“Regole di Mosca, guardati le spalle. Regole di Londra, parati il culo”.
Detto dell’MI5
L’episodio pilota di Slow Horses, la nuova serie di spionaggio di Apple TV+, scritta da Will Smith e tratta dai romanzi di Mick Herron, inizia, come un film di James Bond, con una bella scena d’azione.
Siamo in un aeroporto. L’agente dell’MI5 River Cartwright (Jack Lowden) è collegato, tramite un auricolare, alla sala di controllo e sta cercando di individuare il suo bersaglio.
– Asiatico, vent’anni. Camicia bianca e maglietta blu.
Lo vede. E lo perde quasi subito, complici alcuni addetti alle pulizie.
Ma è solo un attimo. Il bersaglio è ancora lì. E si sta dirigendo verso il gate. Ha uno zaino in spalla.
River chiede di poterlo intercettare.
Dopo averci pensato un attimo, Diana Taverner, “Lady D.” (Kristin Scott Thomas), la seconda scrivania dell’MI5, autorizza l’operazione.
I “cani”, ovvero gli agenti che si occupano della “bassa manovalanza – l’equivalente herroniano dei “lampionai” di John Le Carré – partono; River con loro.
In un attimo sono addosso al bersaglio che viene gettato a terra e perquisito.
È pulito: non ha nessuna bomba.
River ha commesso un errore. La descrizione era: “camicia blu, maglietta bianca”, NON “camicia bianca e maglietta blu”.
Ma è lui ad avere capito male o è “Il Ragno”, l’agente all’altro capo dell’auricolare, ad avergli dato un’informazione sbagliata, magari per danneggiarlo?
Lo scopriremo poi.
“Lady D.” ordina a River di ritirarsi.
Lui non ci pensa proprio.
Localizza il vero terrorista. E inizia a inseguirlo, disobbedendo all’ordine e combinandone di ogni.
Il sospettato scambia il suo zaino con un altro.
Ora l’MI5 è sicuro che si tratti di lui.
L’aeroporto viene evacuato.
River continua a seguire l’uomo, mentre anche i cani convergono su di lui. Ma sono ancora lontani.
River no, lui gli è alle calcagna. Il terrorista se ne accorge e inizia a correre.
Il nostro lo insegue. Atterra in malo modo un poliziotto che cerca di fermarlo.
Fa un gran casino.
Il terrorista arriva sulla banchina della metropolitana e si ferma: è in trappola.
River gli punta contro la pistola. Gli intima di arrendersi.
Il terrorista gli mostra il detonatore che ha in mano. Il dito è già sul pulsante.
Un tempo, il poco che serve per mostrare la frustrazione sul volto di River Cartwright, poi il terrorista preme il pulsante del detonatore.
Lo schermo diventa bianco.
SIGLA.
La spy-story, come genere letterario
Nasce nel 1907, con l’uscita de L’agente segreto di Joseph Conrad, se non proprio il primo romanzo di spionaggio certificato, sicuramente quello che raggiunge il maggior numero di lettori e che inizia a formare un nuovo immaginario.
Negli anni successivi e a cavallo delle due guerre – un grande serbatoio di idee e di scenari in cui far muovere spie e agenti segreti – sono molti gli scrittori a dedicarsi alla spy-story.
I migliori? Eric Ambler e Graham Greene, autori di capolavori come La maschera di Dimitrios e Quinta colonna, giusto per citare i primi due che mi vengono in mente.
Ma è superato il secondo conflitto mondiale, dentro la guerra fredda, che la spy-story trova il suo habitat naturale e i suoi maggiori interpreti: su tutti Ian Fleming e David Cornwell, in arte John Le Carré, il più grande autore di spy-stories di tutta la storia della letteratura.
Ed è proprio all’opera di Le Carré, in particolare al ciclo di George Smiley, che si ispira Mick Herron quando, nel 2010 scrive Slow Horses, il primo romanzo della serie della Slough House, la casa nella palude.
Esiste a Londra una destinazione in cui nessun agente dell’MI5, il servizio di sicurezza britannico, vorrebbe mai essere mandato. La chiamano, appunto, “La casa nella palude” o “La palude” (nella serie “Il pantano”). È una palazzina londinese, come tante, che sta in Aldersgate Street, dalle parti della stazione della metropolitana di Barbican. Qui vengono mandati tutti gli agenti che hanno fatto una qualche cazzata – dimenticare un documento top-secret su un treno piuttosto che sbagliare a identificare un terrorista, provocando l’esplosione della metropolitana – che non possono essere licenziati, ma a cui non verranno mai più affidati lavori importanti. Sono messi lì, a fare cose inutili o poco gratificanti, nella speranza che prima o poi, si licenzino da soli, liberando l’MI5 dalla loro presenza.
Sono loro, questi agenti falliti, i “cavalli lenti” del titolo originale, “brocchi” nei romanzi e “ronzini” nella serie.
A comandarli – o, meglio, a spadroneggiare sulle loro vite – è una vecchia spia di nome Jackson Lamb: un agente che ha visto gli ultimi giorni della guerra fredda e che “quando hanno tirato giù il muro se ne è costruito un altro, e da allora ci vive dietro”.
Lamb è una “bestia”, un alcolista sciatto, scorbutico e con problemi di flatulenza, il cui unico interesse nella vita pare essere quello di vessare i sottoposti.
Insomma, uno di quei personaggi che conquistano all’istante il cuore dei lettori… o, nel nostro caso, degli spettatori.
Mick Herron racconta così la nascita di Lamb,
il momento in cui gli è apparso davanti per la prima volta:
“Mi stava aspettando nel suo ufficio. È così che me lo ricordo. Sapevo che sarebbe stato amaro e disilluso e che avrebbe gestito la Palude come un suo feudo personale – ‘Non penso a voi come una squadra, penso a voi come un danno collaterale’ – ma non immaginavo che sarebbe stato così brutale, così abile nel sondare le debolezze delle persone per poi colpirle con ferocia. O che le sue abitudini personali sarebbero state così poco igieniche. Né avevo immaginato che sarebbe stato così spaventosamente facile scrivere di lui, vista la sua lontananza da me. Ma poi ho pensato che io stesso avevo lavorato tanti anni in un ufficio, un open space per l’esattezza, e che chiunque abbia fatto un’esperienza simile alla mia sa quanto la bile e il veleno siano sempre lì, a portata di mano. E, di conseguenza, non è del tutto vero che Jackson Lamb mi sia apparso già completamente formato dentro il suo ufficio; forse lui era, da sempre, dentro di me.”
La Talpa incontra The Office
Non ricordo il nome del critico inglese che ha definito Slow Horses in questo modo, ma credo che difficilmente si possa mettere insieme una definizione migliore per questa serie.
Che è ottima, scritta bene, girata e soprattutto, recitata, a livelli stellari. È molto divertente, piena di colpi di scena e ha un gran bel finale, cosa, ultimamente, non così scontata.
E poi c’è Jackson Lamb, interpretato con misurata gigioneria, perfetta per il ruolo, da un Gary Oldman in stato di grazia.
Se i personaggi di Le Carré erano testimoni dell’avanzare di quella zona grigia che rendeva le decisioni da prendere sempre più complesse, almeno da un punto di vista morale, pur tenendo comunque ben fermo il fatto che un nemico esisteva ed era la Russia, per i ronzini non c’è più nemmeno un nemico esterno da combattere.
Sì, è vero, nei romanzi possono esserci dei terroristi nazionalisti, arabi o di qualche paese nemico con cui fare i conti – per quanto l’MI5, contrariamente all’MI6 di Bond e Smiley, si occupi solo di quello che accade sul suolo britannico, quindi addio esotismo e luoghi da sogno. Ma il nemico dei nostri è quasi esclusivamente interno: gli stessi servizi segreti inglesi, piuttosto che la Cia.
Ed è anche qui, nella scelta di far combattere ai suoi antieroi una guerra contro i loro stessi superiori, uno dei punti di originalità della serie.
“La Talpa incontra The Office” appunto.
Ma torniamo nella Palude…
Dopo il fallimento della missione in aeroporto, che scopriremo poi essere stata solo un’esercitazione, River Cartwright viene mandato alla Palude.
E qui inizia la storia.
Perché lui, nipote di David Cartwright (Jonathan Price), una leggenda dell’MI5, lì non ci vuole proprio stare. E, pur sapendo che nessuno è mai riuscito ad andarsene, fa il possibile per tornare nelle grazie di “Lady D.”
Ovviamente non ci riuscirà – se così fosse Herron avrebbe scritto un solo romanzo di questa serie e non otto – ma, se non il mondo, almeno avrà salvato sé stesso, insieme agli altri ronzini e, soprattutto, a Jackson Lamb che, con il procedere della storia, come ovvio che sia, si rivelerà meno peggio di quello che sembrava all’inizio. Perché, a dispetto di tutto: della stanchezza, della flatulenza, della mole, dell’alcolismo, la vecchia spia è sempre lì, pronta a vendicarsi di chiunque cerchi si incastrare lui o i suoi ronzini.
C’è un momento, nella terza puntata, in cui “Lady D.”, la vera antagonista dei nostri, e Lamb si incontrano, di notte, su una panchina – in ogni romanzo c’è sempre un momento in cui i due lo fanno, una sorta di appuntamento fisso per la gioia dei fan. Lei, vedendolo così preso per quello che sta accadendo ai suoi uomini, gli chiede, quasi sorpresa: – Ti importa di loro, vero?
E Lamb risponde: – No, penso che siano un branco di fottuti perdenti. – Poi aggiunge: – Ma sono i miei perdenti.
E come si fa a non amare i perdenti?