L’America vista dal cielo
Al Museo di Roma in Trastevere è in corso – fino al 30 aprile – la mostra “Prima donna. Margaret Bourke-White” in cui si possono ammirare gli scatti di una delle più grandi fotografe mai esistite. L’hanno visitata e ne scrivono in questo articolo, Tiziana Zita e Marco Melillo.
Arrampicata sulla cima del grattacielo più alto del mondo per scattare le sue foto, sprofondata nel cuore della terra nelle miniere d’Africa, adorava volare, ha girato tutti i continenti, è stata in zone di guerra, si è rotolata nelle trincee italiane. Prima corrispondente di guerra donna, sembra che Margaret Bourke-White non avesse paura di niente.
Un grande talento, unito a una fortissima determinazione.
Sempre alla moda, con il soprabito rosso sgargiante, curata ed elegante. Margaret Bourke-White era una specie di supereroe.
Sospesa sul cielo di Manhattan, si sporge sulla punta di una garguglia del Chrysler, all’epoca il grattacielo più alto di New York, dove al sessantunesimo piano ebbe il suo studio.
Amava l’altezza vertiginosa. La sua passione per la fotografia era pari a quella per il volo e “L’America vista dall’alto” fu il grandioso reportage che le permise di giocare con le distanze.
Racconta nella sua autobiografia (Portrait of Myself) che sul Crysler imparò a cavarsela grazie a un trucco che le avevano insegnato carpentieri e saldatori: “Se ti trovi a trecento metri d’altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma; i problemi sono esattamente gli stessi”.
Sparare
“I fotografi vivono tutto molto velocemente; l’esperienza ci insegna ad affinare la nostra abilità, ad afferrare al volo i tratti salienti, i punti forti di una situazione. Quel momento perfetto e denso di significato, così essenziale da catturare, spesso è il più effimero”.
Quanto questo sia vero lo dimostra un aneddoto che ha raccontato in un’intervista visibile alla mostra. In una particolare circostanza le chiesero se sapesse sparare e, visto che doveva trattarsi di una situazione pericolosa, le imposero di imparare. Lei andò al poligono e sparò i primi tre colpi facendo tre centri, fra lo stupore degli altri e anche suo. Poi sparò altri 25 colpi e in 22 centrò il bersaglio.
La spiegazione è che lei era abituata a cogliere velocemente il momento, a puntarlo e a scattare con la massima precisione. Era abituata a mirare e “sparare” (to shoot in inglese) con la macchina fotografica, tenendo la mano ben ferma, proprio come un tiratore esperto.
Fotografie e acciaierie
La passione per la fotografia le derivava dal padre, ingegnere e inventore che le trasmise anche l’amore per la tecnologia. Fu sempre il padre a portarla, da bambina, in una fonderia: “Per me, a quell’età, una fonderia rappresentava l’inizio e la fine di ogni bellezza”.
Dopo un primo burrascoso matrimonio a vent’anni, seguito dal divorzio a ventidue, si trasferì a Cleveland, città di industrie e acciaierie. Lì affrontò fornaci, ponti, ferrovie e altiforni che rischiavano di fonderle la macchina fotografica.
Dotata di una volontà di ferro, oltre che di un grande talento, Margaret Bourke-White diventerà la prima fotografa d’industria.
Fortune
Niente poteva distoglierla dalla sua passione. Che si trattasse di architettura industriale, colate d’acciaio, macchinari, o lavoratori, Bourke-White trovava la bellezza in tutto quello che fotografava.
Impressionato dalle sue foto delle acciaierie, nel 1929 Henry Luce la invitò a New York per partecipare al nuovo progetto della rivista Fortune. Una rivista in cui le fotografie avranno un grande spazio e potranno documentare grandi avvenimenti.
Nella Germania della crisi
All’inizio del 1930, il direttore di Fortune la mandò in Europa per fotografare l’industria tedesca. La Germania era il paese europeo più colpito dalla crisi finanziaria del 1929 e l’industria manifatturiera, che si era ripresa a fatica dopo la guerra, era sul punto di crollare.
Tuttavia Margaret Bourke-White era soprattutto attratta dalla misteriosa Unione Sovietica, un po’ perché era difficilissimo entrarci – era completamente blindata per i fotografi – un po’ perché incuriosita dai successi del piano quinquennale (1928 1932) deciso da Stalin e che in controtendenza con la crisi occidentale stava raggiungendo tutti gli obiettivi prefissati.
Mentre l’America versava in una durissima crisi economica, l’Unione Sovietica passava rapidamente dall’arretratezza all’industrializzazione. Negli Stati Uniti c’era molta curiosità su quello che accadeva in URSS e molti americani pensavano che l’economia dei sovietici potesse offrire un’alternativa al capitalismo che stava crollando nella Grande Depressione.
Dopo cinque settimane passate in Germania a fotografare la Ruhr, finalmente ottenne il visto per l’URSS e prese il treno per Mosca con un’enorme attrezzatura fotografica.
La prima che poté fotografare l’Unione Sovietica
I sovietici, espertissimi di propaganda, capirono subito le potenzialità di Bourke-White e la spedirono a fotografare le grandi conquiste industriali del compagno Stalin, con la qualifica di ospite del governo sovietico. Fu accompagnata da una giovane traduttrice – che probabilmente aveva anche il compito di tenerla sotto controllo – e partì per quella grande avventura in cui rifiutò cinque proposte di matrimonio e scattò 800 foto.
Le sue fotografie degli impianti industriali sono esaltanti e in qualche modo ricordano le idee del Futurismo russo, che verrà bandito un anno dopo e sostituito con il realismo socialista, voluto da Stalin per irreggimentare la cultura al servizio della propaganda.
Metallo, fuoco, movimento, macchine gigantesche furono i soggetti che la fotografa prediligeva. La sua tecnica sopraffina li esaltava dando alle sue foto il senso drammatico.
Quando nel 1941 Bourke-White tornò in Unione Sovietica i sui scatti furono molto diversi e influenzati dal realismo socialista. Immagini di vita bucolica e scolaresche felici; riuscì anche a realizzare uno scoop eccezionale: il ritratto di Stalin. Ma di lì a pochi giorni la situazione cambiò. Margaret si trovò a Mosca quando la Germania nazista ruppe il patto di non aggressione stipulato da Hitler e Stalin e i tedeschi invasero la Russia. Era la sola fotografa straniera in Unione Sovietica e fotografò Mosca sotto i bombardamenti.
Torniamo al 1931. Bourke-White, fiera del suo bottino di fotografie, le mandò direttamente alla spedizione senza passare per il Glavlit (ministero della cultura e propaganda creato nel 1922), questo costerà alla sua accompagnatrice, Lida Ivanovna, una convocazione alla Lubianca e la sua scomparsa nelle nebbie della macchina repressiva sovietica.
Alla fine il ministero valuterà le foto utili per aiutare l’immagine dell’URSS negli Stati Uniti e darà il via libera.
Tornata a casa, Bourke-White pubblicherà il libro Eyes on Russia (sguardi sulla Russia) selezionando 40 delle 800 foto scattate.
Life
La svolta professionale avverrà il 23 novembre 1936, quando la sua fotografia della diga di Fort Peck troneggerà sulla prima copertina di Life, celebrando il New Deal roosveltiano a cui Margaret aveva aderito entusiasta come quasi tutti i giovani intellettuali progressisti americani. Fu di nuovo Henry Luce a chiamarla in quella nuova avventura editoriale.
Life sarà la sua “casa” fotografica. Era una rivista molto giovane e informale e aveva un ritmo di lavoro frenetico. Era eccitante collaborare alla creazione di un nuovo giornale e niente sembrava troppo difficile per loro.
“Trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, qualcosa che solo tu puoi trovare perché oltre a essere un fotografo sei un essere umano un po’ speciale, capace di guardare in profondità dove altri tirerebbero dritto: questo era il nostro modo di lavorare a Life”.
La Grande Depressione
e il matrimonio con Caldwell
Nel ’36 mentre la Grande Depressione stava devastando gli Stati Uniti, conobbe lo scrittore Erskine Caldwell. Con lui intraprese un viaggio negli stati più poveri del Paese. Lavorarono insieme a un’inchiesta, realizzata con foto e parole. Il risultato sarà il libro You Have Seen Their Faces, pubblicato nel 1937 e pietra miliare dell’editoria fotografica.
Nel frattempo Margaret ed Erskine avevano iniziato la loro relazione. Quando si sposarono erano entrambi due celebrità e il loro matrimonio fu un evento mediatico, ma durerà solo tre anni, dal 39 al ’42.
Nei campi di concentramento
L’arrivo a Buchenwald
“Ero con la Terza armata del Generale Patton quando arrivammo a Buchenwald, appena fuori Weimar. Patton rimase talmente sconvolto da chiedere di portare lì un migliaio di civili: che tutti vedessero quel che i loro leader avevano fatto. Ma la polizia militare, da parte sua, ne portò duemila. Per la prima volta ascoltai la frase che dopo di allora avrei sentito pronunciare migliaia di volte. “Non sapevamo. Non sapevamo”. Invece sapevano. Vidi e fotografai pile di corpi nudi senza vita, i pezzi di pelle tatuata usati per i paralumi, gli scheletri umani nella fornace, gli scheletri viventi che di lì a poco sarebbero morti per aver atteso troppo a lungo la liberazione. Buchenwald era qualcosa di inconcepibile per la mente umana”.
Spesso le chiedevano come fosse riuscita a fotografare tali atrocità. Ecco la sua risposta:
“Per lavorare ho dovuto coprire la mia anima con un velo. Quando fotografavo i campi, quel velo protettivo era così saldo che a malapena comprendevo cosa avevo fotografato. Tutto si rivelava in camera oscura, al momento di stampare le mie immagini. E allora era come se vedessi quegli orrori per la prima volta”.
L’India di Gandhi
Finita la guerra, nel 1946 andò a fotografare l’India nel momento di passaggio dall’impero britannico all’indipendenza, con la sanguinosa divisione in due nazioni, India e Pakistan. Nella sua autobiografia scrisse che ci mise due anni a capire la grandezza di Gandhi. Alla fine riuscì a ritrarlo davanti al suo arcolaio e, solo qualche ora dopo, l’uomo che credeva che la preghiera potesse battere la bomba atomica, venne ucciso da tre colpi di pistola.
Una casa in Connecticut
Impossibile seguire tutte le sue imprese in giro per il mondo, come la campagna d’Italia, oppure il viaggio nel Sud Africa dell’apartheid, quando si fece calare per due miglia al centro della terra dove tra gallerie umide e asfittiche, ritrasse i volti esausti e sudati di due minatori, i numeri 1139 e 5122.
Ma a un certo punto, per una terribile ironia della sorte, cominciò a soffrire di paralisi e rigidità alle dita. Nel ’57 le venne diagnosticato il morbo di Parkinson contro cui lotterà strenuamente, subendo varie operazioni e affrontando terapie per contrastarlo e impedire il tremore. In questa fase della sua vita continuò a lavorare scrivendo nella sua casa in Connecticut in mezzo alla natura.
Nel 1963 uscì la sua autobiografia, Portait of Myself, (Il mio ritratto in italiano, ma attualmente non disponibile). Morì nel 1971 a 67 anni.