere scatti di un fotografo che ti portano a vedere le immagini di cio’ che e’ narrato.
Narrazione semplice, genuina ed elegante. Espressione di ricche esperienze portate nel cuore divenute anche ricordi mai dimenticati.
Mi e’ molto piaciuto e conosco alcuni dei luoghi citati dalla scrittrice con usi e costumi dei tempi narrati.
Bellissime atmosfere che denunciano il dolore di una frattura : il passaggio da una vita agiata e privilegiata ad una condizione di esistenza privata dei suoi lustrini e caduta nel fango. L’abbandono del paese natale ,quando non si è così piccoli da non ricordare il proprio primo luogo , rimane una ferita che dura tutta la vita e ti rende senza più radici, un po’ apolide. Il racconto offre tanti spunti che potrebbero ,in maniera più dettagliata ,svilupparsi in un bel romanzo. Complimenti Silvia!
Intrigante!
Felicitaciones
Particolare racconto, con scatti e sorprese inaspettate.
Un’epoca lontana che evoca tante cose vissute da noi bambini di quell’epoca.
Racconto intrigane ed anche inaspettato.
Auguri Silvia.
Espero saber más de esta escritora.
Rstudio italiano.
De casualidad lei este cuento breve pero intenso. Resume la bida con sus vaiven.
Salve,
Sono di Catania, mi picerebbe sapere se quando descrive il palazzo dove abitava la nonna è lo stesso che vedo ogni volta che passo per il Viale Regina Margherita 4 in Catania.
Carinissimo il racconto! Molto toccante.
Grazie.
Silvia, me encanto’ tu cuento breve el cual resume la vida con sus altos y bajos.
Te conozco desde hace muchos años y se de tu trayectoria como escritora.
¡Exitos!