Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino

Dopo Gli scomparsi e Un’Odissea, Daniel Mendelsohn ritorna con un’opera che amplia lo spettro storico e letterario delle due precedenti. E lo fa da quel raffinato ricercatore e scrittore che conosciamo, imbastendo in Tre anelli un intreccio di vite e di storie sapiente e appassionato.

Daniel Mendelsohn. Tre anelli. Cronache Letterarie
Daniel Mendelsohn

L’immagine sulla copertina del libro ritrae un uomo di spalle, intabarrato in un trench logoro e il borsalino che lascia intravedere la capigliatura brizzolata. Nella mano destra stringe una valigia piccola mentre cammina su un lastricato lambito dal mare. Sullo sfondo un tratto dello skyline di una città orientale.

L’incipit di Tre anelli riprende proprio l’immagine in copertina:

“Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Si muove con difficoltà, le spalle ingobbite dal peso delle valigie. […] Ha dovuto fare i bagagli di fretta. Che cosa contengono? Perché è venuto?”.

Chi è questo straniero? È un’immagine, una storia, un destino?
Quale città l’accoglierà? E cosa c’entra col titolo?

Tre anelli. Mendelsohn. Cronache Letterarie

L’esperienza della scrittura dei precedenti testi ha segnato così profondamente Daniel Mendelshon che qui ne fa il filo conduttore della narrazione. Sino a identificarsi con lo ‘straniero’ che viaggia da un continente all’altro per dissotterrare le proprie radici, e svelare paure e segreti di quel viaggiare. Tre anelli diventa così anzitutto la storia di una tecnica di narrazione.

La composizione ad anello

Mendelsohn confessa che dopo la stesura de Gli scomparsi attraversò un periodo di paralisi, non solo creativa ma anche fisica. Per anni aveva viaggiato dagli Stati Uniti all’Australia, dalla Polonia ad Israele per ridare volto e voce ai parenti uccisi dai nazisti. Ma al termine della fatica letteraria si trovò letteralmente incapace di muoversi, persino di uscire di casa, totalmente svuotato dal punto di vista emotivo e creativo. Ogni volta che cercava di intraprendere un nuovo progetto non riusciva ad andare avanti. Si sentiva come uno degli anziani testimoni o sopravvissuti di cui aveva scritto: “un girovago senza più patria, giunto in un luogo totalmente sconosciuto, incapace di andare oltre”.

Lo straniero della copertina potrebbe essere anche lo scrittore dinnanzi al vuoto creativo.
Solo nel 2008, Mendelsohn trova la chiave per uscir fuori dallo stato in cui è caduto. Lo fa seguendo il consiglio di un’amica: tornare alle sue radici intellettuali. Per un grecista quale Mendelsohn questo significava scrivere qualcosa sui classici greci.

Un'Odissea. Daniel Mendelsohn. Cronache Letterarie

Nacque così il progetto di scrivere Un’Odissea, storia del toccante rapporto tra l’autore e il padre ormai anziano attraverso lo specchio del viaggio che fecero insieme in alcuni luoghi dell’Odissea (ne scrivo qui). Tuttavia, dopo la prima stesura durata dal 2012 al 2016, il risultato fu disastroso. Lo stesso autore si rendeva conto che qualcosa nel meccanismo della narrazione non funzionava. Aveva commesso un errore, imperdonabile secondo Aristotele.

Fu un amico editor ad aprirgli gli occhi. Sì, c’erano tutti gli elementi della storia ma mancava il modo di tenerli insieme. Aveva descritto tutti gli avvenimenti uno dietro l’altro seguendo la linea temporale in cui si erano succeduti: il seminario sull’Odissea che lui stesso aveva tenuto al Bard College e a cui aveva partecipato il padre, la crociera per il Mediterraneo, la malattia e la morte del padre. Era proprio questa linearità il limite delle seicento pagine che aveva scritto. Un narratore non può e non deve limitarsi all’esposizione di fatti come uno storico, aveva ammonito Aristotele nel ventitreesimo capitolo della Poetica. Insomma, il consiglio era di trovare il modo di intrecciare quegli avvenimenti l’uno all’altro, in modo che la storia non venisse schiacciata sulla linea temporale. Usa i flashback, usa i flashforward, non curarti della cronologia. Inventa se necessario.

L’amico editor suggerì a Mendelsohn di adottare la tecnica narrativa forse più antica al mondo, almeno quello occidentale, nota come composizione ad anello.
L’esempio più noto di tale tecnica è, guarda caso, un passo dell’Odissea. Forse uno dei più toccanti. Siamo nel Libro 19 quando l’eroe omerico viene riconosciuto dalla vecchia nutrice Euriclea. Odisseo è ritornato a Itaca come mendicante. Come prevede il rituale dell’ospitalità al mendicante vengono lavati i piedi. La serva a cui viene affidato questo compito è la vecchia nutrice, da anni al servizio della famiglia reale. Durante il lavaggio Euriclea riconosce su una coscia del forestiero una cicatrice a lei ben nota. Ulisse è tornato, non ha dubbi.

A questo punto Omero compie la scelta stilistica: in un momento di così alta suspense anziché passare subito alla scena del ricongiungimento fra la nutrice e Ulisse, prevedibilmente carica di emozioni, preferisce interrompere il flusso lineare per ampliare la narrazione. Apre così per associazione un nuovo livello del racconto con un flashback per spiegare come e dove Ulisse si procurò quella cicatrice.
Mendelsohn procede nello stesso modo e, in riferimento a questo episodio dell’Odissea, apre un nuovo anello o livello della sua narrazione.

Istanbul. Tre anelli. Mendelsohn

Primo anello: da Marburgo a Istanbul

Siamo nella tarda estate del 1936. Un uomo è arrivato in una città sconosciuta. È un uomo di mezz’età, ed è molto stanco e preoccupato per la moglie e il figlio che ha lasciato a Marburgo da cui è fuggito. Si trova davanti a un edificio di foggia bizzarra che diverrà la sua casa per gli anni a venire. Quest’uomo è Erich Auerbach, ebreo tedesco, studioso di letteratura, noto per i suoi studi danteschi. È dovuto riparare a Istanbul per sfuggire alla persecuzione nazista. Nella città turca scriverà l’opera monumentale che lo renderà famoso e l’incoronerà quale padre della letteratura comparata: Mimesis.

Mimesis è un’opera piuttosto ambiziosa. Si propone di costruire un modello della mentalità occidentale del passato, analizzando, secondo la filologia, numerosi testi del passato. Dal primo capitolo che raffronta lo stile narrativo dei greci con quello biblico, agli storici romani Tacito e Ammiano Marcellino, da Gregorio di Tours a Dante e Boccaccio nel ‘300, sino a Virginia Woolf e Marcel Proust, passando per Voltaire e Stendhal.

Il concetto di una letteratura universale non è nuovo. Auerbach l’eredita dal connazionale Goethe che un secolo prima aveva coniato il termine Weltliteratur, letteratura universale, un’idea con una genealogia interessante, collegata proprio a Istanbul.
Per chiudere il cerchio: Mimesis è un’opera che interessa i lettori dell’Odissea per diverse ragioni. Non ultima, l’analisi dell’episodio su citato del Libro 19 intitolata “La cicatrice di Ulisse”. È il punto da cui Auerbach muove per verificare se e come la letteratura trasmetta una sensazione di realtà. Per farlo analizza la tecnica narrativa di Omero, la composizione ad anello, appunto. Tecnica sulla quale lo stesso Auerbach nutre dei dubbi.

Secondo anello: l’educazione delle fanciulle

Mentre Auerbach scriveva la sua opera a metà degli anni Quaranta, nei Paesi Bassi occupati da quegli stessi nazisti da cui il letterato tedesco è fuggito, un altro studioso attende alla scrittura di un’opera connessa a Mimesis. W. A. A. Van Otterlo procede nella stesura dei saggi dedicati proprio alla composizione ad anello omerica, destinati a diventare per generazioni il testo accademico di riferimento su tale tecnica.

Tra le varie tecniche di composizione ad anello Van Otterlo cita quella che lui stesso ha definito “inclusiva”. Questa modalità consiste nell’inserire all’interno della narrazione principale una cavità, o nicchia, che apre una digressione. Al termine della digressione l’anello viene chiuso e la scena principale riprende il suo corso.

A questo punto Mendelsohn amplia la propria narrazione con due nuovi anelli inclusivi. E lo fa anzitutto in senso figurato: s’inoltra nella cavità di Calipso a Malta dove, durante il viaggio compiuto col padre alcuni anni prima, aveva dovuto affrontare la propria claustrofobia. E chiude l’anello citando la frase di apertura di un romanzo di fine Seicento: “Calipso non poteva consolarsi della partenza di Ulisse”.

Questo romanzo (che francamente non conoscevo) può considerarsi il best seller dell’epoca. Fu scritto dall’ecclesiastico e teologo francese, François de Salignac de La Mothe-Fénelon, nato nel 1651 in una famiglia aristocratica del Sudovest della Francia. A ventisei anni fu ordinato prete e dopo due anni ottenne il suo primo ruolo di prestigio: venne incaricato di dirigere l’Institut des Nouvelles Catholiques. Si trattava di una scuola pensata per educare come devote cattoliche, le figlie di buone famiglie protestanti, convertitesi al cattolicesimo. Scelta preveggente visto che di lì a pochi anni, Luigi XIV avrebbe revocato l’illuminato Editto di Nantes mettendo così al bando i culti protestanti. Di conseguenza alcuni protestanti fuggirono verso altri paesi, tra cui la Prussia, dove il duca Federico Guglielmo diede loro il benvenuto e fondò un apposito istituto scolastico. Quel Lycée Français dove, molti anni dopo, Erich Auerbach avrebbe studiato il greco.

Oltre a un testo sull’educazione, nel 1699 Fénelon pubblicò il romanzo che si apre con la frase su Calipso sopra riportata. Il titolo è quanto mai intrigante: Les Aventures de Télémaque. Le avventure di Telemaco diede al prelato una fama letteraria in tutto il mondo che, ahilui, sarebbe stata anche all’origine della sua disastrosa caduta in disgrazia a Versailles.

Il protagonista è Telemaco, il figlio di Ulisse. Nel raccontare le sue avventure alla ricerca del padre, lo scrittore francese rivisitò passi dell’Odissea, e altri ne aggiunse di pura finzione. Divenne talmente popolare che Montesquieu lo definì “il testo sacro del secolo” e Voltaire lo lodò, non solo perché era un’opera di finzione particolarmente avvincente ma anche un roman moral. Persino il poliedrico Thomas Jefferson, nel fondare l’Università della Virginia (dove ha studiato lo stesso Daniel Mendelsohn), si sarebbe ispirato a principi pedagogici veicolati dal romanzo di Fénelon.

Françoise Marguerite de Sévigné, comtesse de Grignan
Françoise Marguerite de Sévigné, comtesse de Grignan

Come l’Odisseo di Omero, il romanzo di Fénelon è stato oggetto di diverse interpretazioni nel corso dei secoli. Se fu inviso a Luigi XIV che vi leggeva una critica al Re Sole, i filosofi illuministi lessero nell’antiautoritarismo e nell’asserzione enfatica del principio di fratellanza universale, l’anticipazione del loro stesso movimento. Stendhal e Lemaître lo lodarono per la profondità dei sentimenti e il tenero ritratto del rapporto tra maestro e studente.

Non poteva mancare all’appello Marcel Proust. Ne Alla ricerca del tempo perduto, Fénelon, Madame de Sévigné e Racine formano un sacro terzetto di autori del Seicento cui la narrazione spesso allude. Nel secondo volume del romanzo di Proust, Madame de Sévigné dichiara la sua invidia per coloro che hanno avuto il privilegio di essere istruiti da Fénelon.

Fénelon e Proust condividono anche quelle che Mendelsohn definisce le “possibilità ottimiste della narrazione”. Ovvero la possibilità di infinite digressioni, di una serie potenzialmente interminabile di cerchi concentrici più piccoli all’interno di uno più grande. E l’anello più grande è in grado di includere l’intera esperienza umana.

Terzo anello: storie di Ausgewanderten

“Uno straniero giunge in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Il percorso è stato tortuoso e pieno di complicazioni; lo straniero è stanco. Chi è?”.

Potrebbe essere lo studioso greco che da Istanbul scappa in Italia nel 1453, il musulmano cacciato dalla Spagna a Istanbul nel 1492, l’ugonotto passato dalla Francia alla Germania nel 1685, l’ebreo in fuga dalla Germania negli anni Trenta. Potrebbe essere uno scrittore bloccato in un’aporia paralizzante dopo aver passato anni a fare ricerca per un libro che descrivesse gli effetti del cataclisma che travolse Auerbach e milioni di altre persone.

Gli anelli di Saturno. W.G. Sebald

O forse è un altro tipo di scrittore che sceglie di lasciare il proprio paese, la Germania, per affrancarsi dal senso di colpa ereditario per gli orrori commessi dai nazisti suoi connazionali. Un passato di cui non è responsabile ma di cui avverte tutto il peso. È Winfried Georg Sebald, tedesco di Svevia, nato nel 1944, che emigra in Inghilterra per lasciarsi alle spalle il proprio padre che durante tutta la guerra ha combattuto nella Wehrmacht.

Nella sua breve vita Sebald si dedica a scrivere libri su Ausgewanderten: esuli, emigranti, persone costrette a vagare per il mondo come, secoli prima, Odisseo era stato costretto a peregrinare attraverso lo spazio e il tempo. Sarà per la sua esperienza personale che Sebald scrive libri simili e sposa un modello narrativo opposto a quello ‘ottimista’ omerico della composizione ad anello.

Tanto che, secondo Daniel Mendelsohn, se l’anello di Proust appare come un contenitore pieno di tutta l’esperienza umana, quello di Sebald racchiude un vuoto: una destinazione a cui la scrittura non riuscirà a farci arrivare. È il tema del fallimento della narrazione che caratterizza i principali romanzi di Sebald da Gli anelli di Saturno a Austerlitz. L’impossibilità, tanto di leggere la realtà quanto di compiere un movimento, è una specie di summa del progetto di Sebald, in cui il linguaggio fallisce e il movimento è privo di senso. E tutto viene lasciato nell’ombra come nella tradizione narrativa ebraica e biblica.

Roberto Concu

Roberto Concu

Poeta, qualche volta narratore, lettore forte. Nella sua libreria Hugo, Kawabata, Calvino, Grossmann, Roth, Everett convivono armoniosamente con Izzo, Derek Raimond, E. Bunker, Ed McBain. Ma è la poesia a farla da padrona.

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