
Il tempo che passa, gli amici che si perdono e si ritrovano, luoghi che cambiano, una costellazione di vite che si fondono in una sola. Il vino e il cibo suggellano rapporti e momenti da ricordare. La cultura della tavola, intorno alla quale si celebra la vita e l’identità, mantiene vivo il gusto del ricordo. Tutto questo in Tre cene (l’ultima invero è un pranzo), una raccolta di racconti di Francesco Guccini.

Francesco Guccini, uno dei cantautori più importanti d’Italia, autore di poliedrico ingegno e indimenticabili testi, ci regala, dunque, un nuovo libro. Il cantautore-poeta e scrittore modenese, mito vivente per generazioni di italiani, è infatti anche un premiato scrittore.
Autore in solitaria e in coppia, con Loriano Machiavelli, di numerose opere di narrativa e romanzi gialli, editi fin dal 1989, che hanno riscontrato un grande successo di pubblico.
Tre cene tratta storie di amici, nelle quali non succede nulla di speciale, se non tutto ciò che di eccezionale si percepisce quando si eccede nel vino e nel piacere della compagnia. Lo scenario è l’Appennino tosco-emiliano, quello che fa da quinta scenica anche a molte canzoni dell’autore. E’ il luogo dove Guccini trascorse parte della sua infanzia tra boschi e volti che hanno costituito imprinting e linfa vitale per la sua creatività.
Le tre cene fra amici si ripetono nel tempo, ad intervalli lunghissimi l’una dall’altra, e sono tutte unite da un filo conduttore: sono tavolate ricche di cibi succulenti e fiaschi di vino. Momenti di beatitudine, perché poche cose come il bere e la sazietà, la condivisione del gusto e del ricordo, riescono ad offuscare l’ansia del tempo che corre.
Un lungo aperitivo
La prima è una cena che Guccini non ci serve immediatamente, ma è preceduta da un lungo aperitivo. In una fredda notte di dicembre, imbiancata dalla neve, poco prima di Natale si ritrova un gruppo di giovani che pregusta una bella mangiata, annaffiata da buon vino. Si tratta di giovani di paese, figli di carbonari, contadini e boscaioli che, per sfuggire alla fame, sono andati a lavorare nelle carbonaie della Sardegna, o addirittura in America.
Sono tutti nati alla fine della Grande Guerra, da quelli che avevano avuto la fortuna di tornare dalle trincee al di là del Carso. Sono cresciuti a botte e camminate, con la scuola da raggiungere a piedi e a malavoglia. Ognuno di loro ha un soprannome antropomorfico, destinato a rimanergli incollato per il resto della vita.

A piedi, nella neve, verso la prima cena
La cena nel paese di sopra, dunque, inizia con una bella bevuta per attendere i ritardatari. Corroborati dalla confortante “benzina”, iniziano a percorrere le innevate stradine e le ultime case spariscono dietro di loro.
Ci avviamo dunque, come spettatori silenziosi, quasi clandestini, su quelle montagne, godendoci ricordi di goliardie giovanili. Così quando ci si siede a tavola, nella locanda del paese di sopra, si ha la sensazione di conoscere bene quegli amici, con le loro storie sconclusionate, le loro canzoni, le imprese epiche e quelle da una notte e via. Le loro storie sono le stesse che si ritrovano nei racconti di tanti anziani, narrate tra bestemmie e rumore di carte da briscola sbattute sul tavolo. Magari in uno di quelle migliaia di bar di paese di cui l’Italia è ricca.
Fra acciughe e burro, coniglio e polenta e fiumi di vino, passano le ore, in un’alternanza di allegria e malinconia e goliardiche canzonature. Per poi passare ad un altro tipo di locanda dove soddisfare bisogni più prosaici e finire a dover ritrovare la strada di casa con estrema difficoltà. Sfatti, stanchi, ma contenti per aver passato una serata memorabile, insieme. Una di quelle da raccontare.
La seconda cena

Il secondo appuntamento godereccio avverrà addirittura quarant’anni dopo, il paese è cambiato, il vecchio bar è stato rimodernato, diverse sono anche le abitudini. Pochi sono rimasti in paese, molti quelli che ci tornano solo in villeggiatura, con quel bagaglio emotivo che oscilla fra la nostalgia e il rifiuto.
I fuoriusciti vengono accolti con un mix di felicità e rimprovero con un classico “chi non muore si rivede”. Per poi essere velocemente inseriti nella lista degli invitati alla zingarata di rimpatrio, alla quale non si può mancare.
La destinazione questa volta si raggiunge in auto. Il vino è sempre presente ad arrossire le guance e sciogliere la lingua, ma in questa fase della vita è diventato meno desiderato del cibo. Si parla più di politica che di donne, anche se la presenza di qualche ex fidanzata fa riaffiorare occasioni perdute e vela gli occhi di qualcuno.

Questo è l’incontro dove il piatto forte è la compagnia, dove ci si ritrova e ci si riscopre. Ora il passato ritorna nei racconti a celebrare una giovinezza perduta. Una cena che si conclude con un ritorno a casa meno complicato, ma tanti pensieri nella testa. Anche un po’ di malinconia per i tempi andati e per quelli a venire. Ah, chissà quando si rivivrà un’altra cena come questa!
Il pranzo
La terza cena, invero il pranzo, avviene a distanza di altri vent’anni.
Nel paese più alto del circondario, in un giorno in cui si assisterà a una eclissi di sole. Tanti dei compagni non ci sono più. Non ci si ricorda nemmeno se ci si è mai stati in quel paese. Ma non si respira solo una disperata malinconia del tempo che passa, tutt’altro. La capacità di sorridere delle fragilità umane e la tenerezza dei ricordi e degli antichi gesti, ora scaldano veramente il cuore.
Tutti noi possiamo ritrovare in queste Tre cene parte delle nostre vite e delle vite degli altri che ci hanno ispirato, spaventato, deluso o aiutato a costruire la nostra identità, se è vero che:
“Siamo figli del tempo in cui viviamo, dei libri che abbiamo letto, degli eventi che abbiamo vissuto, non tanto dei nostri padri”.
Perché una vita sola non ci basta ed è attraverso le storie degli altri che possiamo vivere di più.
“Quando morirò seppellitemi in una vigna, acciocché possa ridare alla terra tutto quello che ho bevuto nella mia vita.”
Come si evince, Guccini è un grande amante del vino e non ne ha mai fatto mistero. Anzi è piuttosto un vanto, nelle sue canzoni come nei suoi scritti. Lui proviene da una cultura contadina dove il vino era più un alimento che una bevanda. Facile dunque l’abbinamento di questo libro con uno dei vini italiani fra i più noti ed esportati al mondo: il Lambrusco.
Un vitigno a bacca nera tipica delle provincie di Modena e Reggio Emilia, del Mantovano e del Parmense. Un frizzante vino contadino, prodotto con metodo ancestrale – ossia da seconda fermentazione spontanea – che riesce oggi ad esprimersi in molteplici modi.
Se per alcuni il Lambrusco evoca immediatamente l’idea di un vino frizzante e di poco valore, è consigliabile approfondire. Scoprirete nuove e varie tipologie di vino, da secco ad abboccato, fermo o frizzante naturale, prodotto col metodo ancestrale o Charmat (il metodo classico con cui si produce anche lo Champagne).
Le mille espressioni del Lambrusco

Il lambrusco dà vita a ben sette DOC dal Lambrusco Mantovano a Modena, Grasparossa di Castelvetro, Colli di Scandiano e di Canossa, Lambrusco Salamino di Santa Croce, Lambrusco di Sorbara, Reggiano.
Al naso è vinoso e fruttato di mora e ciliegia, floreale di rosa rossa e speziato di pepe nero, sovente di chiodo di garofano.
Superfluo dire che ogni denominazione presenti caratteri diversi al naso e al gusto. Il Salamino e il Sorbara profumano di fragoline di bosco, geranio e sottobosco. Il Grasparossa è più fruttato di prugna e frutti rossi scuri e leggera balsamicità.
Un vino di facile abbinamento
“Domineddio fece apposta il lambrusco per annaffiare la carne” scriveva Giosuè Carducci alla sua amica, celebrando la facilità di abbinamento di questo vino. In tutte le tipologie il vitigno dà vita a vini da gustare giovani e in abbinamento con piatti caratteristici della cucina emiliana: va bene con gli affettati, ma anche con la pizza. Il lambrusco dolce, in versione rosata o rossa, è un vino perfetto per il dessert.
Il Lambrusco è un vino da riconsiderare e riscoprire, memoria di un’Italia contadina, ci permette di ricordare come eravamo.
Guccini in ‘Tre cene’, ha rimosso tanti ricordi che mi bruciano nell’anima.
Per esempio mi sento in colpa per i minatori che fanno i lavori per noi; se non ci fossero loro non si goderebbe di tante cose materiali che vediano qua e là senza domandarci da dove provengono. Ma ogni tanto prendo coscienza e la colpa bussa.
Penso che queste cene e pranzi riflettono quello che lui dice: Non siamo figli dei genitori, ma del tempo in che viviamo, dei libri che leggiamo, delle persone che conosciamo.