La Stazione di Jacopo De Michelis

La stazione. De Michelis. Cronache Letterarie

Tranne quelli che compriamo perché ci piace l’autore, ognuno di noi viene attratto da un nuovo libro per una peculiarità. Io, ad esempio, tendo a scartare libri troppo piccoli. Ebbene sì, sono sempre stata attratta dai grandi tomi, non amo i racconti né, cambiando medium, i cortometraggi.
È chiaro quindi che La Stazione, segnalatomi da un amico e caso editoriale di questo inizio 2022, nonché librone di 870 pagine, abbia attirato subito la mia attenzione.

La storia

Siamo nel 2003, Riccardo Mezzanotte è un trentenne che, dopo un burrascoso passato da pugile e da membro di una punk band, di cui conserva per ricordo decine di tatuaggi, decide di entrare in polizia. Uno dei motivi che lo spinge, è seguire le orme del padre, il compianto Alberto Mezzanotte, eroe della squadra mobile di Milano degli anni ’80, misteriosamente ucciso sette anni prima.

Riccardo è un ispettore bravo e intuitivo, risolve con sagacia e testardaggine un caso importante e diventa subito degno figlio del padre. Salvo il fatto che poi, proprio per perseguire l’onestà ereditata, pesta i piedi a un po’ di colleghi e viene trasferito alla Polfer, il posto di polizia della stazione di Milano Centrale. Qui si annoia da morire e per di più è visto male dai colleghi, che sanno il perché del suo trasferimento. Perciò quando inizia a indagare su degli strani casi di ritrovamenti di corpi seviziati di animali, è solo e senza aiuti. Dalla consulenza di un antropologo, Riccardo impara che questi animali sono stati sottoposti a un rito Vodoo, ma questo non fa che isolarlo sempre più dagli altri poliziotti, divenendo oggetto di scherno continuo.

Uno dei suoi informatori gli racconta che il ritrovamento degli animali morti coincide con gli avvistamenti di una figura sinistra, soprannominata “il fantasma” perché appare solo di notte e perché è pallidissimo e spettrale nella sua magrezza.

La stazione di Milano Centrale
La stazione di Milano Centrale

Allo stesso tempo seguiamo le vicissitudini di Laura Cordero, bellissima ventenne della Milano bene, che per uscire dal bozzolo in cui è rinchiusa, decide di fare volontariato al centro di ascolto che si trova subito fuori dalla stazione.
Laura ha un dono che non sa gestire bene, sente le emozioni altrui tanto da farle proprie e il lavoro di volontaria la sta aiutando a venirci a patti. Anche lei si impelaga in una situazione strana: la sera e solo la sera, all’uscita del centro le compaiono due bambini vestiti in maniera antiquata, con una fascia al braccio con una stella gialla cucita sopra, che sembra vedere solo lei. Ogni volta che vede i bambini, ha una sensazione di terrore, paura e angoscia, che la lascia annichilita.

Chiede perciò aiuto a Riccardo e, da quel momento, le indagini e le vite dei due si incastreranno in una sinergia che li porterà, letteralmente, negli immensi sotterranei della Stazione Centrale. Lì capiranno che le loro due indagini fanno parte di un mistero molto più grande e complicato, interconnesso con la Storia e con le vite e le credenze di persone che, in maniera inimmaginabile, nei sotterranei della stazione ci vivono.

“I sotterranei sono l’inconscio di una città”.

Alla fine, è proprio La stazione la vera protagonista del libro. Jacopo De Michelis, l’autore, ci ha messo ben 8 (otto!) anni per ricercare le fonti e scrivere questo che è il suo esordio letterario.

Non a caso l’ambientazione è nel 2003, visto che l’enorme restauro che ha cambiato il volto della Stazione Centrale di Milano è iniziato nel 2005 e terminato nel 2010.
De Michelis ci porta per mano all’interno di questa immensa struttura la cui costruzione, in sostituzione della vecchia del 1848, iniziò nel 1898 e terminò nel 1931, in piena esplosione fascista. Personalmente ci sono passata pochissime volte ed è indubbio che, dopo aver letto questo romanzo, la prossima volta che farò tappa a Milano mi prenderò almeno un paio d’ore per esplorare la Stazione Centrale con occhi nuovi da investigatrice.

Insieme a Riccardo e Laura andiamo in esplorazione sia delle parti ufficiali, piene di specchi, cunicoli, statue di pietra a cui un viaggiatore frettoloso non fa caso. Sia, soprattutto, degli immensi livelli inferiori. Tra l’altro, quello che viene chiamato “sotterraneo di primo livello” sotto ai binari, si trova in realtà ad altezza strada. È lì, dal famigerato binario 21, che durante la Seconda Guerra Mondiale partivano i treni piombati per Auschwitz. Ed è da lì che l’indagine di Laura prende una piega sorprendente, legandosi in maniera indissolubile con quella di Riccardo.

Tutti i generi del romanzo

La Stazione parte come un poliziesco, diventa un thriller a sfondo storico, sfocia nel saggio antropologico con infiltrazioni di esoterismo e continua con una trama di azione/avventura mescolata con un po’ di romanticismo. Insomma, a parte la fantascienza, in questo romanzo si trovano praticamente tutti i generi. È come se La Stazione fondesse insieme almeno tre romanzi diversi. Avrebbe potuto essere benissimo una trilogia, legata da una linea narrativa orizzontale.

la stazione. De Michelis. Cronache Letterarie

Detto così sembra un miscuglio senza senso invece, sorprendentemente, passare da un genere all’altro tiene alta l’adrenalina e la voglia di sapere come va a finire. È un libro nel quale ogni personaggio – e ce ne sono letteralmente decine – è delineato in maniera precisa e approfondita e mano a mano che si prosegue con la lettura, l’interconnessione tra tutti fa sì che la storia non ti lasci fiato e ti spinga a continuare.

I sotterranei della Stazione sono sterminati, scendono per tre livelli e, se nel primo e nel secondo si trovano vestigia di un passato più o meno recente – come il cinema di terza visione degli anni ’20 o il barbiere, fino ad arrivare a un piccolo museo delle cere – il terzo livello è sconosciuto anche alla maggior parte degli addetti ai lavori. Si allunga per chilometri fuori dal raggio della stazione e ingloba persino un piccolo lago.

Mentre è chiaro che i primi due livelli raccontati ne La Stazione sono reali e sono frutto delle accurate ricerche logistico-storiografiche di Jacopo De Michelis, non sono riuscita a capire se il terzo livello sia invece un artificio letterario o se, anch’esso abbia una qualche attinenza con la realtà.
Alla fine, poco importa perché, quando arrivi a quel punto della trama, lo svolgimento ti dà la giusta sospensione dalla realtà, necessaria a continuare.

Perché, a un certo punto, la parte della storia che vede Laura come protagonista principale prende una svolta onirico-magica che si fa un po’ fatica ad accettare, considerando che comunque si è immersi nella lettura di quello che è soprattutto un thriller/poliziesco.
L’altro punto che mi ha lasciata un po’ perplessa è la capacità, quasi fumettistica, di Riccardo di cavarsela dai guai. È vero che è l’eroe ma in alcuni momenti sembra di assistere a un action movie degli anni ’80.

Però, per quanto leggermente disturbanti, questi punti deboli della storia non sono sufficienti a diminuire l’efficacia dell’intreccio, semmai calano solo leggermente il pathos che una storia piena di colpi di scena generalmente comporta. Questo perché Jacopo De Michelis scrive benissimo, in maniera precisa, accurata e coinvolgente, non a caso è un editor delle edizioni Marsilio. Tratteggia i luoghi, i tempi, i modi con dovizia di particolari e attinenza storica e narrativa: e io non ho potuto staccarmi dal libro fino alla sua ultima pagina.

Tutta la parte iniziale del romanzo, ad esempio, dove conosciamo Riccardo alle prese con l’indagine alla squadra Omicidi mentre Laura inizia il suo percorso al centro di ascolto, è incentrata su loro due ma anche sui relativi coprotagonisti della storia, la cosiddetta linea verticale che si esaurisce con la prima parte. E loro sono così ben delineati che comunque, anche quando la loro avventura sarà terminata e tu sarai preso dalla nuova indagine, resteranno di sottofondo a farti compagnia e ad arricchire di sfumature il seguito della lettura.

Insomma La Stazione, oltre ad essere una lettura avvincente e avvolgente, mi ha lasciato con una grande curiosità di approfondire una serie di tematiche che affronta e che non vi posso svelare per non dare anticipazioni, ma che spero siano un motivo in più per andare a leggerlo.

Jacopo De Michelis
Jacopo De Michelis

La ricetta letteraria

Lo so, lo so, suona banale presentarvi come ricetta il risotto alla milanese, ma della costoletta alla milanese ne parlai già, mille anni fa.

È vero, lo conosciamo tutti, ma in quanti lo facciamo “filologico”?
Non voglio neanche pensare all’opzione risotto in busta che cuoce in 20 minuti, ma anche se fatto a partire dalle materie prime è molto probabile che si ceda a delle scorciatoie salva tempo (dado, per primo). E invece vi dico che, almeno ogni tanto, bisogna coccolarsi con un risotto alla milanese fatto con tutti i crismi. Io poi ci ho anche messo un tocco fashion che lo eleva a piatto da grande serata. Se trovate l’ingrediente segreto (Amazon santa subito) aggiungetelo, farete un figurone!!

In teoria la porzione è di 80 gr di riso a persona, questo è per 6 porzioni abbondanti o per 4 con il resto: sì perché il giorno dopo, cucinato in padella tipo tortino, è una meraviglia.

Risotto alla milanese

  • 550 g di riso Carnaroli, Arborio o Vialone Nano
  • 50 g di burro + un cucchiaio per mantecare
  • 60 g di midollo di vitello tritato
  • 2,5 litri di brodo bollente di carne, manzo, pollo o misto.
  • Una piccola cipolla tritata finemente
  • 5 g di pistilli di zafferano o 2 bustine di zafferano in polvere
  • Sale (se necessario)
  • Formaggio Grana grattugiato
  • Tre cucchiai di fiori eduli!!

Come prima cosa mettete in infusione in un bicchiere di brodo, preso dal totale, i pistilli di zafferano, se li usate. Se invece usate la polvere non serve.

Mettete in una casseruola il midollo, il burro e la cipolla; fate cuocere a fiamma bassa finché la cipolla non avrà preso un colore dorato. Aggiungete il riso e rimescolatelo bene perché possa assorbire il condimento. Sfumate con del vino bianco. A questo punto alzate la fiamma e iniziate a versare sul riso il brodo bollente a mestoli, continuando a rimestare regolarmente con un cucchiaio di legno.

Risotto alla milanese. @CronacheLetterarie

Fate sempre cuocere a fuoco vivo e, man mano che il brodo evapora e viene assorbito, aggiungete altro brodo a mestolate fino a cottura ultimata, facendo attenzione che il riso resti al dente. Il riso è cotto in 14-18 minuti approssimativamente, a seconda della qualità utilizzata.

Arrivati a due terzi di cottura, aggiungete il bicchiere di brodo con i pistilli; se invece usate quello in polvere, dovete aggiungerlo a fine cottura per non perderne il profumo.
A cottura ultimata assaggiate il risotto, mantecate con burro e grana e fate riposare un minuto. Dopodiché assaggiate e in caso aggiustate di sale.

Il risotto deve essere cremoso, “all’onda” con i chicchi ben divisi, ma legati fra loro.
A questo punto impiattate e decorate con mezzo cucchiaio di fiori eduli.

Simona Chiocca

Simona Chiocca

Napoletana di nascita e romana per scelta, da sempre sono innamorata della cara vecchia Inghilterra. Lavoro nella produzione cinematografica e da che ho memoria sono appassionata di cucina e passo quasi ogni momento libero spignattando e infornando a più non posso. Cinefila e profondamente gattara, vivrei in un autunno perenne con libri e tè.

4 commenti

  1. Possibile apprezzare un Autore che in poche pagine di apertura riesce a sfoderare vari sfondoni linguistici del tipo: “Torna pure a fare il tuo lavoro, *******, che il mio lo so fare…” , senza accento sul che!? C’è differenza tra che pronome e ché (perché) congiunzione causale?
    “Chiamò quattro uomini e gli fece cenno di seguirlo”, “gli”? Ma non erano 4? Dov’è finito il corretto “loro”?
    Basata leggere le poche pagine di estratto per trovare una prosa ridondante, lentissima, stucchevole. Per descrivere il fermo di alcuni tifosi violenti su un treno servono 6 pagine di inverosimili descrizioni, quando 6 righe sarebbero state già troppe. Naturalmente, salvo gli errori che non sono opinabili, si tratta di giudizi personali.

  2. Buonasera Anna,
    le rispondo pur non avendo letto il romanzo perché il problema da lei posto mi incuriosisce. Sempre più spesso trovo nei romanzi “gli” usato al plurale al posto di “loro”, sia al maschile che al femminile.
    Ammetto che non mi fa impazzire e che non posso fare a meno di notarlo, ma riguardo alla correttezza le cito il dizionario del Corriere della Sera.

    «Gli usato come complemento di termine plurale, anche se manda in panico i puristi fin dal Cinquecento, non è stato mai errore: è antico quanto la nostra lingua, è più antico della forma loro. Si cominciò con l’usare gli al plurale, e solo in seguito si passò al loro. E si dovette invertire la costruzione della frase: da “io gli dico” a “io dico loro”. Vogliamo un esempio antico e autorevole? Eccolo. Giovanni Boccaccio (Decamerone): “Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu… essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò”. Si potrebbe pensare che l’uso debba limitarsi solo al genere maschile plurale. Ma gli plurale, discendendo dall’illis latino che era maschile e femminile insieme, si può accettare, e a volte preferire, anche al femminile: “Le tue sorelle dicono che non è vero e io gli credo”. Come se non bastasse, il Carducci, altro esempio illustre, usava gli anche per il singolare femminile, sempre per via della discendenza dal latino (da illi): “Oso pregare la signora Sansoni a fare ciò che gli sia meglio possibile” (Lett., XIX, 3).»

  3. Sì, ha ragione. Con la lingua si fa quasi tutto. È come per le ricette di cucina: basta trovare gente di bocca buona. E se uno prova a avanzare una critica linguistica, si fa presto a passare da considerazioni di precedenti linguistici a questioni di stili. Ma chi scrive dovrebbe essere davvero responsabile degli effetti che induce sui lettori. E allora, per fare una analisi ancora più stringente, le propongo altre perle sulle quali avevo sorvolato, proprio per non passare per maniaca della correttezza. E la “sfido” bonariamente e simpaticamente a darmi torto. Sempre che la considerazione non sia, ovviamente, del tipo: “eh, lo so, c’è chi lo fa…”. Mi limito alle prime 13 righe del romanzo, e questo basta a capire quale sia la qualità del tessuto. Intanto c’è un bel “tra pochi minuti sarebbe entrato in stazione”, anche qui da penna rossa, laddove sarebbe opportuno “entro pochi minuti” in quanto “tra” indica chiaramente una situazione presente, imminente e non passata. Poi rileviamo un elegante “prefetto” minuscolo (ma si tratta del Prefetto di Milano, dunque è come se lo indicassi con nome e cognome) e poco dopo, brilla un ispettore Mezzanotte anche lui minuscolo, quando tutti sanno che titoli di studio, gradi dell’esercito eccetera se seguiti dal nome vanno rigorosamente maiuscoli. Poco prima, segnaliamo una magnifica “domenica di rientro dal weekend”, come se la domenica potesse essere, magari, l’inizio della settimana. Insomma, 13 righe di… mah!

  4. Se chi scrive dovrebbe essere – davvero- responsabile degli effetti sui lettori, dovremmo mandare al macero i nove decimi della letteratura dall’anno zero a oggi… Lasciamo stare le considerazioni stilistiche e gli errori più o meno gravi che, forse, interessano più un insegnante di italiano piccato che un lettore in cerca di svago in un giallo; ecco, il punto a mio parere su La stazione è proprio questo: è un giallo? Un thriller? Un horror? Cos’è davvero questo romanzo? Preso sull’onda di buone recensioni, devo dire di esserme pentito. Vicenda che parte bene e finisce malissimo, un minestrone di trame e sottotrame che si riuniscono in una storia surreale e a tratti demenziale. Quella che a inizio romanzo poteva essere una buona storia, finisce, complice un numero esagerato di pagine, per essere un brutto fantasy. Mi stupisce che l’autore, un editor!, non si sia reso conto della piega che stava prendendo la sua storia. Per me, tempo e soldi buttati, purtroppo.
    Cordialmente, Luigi Brambilla.

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