Tempo scaduto è un racconto di Donatello Alunni Pierucci, regista di serie Tv tra cui Un posto al sole, che si è anche cimentato con la narrativa di genere giallo. In questo racconto ci riporta negli anni Settanta, in una città del nord, in una sorta di comune: ecco cosa succedeva in quegli anni.
Abitavo una casa di ringhiera nel centro storico.
Era un agglomerato fatiscente di abitazioni insalubri, non ancora intaccato dalla speculazione. Di lì a pochi anni le ristrutturazioni selvagge avrebbero provocato un processo di gentrificazione con conseguente aumento degli affitti e allontanamento della maggior parte degli abitanti originari. In quel luogo riccamente popolare, dove la solidarietà era pratica diffusa e la legalità un concetto elastico e adattabile alle circostanze, la nostra casa e i suoi abitanti erano felicemente integrati nello spirito del quartiere.
Il vecchio appartamento, conquistato nonostante le resistenze di genitori incapaci di capire perché i loro figli volessero andarsene così presto il più lontano possibile, era stato inizialmente preso in affitto da me, Lucia e altri due compagni. In breve si era trasformato in una casa aperta, molto aperta se si considera che con ospiti più o meno occasionali raggiungevamo spesso e volentieri la cifra di otto, dieci, inquilini. Un continuo via vai di borse, zaini e sacchi a pelo. I nostri vecchi non capivano e si domandavano perché, in cima alle nostre aspirazioni non ci fossero lavoro, carriera, rapporti stabili.
Proprio loro che per riconquistare una vita normale avevano subito una guerra e combattuto una guerriglia di liberazione, ora annaspavano per riuscire a comprendere cosa stessimo cercando. Ma il vento che in quel periodo soffiava attraverso i muri di qualsiasi istituzione, non si era fermato davanti alle quattro pareti del nostro cadente e mal riscaldato appartamento. Era quasi impossibile resistere a quelle onde, al brodo di coltura di un rimescolamento generale d’idee, coacervo di sperimentazioni, tentativi, tentazioni e utopie.
Tra me e Lucia c’erano profondo affetto, amicizia e solidarietà, anche se non saprei dire se fossimo veramente innamorati. Il nostro rapporto, più che un’unione, era un sodalizio nei confronti della vita che stava avanzando a grandi passi intorno e dentro di noi.
All’interno della casa si condivideva tutto: sentimenti, soldi, preoccupazioni, gioie, faccende domestiche, litigi. Certe volte, anche se di rado, capitava che dovessimo trattare a tu per tu questioni spinose che riguardavano rapporti binari. In tal caso utilizzavamo un metodo peculiare. Uscivamo di casa e andavamo in luoghi neutri, dove non eravamo mai stati prima. Compivamo quindi il rituale di avvicinamento al luogo prescelto, che prevedeva di fare a piedi e in silenzio almeno gli ultimi due chilometri del percorso, per ottenere una serenità di partenza.
Quella volta era stata Lucia a chiedermi un incontro a tu per tu. Aveva deciso tutto lei e il posto prescelto mi restò oscuro fino a destinazione. Quando mi trovai davanti all’ingresso un po’ démodé del Gatto blu, rimasi sorpreso e mi chiesi come mai avesse scelto un luogo così distante dai nostri orizzonti.
Entrando nel piano-bar tutto mi sembrò fuori tempo. L’ambiente era ammuffito in un’atmosfera anni Cinquanta, sospeso in quell’epoca finita da appena tre lustri eppure così remota. Incrociai la mia immagine riflessa in uno specchio e forse per la prima volta considerai l’inadeguatezza del mio abbigliamento rispetto al luogo in cui mi trovavo. Guardai i jeans consumati, che avevo lavati in mare e raschiati con pietra pomice, e sorridendo pensai che per quella volta potevo sorvolare sulla questione.
Ci sedemmo a un tavolo appartato, scortati da un mellifluo cameriere che suggerì whisky con ghiaccio, una bevanda consumata più dai cinquantenni che da noi. Con mia ulteriore sorpresa Lucia accettò il consiglio e prese un Glenlivet di puro malto, mentre io mi rifugiai in un poco impegnativo gin tonic.
Un pianoforte cominciò a diffondere le sue note e una voce di donna lo accompagnò, ma dal nostro tavolo non riuscivamo a vedere né l’uno né l’altra. Era un ritmo lontano anni luce dalla musica che ascoltavamo di solito e che si suonava fuori, nei parchi, nelle piazze, nei concerti. Ma era pur sempre una canzone francese e mi lasciai andare a quella melodia portata al successo da Edith Piaf. Era un brano a me familiare perché mia madre, insegnante di francese, coltivava la cultura transalpina e lo avevo ascoltato fin da bambino. Era entrato nella categoria di ricordi che si risvegliano al minimo accenno, come succede con la memoria olfattiva.
Credetti che anche Lucia fosse presa dalla musica perché era rimasta in silenzio dall’inizio della canzone. Il cameriere ci riportò alla realtà depositandoci di fronte bicchieri, tovagliolini e una ciotola di pistacchi tostati. Quindi si allontanò dietro l’angolo, lo stesso da dove pochi secondi dopo comparve la cantante. Una bruna prosperosa tra i quaranta e i cinquanta, fasciata in un tubino nero, si avvicinò al nostro tavolo col suo ammiccante gorgheggio. Guardai Lucia negli occhi e le lanciai un bacio a mezz’aria. Sorridendo con atteggiamento un po’ spavaldo alzai il bicchiere come un indice proteso, in un gesto di complicità. Fu allora che lei parlò e disse un’unica brevissima parola.
– Parto.
L’indice di vetro rimase a mezz’aria e il sorriso stampato a mezza bocca. Non ero sicuro di aver capito, il canto aveva superato la sua voce.
– Hai detto parto?
– Sì, parto.
Mi sentii a disagio.
La cantante si allontanò come avesse intuito che per noi la musica stava per cambiare.
– Come… parti…
– Canada.
– Ah… e da dove nasce questa cosa?
Ero perturbato. Non afferravo il senso profondo della decisione annunciata. Mille volte avevamo fantasticato su viaggi in terre lontane, l’Oriente e le sue filosofie, le rovine in Messico, l’Africa misteriosa. Ma non di quello stava parlando. Eppure non riuscivo a capire quanto ci fosse di ponderato e quanto di reazione a qualcosa di cui non ero a conoscenza.
– Ho degli zii là… e dei cugini. Sono stanca di trascinarmi così senza concludere niente. Stanno mettendo in piedi un progetto di lavoro, un asilo e un consultorio in una riserva indiana. Continuiamo a dire che bisogna lottare per un mondo migliore. Ho deciso di farlo in concreto. Qui ormai ci si sente appagati al solo scendere in piazza a manifestare, ma poi finisce tutto lì.
– Stiamo cercando nel nostro piccolo di mettere in pratica le nostre idee.
– Appunto, nel nostro piccolo. Io voglio prendere in mano la mia vita e andare oltre.
– Quella ce l’hai in mano e puoi fare ciò che vuoi… infatti hai deciso di partire senza il bisogno di parlarne con nessuno di noi.
– Sapevo che me lo avresti rinfacciato, ma credimi, è meglio.
– E pensi di cavartela così facilmente?
– Sì.
– E noi due?
– Il nostro è sempre stato un rapporto aperto, non ci siamo mai promessi per tutta la vita.
– Questo è vero. Ma stiamo bene insieme.
– Senti… io ti ho voluto bene, e te ne voglio ancora… ma ora che sono riuscita a prendere questa decisione, niente e nessuno può farmi cambiare idea.
Ingoiò un abbondante sorso di whisky e le si arricciò il labbro superiore. La guardavo perplesso e allo stesso tempo affascinato. Gli occhi le brillavano. Aveva una forza e una determinazione quasi cieche, che non le avevo mai conosciuto prima.
– Nessuno vuole farti cambiare idea, figurati. Anzi, accidenti… è veramente un progetto affascinante… solo, mi sembra una decisione un po’ improvvisa. Da quanto ci stavi pensando?
– Da un po’.
– Perché non ne hai parlato? Non è mica un segreto, anzi è una cosa bella.
– Non mi andava di parlarne, forse per scaramanzia. E poi è come se fosse un segreto, non lo sa nessuno.
La cantante era tornata dalle nostre parti, ma continuava a stare a una certa distanza dal nostro tavolo. Ora era passata allo storico successo di Fred Bongusto, Spaghetti a Detroit.
– Dai, raccontami qualcosa di più.
– Te l’ho detto, si tratta di mettere in piedi un asilo e un consultorio “con” e “per” le donne di una tribù indiana, in una riserva in territorio canadese. Sto per fare qualcosa che potrebbe cambiare, credo in meglio, il futuro di quella comunità.
– Anche il tuo.
– Sì e lo voglio fare, per me e per gli altri. Nella cultura pellerossa ci sono embrioni di comunismo…
La interruppi con una domanda che mi attraversò la mente a bruciapelo.
– Ed è contemplata l’ipotesi che io possa venire con te?
Mi guardò un po’ perplessa. Non aveva preso in considerazione che le prospettassi quella soluzione.
– Be’, adesso non credo sia possibile, ma se pensi davvero di voler passare dall’altra parte dell’oceano, ti preparerò il terreno e potrai raggiungermi.
Ebbi la sensazione che volesse darmi un contentino, tenermi buono, come se in cuor suo sapesse che non sarebbe mai successo. Non glielo feci notare e mi accontentai di quella generica promessa.
Terminò il whisky mentre io non avevo ancora assaggiato il gin tonic. Lo feci con due piccoli e rapidi sorsi.
– E quando vorresti partire?
– La settimana prossima.
– La settimana prossima? Così presto?!
Aveva già preparato ogni cosa e nessuno di noi s’era accorto di niente. Non ero pronto ad un’eventualità del genere.
– Ti dispiace?
– Certo che mi dispiace. Cioè, sono contento per te, ma chissà quanto passerà prima di vederci…
– Ho voluto dirtelo per primo, perché per me sei stato importante… cioè lo sei ancora.
Aveva parlato di me al passato e sentii un nodo alla gola. Se non era un addio poco ci mancava. Capivo che stava omettendo qualcosa e procedetti a tentoni nel sondare i suoi sentimenti.
– Non è che c’è di mezzo un uomo, una storia improvvisa…
– Ma che dici! Te lo avrei detto. Non è una fuga dai rapporti che ho qui. Hai una scarsa considerazione di me se pensi questo.
– No, scusami, ma è che sta succedendo tutto così in fretta. Mi rimane un po’ la sensazione che tu non ci abbia voluto dare il tempo per parlarne, per discuterne. Abbiamo sempre condiviso sogni e progetti, abbiamo sempre affrontato apertamente le situazioni. Questa volta è come se ti fossi voluta nascondere e non capisco perché.
– Non mi sono voluta nascondere. È che non voglio subire condizionamenti.
– Sono confuso… non so cosa dire.
Cento pensieri saettavano veloci nella mia testa, spesso in contraddizione fra loro. Tristezza, senso di abbandono, ma anche nuovi orizzonti che si aprivano per Lucia. Mi piaceva la sua determinazione e il suo mettersi in gioco in prima persona.
Il repertorio canoro aveva nel frattempo virato sui territori della mala milanese. Ascoltammo ancora un paio di pezzi senza dirci altro, il tempo che impiegai a finire il gin tonic. Lo bevevo lentamente, neanche fosse chissà quale prezioso liquore da centellinare. Stavo solo allungando il tempo. Volevo guardare i dettagli del suo viso per poterli ricordare bene ogni volta che li avrei richiamati alla memoria. Alla fine dell’ultimo sorso ce ne andammo.
Appena fuori dal locale ci abbracciammo forte, ma la sentii lontana. Era già altrove.
Compresi perché aveva scelto quel posto per dirmi addio, voleva che il nostro commiato non fosse associabile a ciò che eravamo stati fino ad allora.
– Andiamo a casa?
– No vai tu, io ti raggiungo dopo. Ho bisogno di stare un po’ da sola.
Non la vidi mai più. Non si era portata via niente, solo i vestiti che aveva indosso e il ciondolo appeso al collo. Rappresentava le due facce della luna, una triste e una sorridente, e glielo avevo regalato quasi due estati prima, durante un viaggio in Grecia. Da allora non se lo era più tolto.
Non ho mai saputo se andò veramente in Canada. Non ebbi sue notizie per quattro anni, finché una sera non la vidi in televisione. Il telegiornale aveva aperto il sommario con la notizia di un’irruzione della polizia in un covo di Prima Linea. Lucia giaceva priva di vita in un lago di sangue. Aveva sparato e nel conflitto a fuoco che ne era seguito era stata colpita a morte.
Quando l’hanno uccisa portava ancora al collo il ciondolo con la mezzaluna.
A Marina
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Tempo scaduto è il racconto di Donatello Alunni Pierucci che abbiamo selezionato per i Racconti di Cronache. Qui trovate anche la recensione al romanzo Omicidio al 14 rosso dello stesso autore. Se volete leggere altri nostri racconti cliccate qui.
Il racconto mi ha colpito emotivamente perché il ricordo degli anni 70 è sempre molto vivo. Viene descritta bene l’atmosfera di quel periodo, la vita in comune, e come eravamo legati gli uni agli altri
Poi ci siamo persi, alcune scelte ci hanno separati, un mondo diverso ci ha trovati impreparati. Per la scelta che ha fatto la ragazza del racconto mi ricorda un compagno che ha scontato molti anni di prigione e poi è arrivata la notizia che è morto in seguito ad una caduta ad una manifestazione scontrandosi ancora con la polizia
Un prezzo alto lo abbiamo pagato un po’ tutti, volevamo costruire un mondo migliore e non ci siamo riusciti
In un periodo oscuro come quello che stiamo attraversando rievocare quei momenti potrebbe suonare nostalgico. Quello è stato il tempo della nostra gioventù, pieno di speranze, visioni, utopie e allo stesso tempo violenze e morti. Ho cercato nel mio piccolo di raccontare quell’atmosfera e mi fa piacere sentire che, almeno per te, sono riuscito nell’intento.
Ho letto il racconto con interesse.
Mi sono infilata nel tempo, che anche io ho vissuto.
Mi sentivo avvolta, e senza volere allo stesso tempo si mescolavano immagini del mio vissuto, gli indumenti, le bibite di moda…
Non c’ è dubbio che non si finisce di conoscere le persone che crediamo di amare; in un certo momento scoppiano come un fulmine. Questo può succedere da qualunque delle due parti.
È che si incomincia a sentire il tempo scaduto e prima di soffrire sentirlo dire dall’altra parte lo diciamo noi.
Sono sicura che se non lo avrebbe fatto Lucia lo avrebbe fatto lui.
Ma certo capire che le aveva nascosto un’altra vita, non è facile, anche se ancora aveva il ciondolo in collo dimostrando tanto affetto.
Mi ha sorpreso il finale come lo ha fatto al protagonista; in un certo modo mi sono sentita tradita mettendomi nel suo posto. Ma era un amore destinato a continuare ognuno per il suo cammino.
Ti ringrazio per il commento che mi ha gratificato per essere riuscito a rendere in poco spazio le atmosfere di una storia d’amore collocata in un tempo storico ben definito.
I commenti della mia generazione sono stati tutti positivi. Mi domando e sono curioso di sapere cosa ne potrebbe ricavare un giovane ventenne travolto da guerra e pandemia, anche se poi tutto è riconducibile da una parte alla natura umana e dall’altra al sistema economico/politico che sono alla radice della vita di ognuno di noi.