Corrispondenze tra Edmund de Waal e Moïse de Camondo
Lettere a Camondo di Edmund de Waal è un tripudio di rimandi, di tangenze, di intricate reti familiari e di amicizie. Lo si potrebbe quasi definire un saggio epistolare dove la parola corrispondenza non indica solo le lettere di cui è composto ma anche quel risuonare a distanza di pensieri e azioni che è più che mera coincidenza. Una corrispondenza d’amorosi sensi, per dirla con Foscolo, tra de Waal e il conte Moïse de Camondo, vissuto a Parigi, a cavallo tra XIX e XX secolo.
Un ricco banchiere ebreo, immigrato ancora bambino dall’allora Costantinopoli e morto nel 1935 in un palazzo che conserva ancora oggi il suo dono alla Francia che lo aveva accolto. Ovvero, oltre alla sua casa, la sua collezione messa insieme con gusto e pazienza. In qualche modo, la sua stessa vita, fatta di soddisfazioni quali onorificenze, titoli, incarichi e di tragedie personali, come la morte in guerra dell’amatissimo figlio.
De Waal, artista raffinato e come tutti i ceramisti avvezzo a confrontarsi con il tempo e gli imprevisti, da qualche anno ha intrapreso anche una brillante carriera di scrittore. Il suo primo libro, Un’eredità di avorio e ambra, è un memoir appassionato incentrato sulle vicissitudini della sua famiglia (trovi qui la nostra recensione).
Qui ritroviamo quella stessa attenta empatia e la cura per la memoria, più preziosa di qualunque lascito. Al centro della sua ricerca però non è più il passato degli Ephrussi e dei de Waal, ma la figura di collezionista del conte de Camondo.
Il palais de Camondo
Nelle sue installazioni de Waal presenta spesso delle sorte di moderni cabinet, scaffali che incorniciano le sue creazioni in porcellana. Sono al tempo stesso strumenti di presentazione e parte integrante dell’opera, così come il palais de Camondo che esploriamo lettera dopo lettera è contenitore e contenuto insieme. Non a caso c’è anche un antico cabinet con il suo delicato contenuto di porcellane di Sèvres, che non può non colpire l’autore. Del resto de Waal ha scritto un altro libro proprio per ripercorrere La strada bianca, ovvero l’evoluzione della porcellana nelle sue tappe storiche e geografiche.
Gli scritti di de Waal sono difficili da definire: non sono aridi saggi storici, né romanzi, né aneddotici memoir. Sono basati in effetti sugli innumerevoli fili che si annodano nelle vite delle persone, fino a dipanare ragnatele di parentele e amicizie, gusti ricercati e affinità elettive. Naturale quindi che, compiendo le ricerche d’archivio necessarie a ricostruire le vicende della propria famiglia si sia imbattuto nel conte Moïse de Camondo.
All’interno del museo dedicato a suo figlio Nissim, caduto nella Prima Guerra Mondiale, il tempo pare essersi fermato: tutto, per volontà testamentaria, è stato preservato com’era al momento della morte del conte. De Waal spulcia gli archivi e si aggira per quelle stanze che danno l’impressione di essere state appena lasciate dai proprietari.
Il tempo si sfalda: l’autore scrive le sue lettere indirizzandole al Caro amico, quel conte che per ragioni anagrafiche non ha potuto conoscere. Ma del quale sente di comprendere il senso intimo del collezionare:
So che a partire dalla dispersione è possibile realizzare qualcosa di straordinario. E che questo è un modo per dire qualcosa, per ribattere al silenzio del disprezzo. Penso, si può amare più di un luogo. Penso, si può varcare un confine e restare integri.
Ogni collezione è come una famiglia
Ogni collezione è un insieme di oggetti raccolti e messi insieme, un po’ come una famiglia che nasce dall’incontro di individui che diventano un tutt’uno e danno vita a qualcosa di diverso e unico. Oggetti spesso appartenuti ad altri collezionisti e ad altre collezioni prendono così nuovi significati: Collocate un oggetto ed esso ha assonanza con un altro. Il senso della dispersione, della diaspora, così viscerale per chi ne ha le conseguenze incise nella pelle e nell’animo, può allora trasformarsi in un atto creativo.
La raccolta vivifica, perché per sentire il bisogno di rimettere insieme qualcosa, bisogna sapere cosa si prova di fronte alla separazione, alla dispersione. Nel suo dialogo senza risposta de Waal cita vertiginosamente: il fotografo Atget, Marcel Proust, il critico Walter Benjamin, Émile Zola, persino l’artista americano Joseph Cornell… C’è tutto lo svolgersi della Storia: il collezionismo di fine Ottocento, l’integrazione non sempre facile della comunità ebraica, lo scandalo Dreyfus. E poi ancora, la Prima Guerra Mondiale, l’invasione nazista e la deportazione degli ebrei, la famiglia de Camondo che viene spazzata via, cenere nei campi di concentramento.
Non è il passato bensì un continuo dipanarsi del momento.
De Waal ha una scrittura simile alle sue creazioni artistiche: è minuta, accurata, essenziale e profonda. Le lettere al suo corrispondente muto sono ora di poche righe, quando le tragiche vicissitudini impongono un passo indietro, ora lunghe riflessioni. Sono intervallate a deliziose fotografie del museo e dei suoi angoli più o meno nascosti. Tutto il libro è permeato di un’assenza che non è altro che una presenza salda e comunicativa.
E de Waal, con la sua penna meditativa, ci colpisce al cuore, perché ogni singola vita fa parte di una collezione universale e la sua storia è anche la nostra.