Risolvere un “caso” che sembra misterioso e importante al punto da far scomodare i vertici dell’Arma dei Carabinieri. Fare chiarezza, senza però smuovere le acque, lavorando sottotraccia per non rischiare di farsi sfuggire di mano ogni possibile retroscena.
Sono queste le consegne arrivate – in segreto da Roma – a Giulio Mariani, capitano dell’Arma, venuto su dalla gavetta. Proprio a lui che ha già il suo quotidiano bel da fare nella stazione dei carabinieri di un paese dell’area vesuviana, a Sud-Est di Napoli.
Il caso
Un milite che prestava servizio in un paese vicino, si era sparato dopo essere stato oggetto delle più svariate dicerie. C’era chi lo definiva oppresso da ogni sorta di problemi e chi lo pensava prossimo ad infiltrarsi chissà dove, sotto copertura. Col risultato che alcuni famigliari, nel tempo si erano convinti che fosse ancora vivo e che al suo posto nella tomba in realtà giacesse un altro. E, a lungo andare, qualche dubbio era venuto pure ai generali.
Tutto ciò accadeva alla metà degli anni ’90 mentre l’area vesuviana era una terra di nessuno tanto quanto adesso, anche se forse non allo stesso modo. La criminalità organizzata, onnipresente e pervasiva, si muoveva cercando di anticipare i cambiamenti di una società che sembrava piuttosto refrattaria ad essi.
Nel romanzo La fiamma spezzata, tuttavia, camorra e clan restano sullo sfondo. Ci sono, si sa, ma non si sprecano a rischiare per quelle che appaiono piccole faccende in confronto ai loro traffici.
Invece, il capitano Mariani e i suoi uomini sono costretti quotidianamente a portare avanti un estenuante braccio di ferro con una microcriminalità che spesso è una criminalità d’occasione. Ovvero una criminalità spicciola, ispirata per lo più da mancanza di senso civico, o talvolta da mancanza di carattere, fatta da gente che si mette nei guai per quattro soldi o per ragioni che, se considerate lucidamente, appaiono quasi sempre insulse.
In tale situazione frustrante, a Mariani tocca impiegare gran parte del suo scarso tempo libero, cercando di scoprire se la salma seppellita al cimitero appartiene davvero al fu Ciro Casillo. E poi a chiarire le circostanze della sua dipartita. Questo perché sia la versione ufficiale, sia le spiegazioni successive, stanno in piedi davvero a fatica.
Giovanni Taranto, giornalista di lungo corso
La fiamma spezzata, edito da Avagliano, rappresenta l’esordio narrativo di Giovanni Taranto, giornalista di lungo corso e gran conoscitore dell’area vesuviana. Taranto può dunque mettere al servizio dell’invenzione narrativa una solida, diretta esperienza.
Dettaglio importante, soprattutto pensando che si tratta di una zona ad alta concentrazione di illegalità, dove spesso non ci si può fidare nemmeno delle istituzioni, in particolare di quelle locali.
È praticamente la stessa cornice in cui si svolge la prima parte della trama di uno dei migliori film italiani usciti nel 2020, Il buco in testa di Antonio Capuano (vedi qui il trailer). Vi si respira la stessa identica aria, sebbene le due vicende siano ambientate a oltre un decennio di distanza l’una dall’altra.
La cornice è, appunto, la cosa più riuscita del romanzo, quella che lo rende gradevole come lettura e senz’altro consigliabile, anche se non a tutti i tipi di pubblico. Infatti Giovanni Taranto sembra non avere molto in simpatia la regola dello show, don’t tell (mostra, non raccontare) e non si risparmia quando c’è da descrivere qualunque fatto, cosa o sensazione.
La storia si prende tutto il tempo per essere raccontata
Non si può dire che questa scelta stilistica renda il romanzo pesante, perché si tratta di parti comunque interessanti. Ma bisogna precisarlo, onde avvisare il lettore che potrebbe essere indotto dalla mia presentazione, a credere di trovarsi davanti a un poliziottesco stile film con Maurizio Merli, pieno di movimento e dal ritmo serrato.
Invece qui la storia si prende tutto il tempo che vuole per essere raccontata, anche se il ritmo accelera nella seconda parte.
Piuttosto, se si deve muovere un appunto all’autore, è quello di aver sì costruito una valida storia con al centro un delitto, con una indagine impeccabile e una soluzione perfettamente verosimile, ma di averla raccontata senza fornire al lettore tutti gli elementi che potevano servirgli per arrivare alla soluzione da solo.
Infatti la svolta nell’indagine avviene in seguito a una particolare testimonianza, ma dei contenuti di questa testimonianza non verrà spiegato nulla fino a quando la soluzione del caso sarà rivelata.
Per dirla nel linguaggio tecnico del mystery, questo non è molto coerente con la regola numero 15 del “doppio decalogo” di Van Dine, quella per cui l’investigatore e il lettore devono avere a disposizione gli stessi dati.
Ora, in un romanzo di un certo impegno, attento a mettere in scena personaggi credibili in una realtà difficile, senza ricorrere continuamente al ruffianesimo dei facili cliché che attirano il pubblico, un appunto del genere può essere giudicato come un peccato veniale. Però anche questo va detto, per onestà verso il lettore che potrebbe aspettarsi di leggere un giallo di impianto tradizionale, quello che peraltro sta incontrando un nuovo e vasto successo in questo periodo.