Chiedere a Javier Marías il motivo che lo ha indotto a scrivere Tomás Nevinson – che per sua ammissione non è “precisamente il seguito” del fortunatissimo Berta Isla (2018), ma con il quale “forma una coppia”, equivale a chiedere al suo protagonista,
di padre inglese e madre spagnola,
occhi inquieti, brillante, impenetrabile, fascinoso
come un pilota anni ’40,
un musicista,
un attore alla Gerard Philipe,
miracolosamente versato nelle lingue
e dalla cultura oxoniana sconfinata che gli rende familiari
Jacopo da Varagine, Shakespeare, Thomas Becket, Baudelaire, i Salmi,
Blake, Eliot e l’intera letteratura russa…
le ragioni del ritorno nell’Intelligence inglese in cui era stato reclutato forzatamente con un clamoroso inganno che ha trasformato la sua vita in una “tristezza dolorosa, segreta, macchiata di nefandezze e menzogne”. Punto sul quale non sveliamo nulla per non togliere il piacere di leggere Berta Isla (trovi qui il nostro articolo).
Negli anni ’90 i servizi segreti non sono più quelli dell’iniziale apprendistato: prevalgono indolenza, sconcerto, confusione.
Il ritorno di Tomás Nevinson a Madrid
Congedatosi consensualmente nel 1994, scoperto il raggiro e rientrato a Madrid dopo dodici anni di latitanza forzata, Tomás Nevinson diviene ospite confidenziale della sua famiglia perduta anche per “tenera reminiscenza d’affetto” verso i figli che ha visto a malapena nascere. Comunque Berta, la moglie, non lo respinge:
“Non si rinuncia ad un fantasma che si ama: a un marito inutile, sconfitto, introverso e uggioso sì”.
Né riesce ad odiarlo “per curiosità o distrazione”.
Ma a Tomás Nevinson “diventa insopportabile tornare ad essere nessuno dopo che si è stati qualcuno”, pur vivendo nel rischio e nell’impostura, e si è creduto di “poter fare inarcare un sopracciglio all’universo, alterare con la propria influenza il corso dei destini altrui, produrre un effetto sul mondo”.
Questo anche se una collega emergente vede in lui un eccentrico trofeo dei tempi eroici della Guerra Fredda e anche se “tutto sarebbe stato identico se non avessi mosso un dito, se non fossi esistito e non mi fossi sporcato le mani”.
Alla fine deve ammettere di sentirsi a suo agio nella solitudine inquieta e inorridita di un’identità presa a prestito che risparmia, se non redime, la coscienza di atti terribili nell’illusione di operare nell’interesse ultimo e superiore dello Stato.
Del resto l’unico modo per non porsi letali domande sull’inutilità di quello che si è fatto in un passato è continuare a farlo. La sola possibilità di giustificare una condotta torbida è continuare ad intorbidarla, non diversamente dalle organizzazioni terroristiche, mafiose, o dagli assassini seriali. Quasi nessuno ha il coraggio di Lady Macbeth, l’immancabile presenza shakespeariana del romanzo, proprio come Enrico V lo era stato in Berta Isla: “Abbiamo commesso delle infamie senza trarne profitto”.
Dagli agenti segreti la gente comune esige sicurezza senza macchie sulla coscienza: “se sbagliano sono negligenti incapaci, se raggiungono lo scopo brutali assassini”.
Bertram Tupra dell’MI5 britannico
Per non soccombere al rimorso si può solo tornare a combattere nemici concreti, incarnazione del nemico astratto che rischia di annientarci. Non rimane “che percorrere la via sbagliata e sbagliare ancora”.
Costruendosi un alibi, Tomás Nevinson deposita la propria devozione in una persona come Tupra, l’alto esponente dell’MI5 britannico che, intuitene le non comuni capacità, lo incastrò. E non esita a richiamarlo perché dai Servizi non si esce, si è solo in permesso/aspettativa sino a quando “non si torna utili alla difesa del Regno”.
Erudito, sprezzante, cinico, spietato, “occhi canzonatori e placidi color ghiaccio marino”, Tupra è l’assoluto coprotagonista, mentre svolgeva un ruolo secondario in Berta Isla. Ha una subdola abilità nell’imporre le proprie condizioni e una insinuante forza di persuasione, in grado di conquistargli lealtà incrollabili quanto inspiegabili, esattamente come quella di Nevinson.
In una cittadina del nord-ovest della Spagna…
In una cittadina il cui nome di fantasia è Ruán, vivono tre donne.
Inés Marzán, nubile, “corpo vorace senza pudori né timidezze” come un personaggio di Almodovar, amabile e lieve fra i tavoli del suo ristorante, taciturna, scettica.
Celia Bayo, insegnante, moglie di un assessore comunale eccentrico e corrotto. Intelligenza altruista, spontanea, permissiva, “cuore semplice”.
María Viana, sposata a un facoltoso e brutale costruttore dell’alta società. Agiata, cosmopolita, involontariamente sensuale, naturalmente seducente, riservata e disillusa, irraggiungibile.
Una di loro è, dovrebbe essere, una militante basca dell’ETA, attiva nei due tragici attentati dell’87 a Barcellona e Saragozza.
Le persone si stancano dell’odio, le organizzazioni criminali no, “la crudeltà, la fede, la follia, la stupidità sono contagiose” e il mostro del terrorismo deve essere schiacciato.
Spetta a Tomás Nevinson smascherare l’estremista, fornire le prove per la sua incriminazione.
Mi fermo rigorosamente qui per non svelare nulla della seconda parte, la più felice dopo una prima a tratti macchinosa e didascalica, per l’enfatizzazione eccessiva dei dati documentali e la massiccia presenza di citazioni.
Certo l’ambivalenza gnoseologica che connota la produzione di Marias – riflessa in una parallela ambivalenza narrativa – viene, almeno apparentemente, elusa dalla volontà di analizzare le dinamiche latenti dello stragismo iberico anni ’80-’90.
I terroristi non sono patrioti rivoluzionari ma solo assassini, tanto più astuti e spietati, quanto più idolatrati e ritenuti degli idealisti circonfusi di un’aura eroica.
“Emotivamente blindati e mentalmente svuotati, per loro gli altri non esistono, sono solo tiranni”.
La riflessione sul male
La riflessione è sulla colpa, sul male, sulla morte indotta, provocata, voluta. Uccidere potrebbe non essere un atto così estremo “se solo si sa quali delitti annuncia di voler commettere chi si uccide, quante vite innocenti si salveranno al prezzo di un primo sparo”, come accadde nella realtà Friedrich Reck-Malleczewen, medico e scrittore cattolico, che poteva eliminare Hitler nel 1932 all’Osteria Bavaria di Monaco e, nella finzione, a Walter Pidgeon in Duello mortale di Fritz Lang (1941). Non si può essere pigri o sprezzanti e mancare l’occasione di eliminare chi produrrà orrori.
Ma agire allo stesso modo, sulla base di labili, non comprovati indizi, nei confronti di una donna che dopo dieci anni avrebbe potuto redimersi e costruirsi un’esistenza diversa?
Codici e tribunali sanciscono la decadenza dei reati, pongono un limite al castigo, “passati venti anni qualunque fatto accaduto si cancella e i conti con l’omicida si possono regolare solo al di fuori della legalità”.
O forse nulla deve essere cancellato, mai. Le atrocità di secoli sbiadiscono, diventano astratte, si tramutano in racconti, quelle che ancora si ricordano cadono in prescrizione per il consesso civile ma non per chi le ha subite e patite.
Rimane la sensazione, non ce ne vogliano i cultori di Marías fra i quali ci annoveriamo per montaliana “lunga fedeltà”, che Tomás Nevinson perda, di misura, il confronto con Berta Isla. Ammesso che tali confronti abbiano senso.